Natura e Artificio

"Ogni secolo capace di produrre poesia è stato, sinora, un secolo artificiale, e l'opera che ci sembra il prodotto più semplice e naturale del suo genere è probabilmente il frutto dello sforzo più premeditato e consapevole. perchè la natura è sempre in arretrato sui tempi. Solo un grande artista può essere completamente moderno." (O. Wilde)

"Egli [Swinburne] si sforza di parlare con il respiro del vento e delle onde... E' il primo poeta lirico che abbia tentato una rinuncia assoluta alla propria personalità, e ci sia riuscito. Abbiamo il canto, ma non sappiamo mai chi sia a cantare... A parte il tuono e lo spelndore delle parole, non ci dice nulla. Abbiamo spesso udito interpretazioni della Natura ad opera dell'uomo; ora sappiamo come la Natura interpreta l'uomo, e stranamente essa ha ben poco da dire. Forma e libertà sono il suo vago messaggio. Ci assorda con il suo clangore." (O. Wilde, in un articolo sulle nuove poesie di Swinburne, "Poems and Ballads", 1889)

"Credo che la natura ci infligga le leggi di Sparta e del termitaio. Bisogna seguirle? Dove si arrestano le nostre prerogative? dove inizia la zona interdetta?" (J. Cocteau)

Nonostante le massime citate provengano per la maggior parte dalla feconda penna di Oscar Wilde, che tratta lo stesso argomento più specificatamente nel saggio "Declino della menzogna", è importante sapere che tutti i dandies, chi in modo più accentuato, e chi più nascostamente, disprezzano la Natura e le sue leggi. Essa non è artisticamente compiuta, e per compiere una tale opera di correzione si ha bisogno della misurata ed ispirata mano di un artista. A chi faccia notare ad un dandy la bellezza delle stagioni, delle varie foggie degli alberi e dei fiori, otterrà come risposta: sì, ma essa non può far altro; (al giornalista che chiedeva a Wilde cosa ne pensasse delle cascate del Niagara, il poeta rispose che le aveva trovate terribilmente noiose e per nulla stupefacenti; le avrebbe trovate di un qualche interesse se l'acqua, che cadeva incessantemente nella stessa direzione, avesse all'improvviso cambiato corso...). Persino i fiori, che il dandy ama profondamente - egli li preferisce incrociati, studiati e rielaborati a regola d'arte.

Il primo dovere del dandy è, infatti, quello di essere il più artificiale possibile. Da qui i gesti assurdamente misurati, le pose esagerate, le frasi stravaganti, e, non ultimo, il vestiario: non è pudicizia quella del dandy, che lo costringe a nascondere il proprio corpo con stoffe raffinate, bensì i dogmi estetici "Niente deve rivelare il corpo se non il corpo"; "Fa la tua vita come si fa un'opera d'arte"; non lasciare quindi al caso, alla Natura, il compito di decidere l'andamento dell'esistenza; non lasciare che sia lei a controllare i bisogni del corpo, ma che sia la volontà stessa dell'artista a comandarli, a suo piacimento, e a regola d'arte. Da qui anche la 'diffidenza' del dandy per la donna (e viceversa), che Baudelaire definisce "naturale, e quindi il contrario del Dandy".

Lo scottante tema, riproposto da tutti i dandies nel corso dei secoli, del rapporto tra Arte, Natura e Vita, è sempre stato in grado di suscitare grandi polemiche e critiche, come il seguente saggio di Charles Baudelaire, facente parte del libro dedicato a Costantin Guy "Il Pittore della vita moderna", in cui il poeta si fa cantore della Bellezza, dell'Arte, e, certamente, del Dandismo:

