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IL POETA E I "SEI"
di Massimiliano Mocchia di Coggiola

"I privilegi della bellezza esistono. Essa agisce anche su coloro che non la constatano" (J. Cocteau)

Esiste una corrispondenza inquietante nascosta tra le pagine de I ragazzi terribili di Jean Cocteau: all’inizio il giovane Paul è ferito gravemente durante una battaglia a palle di neve da un altro ragazzo, Dargelos; nella palla di neve di questi si trovava, infatti, una grossa pietra che colpisce in pieno petto Paul, facendolo cadere a terra completamente privo di sensi. Perde molto sangue e rischia la vita ma, al momento di denunciare Dargelos, preferisce affermare che la palla di neve era non nascondeva nulla; egli prova infatti una morbosa ammirazione per Dargelos.
Saltiamo poco più di cento pagine per arrivare alla fine del romanzo, e ritroviamo Paul che dopo infinite pene d’amore, litigi con la sorella – tra i due intercorre un rapporto che sfiora l’incesto – si suicida con una palla di droga regalatagli dallo stesso Dargelos. Molti studiosi hanno interpretato, forse giustamente, la relazione che intercorre tra la boule de neige e la boule d’opium che uccide il ragazzo; una vistosa simmetria agisce in tutto il romanzo, di una perfetta corrispondenza matematica che mantiene però i canoni classici formali ed estetici, senza arrivare agli ammirevoli eccessi di una "scrittura matematica" quale è quella di Raymond Roussel. Corrispondenze matematiche, ma che non sono per questo meno inquietanti, agiscono in tutta l’opera poetica di Cocteau. Egli fu sempre consapevole di questo: corrispondenze derivate spesso da episodi biografici che il poeta non aveva il timore di esporre al pubblico, mostrando quindi se stesso, la propria anima nuda, al pubblico e alla critica. Come l’autoritratto di Egon Schiele nelle vesti di San Sebastiano, stampato sul manifesto della prima esposizione si quadri del pittore, questi si rappresenta trafitto da frecce talmente spesse e pesanti che paiono orribili lance, che descritte dal tipico tratto duro e nervoso di Schiele danno l’idea della violenza con la quale sono scagliate contro l’artista – Cocteau espone se stesso a teatro, al cinema, nei suoi libri e nelle sue poesie senza il timore dei giudizi che, come le frecce di Schiele, arriveranno taglienti e diffamatorie. Protagonista della Parigi degli anni Dieci e Venti, Jean Cocteau incarnò il tipico esempio di spirito frivolo, mondano e dandy che la società di quel periodo non riuscì mai ad avere. Intimo amico di Picasso, Modigliani, Jacob, Proust e Man Ray, fu pure attivo frequentatore dei salotti aristocratici e borghesi della più alta classe e raffinatezza sociale, imperversando nella bohéme come dai visconti di Noailles con i suoi poemi ed i suoi spettacoli che s’ebbero a definire surrealisti nonostante la forte inimicizia con André Breton, ed anche dadaisti, nonostante lo stesso Cocteau, dopo un breve periodo di simpatia motivata più che altro dall’interesse che provava per tutto ciò che era novità, definì il gruppo dada come "Il club suicidio".
Cocteau fu artista delle avanguardia senza mai appartenere effettivamente a nessuna di esse. Egli ne ammirava forse il pensiero, ma non si metteva sotto la scuola di nessuno, continuando ad ostentare un distacco da certe teorie, senza però, apparentemente, disprezzarne la forma.
Una chiara consapevolezza di sé e del proprio prodotto artistico, dunque; cosa rara per la verità, nient’affatto comune tra gli artisti moderni come si vuol far credere. Più spesso sono i critici ad inventare strabilianti teorie su lavori che non significano nulla (un atto di wildeiana memoria), che non gli artisti stessi ad interpretare la propria opera; sull’argomento Cocteau si espresse chiaramente quando affermò che un artista "non potrà mai parlare della propria arte così come una pianta non potrà mai parlare di orticultura". E certo aveva ragione.
