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RAYMOND RADIGUET
M. Bébé, Cocteau e "les annees folles"

Poco generosi sono solitamente i rari documenti biografici sulla vita di questo giovane artista. Nacque, visse e morì nella incantevole Parigi degli anni Venti, tra feste, banchetti, sale da ballo illuminate d’uno strano color oro morente, locali notturni in cui la libertà era facilmente conquistabile con pochi bicchieri di liquore ed una ballerina, forse non troppo bella, tra le braccia.
In questo affascinante atmosfera irripetibile, il diciottenne Radiguet, scrittore, poeta, pittore, non tardò a conoscere tutto il mondo dell’arte d’avanguardia, dai pittori Modigliani – che gli fece anche un ammirevole ritratto –, Picasso, Picabia, Arp, Ernst e chi più ne ha più ne metta; importanza rilevantissima ebbero pure i poeti "maledetti", chi più e chi meno, come Eluard, Aragon, Soupault, Desnos, Prevert, Tzara, Breton e naturalmente Jean Cocteau, suo primo amico all’interno di tale vortice artistico, e suo seduttore carnale. Collaborò alla famosa rivista SIC, Littérature, avviando una intensa corrispondenza con Tristan Tzara (fondatore del movimento Dada) e André Breton (vate del surrealismo).
In realtà poco importano i suoi rapporti coi pittori del periodo, dato che allora vigeva una ferrea regola morale, di quel tipo di leggi mai esternate verbalmente ma religiosamente seguite da tutti, che esigeva l’assoluta adesione d’un artista al proprio campo (e guai a chi sforava!); ciò equivale a dire che un pittore non avrebbe mai espresso giudizi su una poesia, né un poeta l’avrebbe fatto su di un quadro, a meno che non esordisse colla frase: "io non sono del mestiere, però, a mio modesto parere, certo del tutto irrilevante…" eccetera. Insomma, in tale giungla di avanguardie, in questo ultimo vero ricettacolo di modernità, una regola del genere era cosa assai sensata, se non si voleva far scoppiare il caos. Probabilmente se tale regola vigesse ancor oggi avremmo meno idioti in circolazione, e forse l’Arte considererebbe la possibilità di risorgere a nuova vita. Ma l’arte non è una fenice, nonostante i suoi colori e le sue grida, e non si dovrebbe ucciderla sperando di farla rinascere più bella che prima, ma andrebbe lasciata crescere…
Dunque per un ragazzo affascinato dal bel mondo, preso dalla modernità ed abbracciato dalla poesia, tale enorme calderone parigino era senz’altro l’ideale per foarsi conoscere, e conoscere. Guidato dal suo eterno pigmaglione Cocteau, più vecchio di lui di tredici anni, entrava negli eleganti salotti borghesi, tutti lustrini e fintimarmi, come al Bateu-Lavoire in cui produceva in preda sorprendente smania giovanile Pablo Picasso, come nella catapecchia cadente di Max Jacob, anziano poeta e dandy ebreo convertito al cattolicesimo dopo una fugace apparizione della Vergine dopo qualche inalata d’etere (Jacob, allo scoppio della seconda guerra e l’arrivo dei tedeschi fu deportato in campo di concentramento, dove soppravvise pochi mesi. Gli ufficiali non vollero credere alla sua conversione, e, nonostante Cocteau s’adoperasse per far firmare denuncie esplicative ai compagni di Montparnasse, la terribile sentenza venne comunque eseguita. L’unico che poteva avere una certa influenza era l’allora già famoso Picasso, il quale però non volle esporsi, decretando così la condanna a morte dell’amico).