ELOGIO DELLA TRUCCATURA
C'è una canzone, talmente triviale e stupida che non si può citare in un lavoro che ha qualche pretesa di serietà, ma che traduce benissimo, in stile da vaudelville, l'estetica della gente che non pensa. La natura abbellisce la bellezza! E' presumibile che il poeta, se avesse potuto parlare in francese, avrebbe detto: la semplicità abbellisce la bellezza! Il che equivale a questa verità affatto inattesa: il nulla abbellisce ciò che è. La maggior parte degli errori relativi al bello provengono dalla falsa concezione che il secolo decimottavo ha della morale. La natura fu considerata in quel tempo come base, sorgente e tipo di tutto il bene e di tutto il bello possibile. La negazione del peccato originale non ebbe parte nell'accecamento generale di quell'epoca. Se tuttavia acconsentiamo a riferirci semplicemente al fatto visibile, all'esperienza di tutte le età e alla gazette des tribunaux, vedremo che la natura non insegna nulla, o quasi nulla, cioè che essa costringe l'uomo a dormire, e bere, a mangiare e a garantirsi, bene o male, dalle ostilità dell'atmosfera. E' proprio la natura che spinge l'uomo ad uccidere il suo simile, a mangiarlo, a sequestrarlo, a torturarlo; poichè, appena usciamo dall'ordine della necessità e dei bisogni per entrare in quello del lusso e dei piaceri, vediamo che la natura non può consigliare che il delitto. Appunto questa infallibile natura ha creato il parricidio e l'antropofagia, e mille altri orribili delitti che il pudore e la delicatezza ci impediscono di nominare. La filosofia invece (parlo di quella buona), la religione, ci ordina di nutrire i genitori poveri e infermi. La natura (che è solo la voce del nostro interesse) ci comanda di ucciderli. Passate in rassegna, analizzate tutto quello che è naturale, tutte le azioni e i desideri del puro uomo naturale, non troverete che orrori. Tutto ciò che è bello e nobile è il risultato della ragione e del calcolo. Il delitto, di cui l'animale umano ha attinto il gusto nel ventre della madre, è originariamente naturale. La virtù, al contrario, è artificiale, soprannaturale, giacchè, in tutti i tempi e in tutte le nazioni, ha avuto bisogno di divinità e di profeti per essere insegnata all'umanità, e l'uomo, da solo, sarebbe stato incapace di scoprirla. Il bene è sempre il prodotto di un'arte. Tutto quello che dico della natura, come cattiva consigliera in fatto di morale, e della ragione come vera redentrice e riformatrice, può essere trasformato nell'ordine del bello. Così sono incline a considerare l'ornamento come uno dei segni della primitiva nobiltà dell'anima umana. Le razze che la nostra civiltà, confusa e pervertita, tratta volentieri da selvagge, con un orgoglio e una fatuità veramente ridicoli, sanno comprendere, come sa comprendere un fanciullo, l'alta spiritualità della toeletta. Il selvaggio e il bambino attestano, con la loro ingenua aspirazione a tutto ciò che brilla, alle piume variopinte, alle stoffe cangianti, alla grandiosa maestà della forme artificiali, il loro disgusto pel reale, e dimostrano cos'è, a loro insaputa, l'immaterialità della loro anima. Guai a chi, come Luigi XV (che fu il prodotto non d'una vera civiltà ma di un ricorso di barbarie), spinge la depravazione al punto di non gustare che la semplice natura.
Si deve dunque considerare la moda come un sintomo del gusto dell'ideale che affiora nel cervello umano sopra tutto ciò che la vita naturale vi accumula di volgare, di terrestre e di immondo, come una sublime deformazione della natura, o piuttosto come un saggio permanente e successivo di riforma della natura. Così si è fatto giustamente osservare (senza scoprirne la ragione) che tutte le mode sono graziose; graziose, cioè, in una maniera relativa, giacchè ognuna è uno sforzo nuovo, più o meno felice, verso il bello; un'approssimazione qualunque d'un ideale il cui desiderio solletica senza tregua lo spirito umano non soddisfatto. Ma le mode, se si vogliono gustare bene, non si debbono considerare cose morte; tanto varrebbe, allora, ammirare le spoglie appese, losche e inerti, come la pelle di san Bartolomeo, nell'armadio di un rigattiere. Bisogna figurarsele vive, vivificate dalle belle donne, che le portarono. Solo così se ne comprenderàil senso e lo spirito. Dunque se l'aforisma: Tutte le mode sono graziose, vi sembra troppo assoluto, dite, e sarete sicuri di non ingannarvi: Tutte le mode furono legittimamente graziose.