Nonostante ciò, fu subito preso in grande considerazione dall’alta società in qualità di poeta, ruolo che non mise molto a trasformarsi in quello di giullare di corte – ed il giovane Cocteau pensò bene allora di "gettare il frac alle ortiche". Ma in fondo è questo il destino di chi esiste nell’ambivalenza di vivere per se stesso e contemporaneamente per gli altri: nonostante si sia gli unici smascherati in un mondo di maschere, si finisce per essere presi per gli unici con una maschera e, si sa, l’uomo mascherato a corte non ha che un solo ruolo: il buffone. Wilde prima di lui ne fece le spese, accorgendosi di ciò che capita alla corte quando la si prende in giro troppo chiaramente: si stanca e si vendica. Per fortuna Cocteau se ne accorse prima di essere punito severamente. Privo di maschera, il poeta si delizia allora nell’indossarne molte, differenti e a suo piacimento, oltre che a suo rischio e pericolo; egli sa che non esiste realtà né oggettività, e che anche la soggettività è facilmente disgregabile da quella posizione di letale consapevolezza di chi non ha più false illusioni; ma, anziché portarsi verso la morte (come a parer suo Dada faceva consapevolmente), Cocteau reagisce ad essa, risuscitando il Poeta, quella maschera millenaria che, nonostante tutte le trasformazione che è andata subendo nel corso dei secoli, non ha cambiato la sua vera essenza: esprimere soltanto se stessi attraverso le arti, con una concezione della poesia piuttosto antiromantica e personale.
"La gente separa il mistero e la realtà. Ora, la realtà è il mistero (la realtà non esiste). Le persone che lo sanno, o sono poeti o sono in grado di capire i poeti. Tutto il resto è estetismo". Un paradosso dunque, poiché se la realtà non esiste, non vi è nulla da esprimere, se non la scorza di essa, vale a dire l’apparente mistero che essa comunica alla soggettività di questo poeta che non vuole frantumarsi nelle filosofie moderne nichiliste, tra uno Zarathustra e una Nausea impellente.
Cocteau reagisce a questa morte con una spigliata allegria, uno "scherzo" perenne, se gli stati d’animo fossero classificabili come lo sono in musica. Questo "scherzo" è, ahimè, la sua ennesima maschera, atta a celare una profonda malinconia che con il passare degli anni si farà sempre più pronunciata.
Ma per ora Cocteau è giovane, allegro, mondano e ricco: come mettere a frutto tutto ciò? Come sfruttare passioni e teorie in una miriade di eclatanti gesti? Il Gesto che è, per ogni dandy, ciò che regola la vita e ciò che dovrebbe regolare l’arte. Cocteau pare non perdere tempo in questo; fin da giovanissimo legge le sue poesie ai frequentatori del salotto ultramondano della madre, entrando così in contatto con André Gide, e una miriade di attori e sceneggiatori che lo faranno entrare direttamente nel mondo del teatro, e più in particolare, del balletto. Fu grazie al re del balletto, l’impresario Sergeij Diaghilev che Cocteau mise piede per la prima volta nella compagnia dei Balletti Russi che in quegli anni imperversavano a Parigi, suscitando le ammirazioni delle falene del passato quale era Marcel Proust come agli allievi della prima modernità, quale era Drieu la Rochelle. Cocteau si colloca in mezzo: non è mai stato completamente moderno (mai si permise una trasgressione della forma, ma solo un rivoluzionamento della forma, il che è molto diverso), ma neanche completamente attaccato al classico.
Le sue prime collaborazioni musicali gli furono fornite in modo eccellente dall’amico Igor Stravinky, il quale mise in musica, tra le altre, Oedipus-Rex, che a causa però di incomprensioni tra il compositore ed il poeta, finì per venire rappresentata per la prima volta solo nel 1952.
Fu nel 1917 che Cocteau divenne amico di Eric Satie, anziano compositore musicalmente però assai giovane, creatore di armonie semplici ed affascinanti, col quale mise in scena una delle sue più grandi opere: Parade, sorta di balletto surreal-futurista, con costumi e scenografie di Picasso.
Per la realizzazione di Parade Cocteau riuscì a tirare nel progetto pure Apollinaire, autore dei testi, reduce dal fronte e ferito alla testa da una scheggia di granata, ed insieme convinsero Diaghilev a produrlo. Fu preparato a Roma, sotto l’amichevole sorveglianza dei futuristi italiani; Cocteau ricorda così nel suo Diario il soggiorno romano: "Creammo Parade in una cantina di Roma, dove la compagnia provava, camminammo al chiaro di luna con i ballerini, visitammo Napoli e Pompei. Conoscemmo i futuristi dallo spirito gaio".
