Fu ritratta da Boldini, in viola, rose rosa e levriero; un ritratto che è icona, simbolo e simulacro d’un mondo scomparso in cui, come dice Giovanni Nuvoletti, "si raccoglievano le grazie estenuate di frasi come questa: Vieni in giardino, voglio che le mie rose ti guardino". Alla marchesa Luisa Casati, Gabriele d’Annunzio rivolse simile complimento, telegrafando dal suo eremo dorato "I rosai del Vittoriale ti aspettano per fiorire". E non è una leggenda quella che vuole un Vate intento nello spargere montagne di petali per i giardini e le stanze del Vittoriale, in attesa che vi passasse quella che da tutti, ingiustamente, venne poi definita come sua creatura. In realtà la Marchesa Casati fu questo ed altro, e molto di più. Ciò che d’Annunzio profondeva nei suoi romanzi, ella lo metteva nella vita. Jean Cocteau, il quale ne fu amico e confidente, scrisse che "aveva saputo crearsi un ‘tipo’ all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, e tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire". Per amore dell'eccesso, puntualizza André Germain, si era impiastricciato un viso bellissimo, sfigurandosi dal punto di vista estetico. I suoi fiammeggianti occhi da lupa brillavano in una faccia da incubo. L'eccentricità, abilmente creata, delle sue toelette, accompagnava la laboriosa eccentricità del volto. Le numerosissime testimonianze ce la rammentano ciascuna pressappoco nella stessa maniera: il viso era imbiancato quasi a calce; gli occhi, profondamente bistrati di nero, quasi portasse una maschera; si tingeva spesso i capelli di rosso fuoco; la sua figura alta e dall’aspetto androgino anticipava quella moda Art Déco di Paul Poiret ancora di là da venire. Vestiva in maniera stravagante, provocatoria, portando all’estremo i dettami di una moda morente, ed inventandone di nuovi. Il travestimento era la sua vera vocazione: i balli mascherati ed i carnevali veneziani erano tutti per lei. Organizzava in tali occasioni feste sontuose (dissipando così tutto il suo patrimonio), dove eleganza e snobismo incontravano la cultura, arrivando perfino ad "affittare" solo per sé ed i suoi ospiti l’intera Piazza San Marco, con tanto di carabinieri armati a presidiare i contorni della celebre piazza lagunare. Al di là delle balaustre, i veneziani estasiati osservavano lo svolgersi dei riti sacri della nobiltà in declino, fastosa ed eroica come non mai, misteri rivelati grazie alle arti magiche della sola Casati. E’ stato detto che la stregonesca Marchesa fu probabilmente la donna più rappresentata in opere d’arte della storia, dopo la Vergine Maria e Cleopatra. Oltre al già citato Boldini, celebri sono gli enormi disegni di Alberto Martini, le ceramiche medusee di Bertelli, ed altri dipinti di Julio de Blaas, Paul Troubetzkoy, Roberto Montenegro, Ignacio Zuloaga, Romaine Brooks, Kees Van Dongen, Augustus John, Léon Bakst... Tra gli altri, venne fotografata da Man Ray e dal Barone de Meyer, ed è al primo che dobbiamo il ritratto triplicemente occhiuto della Casati, frutto di un errore di sviluppo fotografico, ma che tanto piacque alla mecenate da chiederne all’artista diverse copie, che in poco tempo avevano fatto il giro di Parigi e di Milano. Una di esse finì, ovviamente, anche al Vittoriale. Lo spirito dirompente, aggressivamente ieratico, tra l’idolo pagano e dea del limbo, ne fecero l’immagine della femme fatale sopra le righe, ispirando poeti e romanzieri. Ovunque ella si recasse non passava inosservata; per un certo periodo usò portare al collo un enorme boa vivo, poi passò ai ghepardi al guinzaglio; passeggiava per Venezia accompagnata dai suoi servi negri dalla pelle spruzzata d’oro, o faceva gite in gondola, di notte, totalmente nuda sotto la pelliccia aperta. Gli amici che si recavano nel suo palazzo a Milano, o nella Ca’ Leoni (oggi Museo Guggheneim) di Venezia, o al Palais