La donna è, nel suo diritto, e compie addirittura una specie di dovere, studiandosi d'apparire magica e soprannaturale; bisogna che stupisca, che affascini; idolo, deve dorarsi per essere adorato. Deve dunque chiedere a tutte le arti i mezzi per elevarsi sopra la natura, per meglio soggiogare i cuori e colpire le menti. Poco importa che l'astuzia e l'artificio siano conosciuti da tutti, se il successoè certo e l'effetto irresistibile. Il queste considerazioni l'artista filosofo troverà facilmente la legittimazione di tutte le pratiche usate in ogni tempo dalle donne per consolidare e divinizzare, per così dire, la loro fragile bellezza. L'enumerazione di esse sarebbe infinita; ma, per limitarci a quello che il nostro tempo chiama volgarmente trucco, chi non vede che l'uso della cipria, così scioccamente stigmatizzata dai candidi filosofi, ha lo scopo e l'effetto di far scomparire dalla pelle tutte le macchie che la natura vi ha oltraggiosamente seminate, e di creare un'unità astratta nella grana e nel colore della pelle, la quale unità, come quella prodotta dalla maglia, accosta immediatamente l'essere umano alla statua, ad un essere, cioè, superiore e divino? Quanto al nero artificiale che cerchia l'occhio e al rosso che colora la parte superiore della guancia, quantunque l'uso deriva dal medesimo principio, al bisogno di superare la natura, il risultato viene a soddisfare un lato del tutto opposto. Il rosso e il nero rappresentano la vita, una vita soprannaturale ed eccessiva; quel cerchio nero rende lo sguardo più profondo e singolare, dà all'occhio un'apparenza più decisa di finestra aperta sull'infinito; il rosso, che accende i pomelli, accresce lo splendore della pupilla ed aggiunge a un bel volto femminile la passione misteriosa della sacerdotessa.
Così, se non mi fraintendete, il ritocco del viso non deve essere usato allo scopo volgare, inconfessabile, d'imitare la bella natura e di rivaleggiare con la giovinezza. Abbiamo osservato che l'artificio non abbellisce a bruttezza e non può servire che alla bellezza. Chi oserebbe assegnare all'arte la sterile funzione d'imitare la natura? Il trucco non deve nascondersi, non deve evitare di farsi vedere; può, anzi, mostrarsi, se non con affettazione, almeno con una specie di candore.
Concedo volentieri a quelli che per la loro austera gravità non possono cercare il bello nelle sue più minute affermazioni, di ridere alle mie riflessioni e di riconoscerne la puerile solennità; il loro austero giudizio non mi riguarda punto; mi accontenterò di appellarmi ai veri artisti e alle donne che hanno ricevuto nascondendo una scintilla di quel fuoco sacro del quale vorrebbero essere tutte accese. (Ch. Baudelaire, tratto da "Il pittore della vita moderna") (i corsivi sono di Baudelaire).

Ma attenzione; l'innaturalità, il sur-naturel, l'operazione di maquillage, l'artificio di Baudelaire, di Wilde, di Beardsley, e soprattutto di Beebohm, non serve a nascondere la natura, ma a nascondere l'artificio per dare al pubblico un'idea di natura. Nasconde cioè il processo di separatezza, e la maschera non è un travestimento, ma un trucco per mostrare la separatezza: l'unità di arte e vita sta nella maschera. "Il poeta è il dandy e il dandy è il poeta. Il dandy è un comportamento e il comportamento del dandy è la maschera immobile dell'impassibilità assunta come natura." (G. Franci, Il sistema del dandy)