La droga era l’ordine del giorno nella Montparnasse d’inizio Novecento, e Cocteau, principe dei piaceri dissoluti, non volle far perdere una occasione del genere al suo giovane amante. Così, durante le numerose villeggiature in Costa Azzurra, arroventati dal sole, dalla spiaggia dorata e dall’intenso blu del cielo della costa, durante le sieste pomeridiane in albergo o in villa, ospiti di chissà quale artista o ultimo aristocratico decadente in vestaglia damascata, i due poeti veleggiavano in quel cielo caldo ed infinito con una zattera dalla eloquente forma di pipa per l’oppio. In questo clima liberale perché splendidamente nichilista, Jean Coctau "espirava" sulla carta della sua fedele macchina da scrivere pagine e pagine, una dopo l’altra, terminando così in pochi mesi di villeggiatura le stesure definitive di Thomas l’imposteur, Le Grand Ecart, La Rose de Francois, Plain-Chant, più diverse poesie ispirate dal calore e dal mare, e dai ficus che crescevano nell’esotico giardino della villa, da loro affittata per poche settimane, chiamata Santo Sospir. "Je vous écris de la terrasse où je viens de prendre mon petit déjeneur en tete à tete avec la mer. […] le gens sont charmants, le soleil est chaud. Hier après-midi, quand je suis arrivé, j’aurais pur prendre un bain de soleil", così scrive Cocteau all’amico Jean Hugo, rimasto a Parigi per affari, ma che lo seguirà poi in tutte le altre, frequentissime, villeggiature sulla Costa Azzurra. E se dalla lettera di Coctau traspare tutta la sua beatitudine di questo "séjur délicieux", Radiguet (che la compagnia di Cocteau sopprannomina Monsieur Bébé) scriveva alla madre: "Jean revient avec des poémes fort et beau et deux romans magnifiques. Moi, je n’en ai écrit qu’un…", alludendo a suo Bal du comte d’Orgel, ancora in timido stato d’abbozzo.
Una settimana dopo il loro ritorno esalò l’ultimo, sofferto respiro Marcel Proust; e Cocteau, grande amico dell’anziano scrittore, andò di persona a chiamare il fotografo d’arte Man Ray per far immortalare le delicate spoglie mortali dell’uomo che, colla sua scomparsa, chiuse tutta una grande epoca.
Seguiamo ancor per poco le gesta di Radiguet che, consegnate le pagine dattiloscritte del suo più famoso libro Il diavolo in corpo ad un incoraggiante editore di Parigi, aspettava la pubblicazione tra i tavoli del Beuf sur le Toit, ovvero "il bue sul tetto", il locale aperto da Louis Moysès e lo stesso Jean Cocteau in centro a Montparnasse. Non c’è bisogno di dire che questo locale divenne ben presto il più famoso di Parigi, in primis grazie a Cocteau, amico d’ogni nobile o borghese benestante dell’epoca, lui, il signore dei salotti che per anni fu l’indiscusso Lord Brummel novecentesco della capitale francese. Memorabile fu l’inaugurazione di tale locale in cui si eseguì una coposizione per piccola orchestra di Darius Milhaud intitolata appunto Le Beuf sur le Toit; Cocteau declamò alla folla estasiata alcuni suoi versi, e Radiguet, eccitato dalla musica e dalla compagnia, trovò altrattanto eccitante fuggire per una notte colla sua giovane amante in un albergo in riva alla Costa Azzurra.
Raymond si spense nel 1923 per febbre tifoidea. Cocteau scriverà "Radiguet è il prodigio del romanzo", e infatti è grazie al suo primo romanzo, unico pubblicato quando egli era ancora in vita, che deve la sua fama. Le Bal du comte d’Orgel apparve nel 1924, poi, nel ’25 una raccolta di versi liberi e due anni dopo Le Régle du jeu, una breve ma significativa scelta di riflessioni critiche che illumina da vicino i complessi rapporti tra gli scrittori di quegli anni. I suoi versi conservano una grazia innegabile, un po’ troppo sofisticata quando tentano d’imitare i versi di Cocteau, al contrario più eleganti e eclettici. I poemi di Radiguet raccontano i paradisi dell’infanzia, paesaggi che ricordano Watteau o Verlaine, o, in modo significativo Rimbaud, un altro enfant prodige.
In queste poesie, in cui l’innocenza è bandita da questa educazione sentimentale scabrosa, sillabata con voluttà e malizia, regna un voyeurisme sempre pronto a risolversi in una battuta goliardica e insieme nostalgica. Questa poesia profana i garbati ceselli dell’arcadia con la letteratura libertina, fino ad affrontare esplicitamente il genere pornografico sotto il titolo Gli inediti. Della buia e feroce sessualità descritta da Rimbaud, non rimane più nulla, se non un’oscura ombra palpitante, appena percepita.