Rose parigino (già dimora di Montesquiou), ricordano scenari teatrali, sfolgoranti di stoffe e di curiosità esotiche, tra le quali si muoveva, trionfante, la divina Marchesa, dagli "occhi lenti di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata" – come la definì Filippo Tommaso Martinetti. Già, perché la leggenda e la persona della Marchesa seppero superare il periodo di quella Belle Epoque della quale ella tanto contribuì a creare il mito, ed arrivare indenne al Novecento, con le sue avanguardie, i suoi "-ismi" costruttivi o distruttori che fossero. Venne ad essere musa di dadaisti, surrealisti, fauvisti, e soprattutto futuristi; Giacomo Balla la ritrasse in un intensissimo "Fluidità di forze rigide della Marchesa Casati" (1918), e Martinetti ne cantava incessantemente le lodi, tra una blanda pugnalata al chiaro di luna e l’altra. Sedotti non certo più dalla carica dannunziana, quanto piuttosto da quella sua particolare capacità di stupire, quel suo rapporto con la fenomenologia della casualità e dell’intervento spaesante proprio pure delle avanguardie storiche. Finì in disgrazia, e questo non dovrebbe stupirci tanto siamo abituati a storie del genere; assediata dai creditori fu costretta a riparare a Londra, lasciando il suo Palais Rose che tanto le era costato. Cecil Beaton, che la incontrò in più occasioni, riuscì pure a scattarne qualche fotografia, sebbene la Marchesa, oramai ridotta ad un grottesco manichino di biacca e velluto nero, non desiderasse affatto questa particolare attenzione da parte del fotografo. Ella, come la tremenda Teodora di Procopio, si rese eroina di un romanzo, una vita che fu opera d’arte, senza pronunciar verbo. In un’epoca dominata dal bon mots, della Casati non resta una sola frase di spirito. Nella storia del costume e dell’arte decorativa, ineguagliata in narcisismo e orgoglioso senso aristocratico della propria arte, la Casati ricopre un ruolo fondamentale, certe volte basilare, oggi dimenticato quasi del tutto nel nostro paese, che vede come una vergogna l’esistenza di idoli remoti troppo sacri per esser umani, e troppo grandi per esser compresi. Nel suo totalizzante narcisismo, la Marchesa Casati non può che apparire oggi come un’idea, un personaggio inventato, e poco ci manca ad arrivare al tempo in cui si dubiterà persino della sua esistenza. Del dandismo è stata sua la forza creatrice, l’amore per le arti e l’immedesimazione con esse e la propria leggenda; la sua eccentricità ed il suo sesso la chiamerebbero tuttavia fuori dal dandismo – una declinazione che funziona al maschile, ma non dovrebbe esistere quando applicata al gentil sesso. Se esistono le eccezioni, la Casati potrebbe esserlo. Ma, in fondo, è tanto importante? Ella rimane un unicum della nostra storia, si inserisce perfettamente tra tutti questi frivoli personaggi a causa del suo ruolo sociale ed artistico. Dandy o no, la Marchesa Casati si trova qui perfettamente a suo agio. Recentemente apparsa per i tipi di Corbaccio, la più completa biografia della Casati mai apparsa ha suscitato nel mondo estero delle arti un grande clamore. Gentilmente gli autori di "Infinita varietà", Scot D. Ryersson e Michael Orlando Yaccarino mi hanno fornito le due immagini che accompagnano il testo; i due hanno dedicato alla Marchesa un interessantissimo sito web:www.marchesacasati.com ALTRI SITI CORRELATI gabrieledannunzio.net www.infinitestorie.it Palais Rose Femme Fatale BIBLIOGRAFIA MINIMA AA.VV., La divin marchesa, L’inchiostroblu - Ritz Saddler, 1986. D. Checchi, Coré: vita e dannazione della Marchesa Casati, L’inchiostroblu, 1986. J. Cocteau, Ritratti ricordo; Biblioteca del Vascello, 1993. G. d’Annunzio, Infiniti auguri alla nomade: carteggio con Luisa Casati Stampa; Archinto, 2001. Man Ray, Autoritratto, ed. SE, 1998. Ryersson & Yaccarino, Infinita varietà, Corbaccio, 2003.