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Malinconia

Si è detto spesso che il dandy è infelice. Non è vero, o almeno non lo è fino in fondo. Si può pensare che ciò che lo fa apparire infelice agli occhi del mondo è una delle sue abitudinarie pose. Ma non sempre è così; la malinconia del dandy, lo spleen - parola che Baudelaire, Huysmans e d'Aurevilly utilizzano spesso, come anche il termine francese ennui o la misteriosa malattia detta "dei diavoli blu" di Alfred de Vigny, che presenta tutti i precisi sintomi dello spleen - è data innanzitutto dal suo inevitabile senso d'inappartenenza. Paul Guillaume seduto, 1916; olio su tela di Amedeo Modigliani.I dandies sono esseri volti a crearsi un Io raffinato e unico, a sè; il loro stesso modo, particolare o talvolta originale, di vestire, "e in egual modo agire e vivere, senza badare alla meraviglia e allo scherno degli sciocchi, è sempre, in piccolo, segno di libertà di spirito". Uomini "che procedono nella vita guidati soltanto dalla fantasia" e dal culto della differenza contro il sistema dell'uniformità e della scontatezza (citazioni da "Passatmpi", di P. Léautaud). Il dandy 'parla' una specie di lingua straniera, minoritaria perchè fondata sulla ricerca di uno stile peculiare, assolutamente solitario e indisponibile a far scuola. Il voler crearsi tutto ciò, recitare, trasformarsi, è sinonimo di pura arte di vivere. E l'Io romantico del dandy è in grado di farsi strada solo attraverso la malinconia ("e dava il mio contento in custodia alla malinconia" dice Leopardi nello "Zibaldone"); la malinconia, a differenza della gioia, è un sentimento multiforme, sfaccettato, a volte ambiguo. E' enigmatica - è il labirinto dell'Io in cui s'aggira tutta l'arte moderna, governata dalla 'mistificazione', dagli 'atti gratuiti': due tra i riti essenziali del dandismo, dice Sartre a proposito di Baudelaire. La folla e la follìa del mondo non conoscono il piacere conturbante della malinconia, prerogativa esclusiva del dandy, dallo spirito incomprensibile per la folla perchè, come Democrito, rifiuta di farsi carico delle questioni della polis e degli uomini. Il dandy è malinconico perchè solitario, ma non dimentichiamo che malinconia non è tristezza, o insoddisfazione. Paradossalmente, il dandy è fiero e felice d'essere malinconico. "La tristezza esclude il pensiero, la malinconia se ne alimenta" scrive Savinio nella "Nuova enciclopedia". Pensiamo a quante forme la malinconia ha preso nella storia della cultura; il nihilismo, sorta di movimento letterario, filosofico e condizionatore dei modi di vivere di coloro che se ne sentivano far parte, ha avuto tra i suoi illustri pensatori, anche Albert Camus, e molti altri frivoli e malinconici dandies.
E' possibile vivere nella disperazione e non desiderare la morte? s'interroga Moravia. La disperazione, "condizione normale dell'esistenza", può giustificare la speranza. A sua volta la speranza può dare più profondità alla stessa malinconia, può rendere "intelligente" la disperazione, favorendo un'ebbrezza della mente che apre all'invenzione artistica. "Nel punto più remoto e freddo tra le sere celesti, Saturno, nume della solitudine, s'è accompagnato col genio e la malinconia, ora esaltandosi nella creatività, e ora ripiegandosi su una I am tired, dal taccuino di Beardsley.aristocratica afflizione che è contemptus mundi, disprezzo del mondo: egli è felice d'essere infelice. 'La mia allegrezza è la malinconia', scrive Michelangelo in un sonetto". (da "Vita da dandy", di S. Lanuzza) E Jacques Rigaut, dandy suicida per noia e malinconia, scrive: "Se faccio uno sforzo, riesco a ricordare questa noia che fu - pensavo - l'onore della mia gioventù, voglio dire a ricordare il peso della sua influenza senza questa volta dipenderne". Perchè, in primo luogo, il dandy si compiace della sua esistenza come se fosse uno spettatore esterno a se stesso, come se stesse leggendo un romanzo il cuo protagonista è sempre lui; egli vive, secondo Kierkegaard, in un perenne stato di esaltazione intellettuale e perciò deve necessariamente esistere fuori se stesso. Deve potersi osservare, continuando a divertiri leggendo il suo romanzo personale ("Mi sento vivere soltanto nell'istante in cui avverto la mia inesistenza. Ho bisogno di credere alla mia inesistenza per poter continuare a vivere") con la consapevolezza di poter, come Rigaut, decidere ad un certo punto di chiudere il volume: "Dilemma. Di due cose, una: non parlare, non tacere. Suicidio".