Cocteau disegna poi i profili dei personaggi che avrebbero popolato la scena: c’è il prestigiatore cinese che "estrae un uovo dal suo codino, lo mangia, lo ritrova sulla punta delle scarpe, sputa fuoco, si brucia, calpesta le scintille". C’è la ragazza americana che "fa una gara di corsa, va in bicicletta, trema come le immagini dei primi film, imita Chaplin, insegue un ladro con un revolver, tira di boxe, balla al ritmo del ragtime, va a dormire, fa naufragio, si rotola sull’erba un mattino d’aprile". Non c’è una trama ma solo una serie di pantomime, tipiche dello spirito di Cocteau. Potete immaginare la reazione del pubblico del Teatro di Chatelet di Parigi, il giorno del debutto il 17 maggio 1917: il pubblico inferocito reclama le teste degli autori e degli attori, tenta di bruciare il sipario disegnato da Picasso; dovette apparire allora Apollinaire, benda in testa e Croix de Guerre sul petto a rassicurare gli spettatori assicurando che non era un’esercitazione antipatriottica. In un certo senso, questo è il primo contatto ravvicinato di Cocteau con il musicista Eric Satie, il quale divenne poi maestro ispiratore del gruppo denominato dei "Six", vale a dire dei Sei. Questi compositori - Darius Milhaud, Georges Auric, Francis Poulenc, Arthur Honegger, Germaine Tailleferre, Louis Durey - in contrasto col crescente interesse per la dodecafonia di Schoenberg e sviluppata dai suoi fedeli adepti Berg e Webern, iniziarono a professare un ritorno alla musica impressionista, ispirati inizialmente dalle composizioni di Debussy, Ravel, Ibert. In realtà molte esperienze artistiche moderne dell’epoca, e soprattutto in Francia, si fecero portavoci ufficiali del dissenso alla musica espressionista tedesca: nel campo del cinematografo, ad esempio, altri sei artisti costituirono il gruppo detto degli Impressionisti francesi; tale gruppo era formato da giovani registi interessati, al pari dei Six, a riportare il cinema ai suoi caratteri di eleganza e raffinatezza che dovevano renderlo gradevole e non mera espressione di capacità tecniche e intellettuali. Il giovane regista ed esteta Marcel L’Herbier realizzò in collaborazione con Darius Milhaud - il quale ne scrisse le musiche finora ritenute disperse ma ritrovate qualche anno fa in Francia - il suo capolavoro cinematografico: L’Inhumaine, compendio delle avanguardie francesi del periodo (si ritrovano nelle scenografie e nei costumi evidenti accenni all’Art Decò, al Liberty e al futurismo, i costumi sono di Georges Lepape e le scenografie, trai più famosi, Alberto Cavalcanti e Fernand Léger), come anche del passato. E bisogna ammettere che le musiche di Milhaud unite a questa pellicola si completano in ogni forma, avvicinandosi a quell’Opera d’Arte Totale già cara ai secessionisti viennesi. Effettivamente Milhaud è il più originale compositore dei Six, capace di innovazione formali al di là di quelle attuate dai suoi compagni. Egli, dopo un viaggio in Brasile rimase affascinato dalle danze di quel paese, e forti accenni a quella musica si ritrovano un po’ in tutta la sua opera, per iniziare da Le boeuf sur le toit, il mimodramma scritto da Cocteau e presentato in occasione della vernice del locale omonimo parigino, che, essendo stato fondato, tra gli altri, dallo stesso Cocteau, divenne ben presto il bar-ristorante più esclusivo della città, ricettacolo di opere di Picabia e dell’immancabile Picasso, frequentato dai dadaisti e da tutti i pittori e poeti di Montparnasse.
All’inaugurazione del locale viene appeso ad una parete un quadro di Picabia (L’Oeil cacodylate) che ognuno dei presenti completa a suo piacimento con scritte e autografi: Cocteau appunta una propria fotografia in abito bianco con la scritta "Corona di malinconia", Milhaud scrive "Mi chiamo dada dal 1892", Tristan Tzara, fondatore del movimento dada, scrive "Lo trovo MOLTO", Georges Auric invece scrive "Non ho niente da dirvi", Francis Poulenc "Mi piace l’insalata"…
Intervengono pure Brancusi, Marie Laurencin, Jean Hugo, Coco Chanel, Diaghilev, Pierre Brasseur e Raymond Radiguet, amante di Cocteau, tutti quanti rigorosamente in abito da sera. I celebri jazzisti Wiener e Doucet sono al piano (sostituiti occasionalmente da Cocteau), Williams alla batteria.
Per il sopracitato mimodramma Milhaud coinvolge venticinque musicisti, spiega loro che cos’è la musica brasiliana, e inizia le prove, dirette da Golschmann. Le scene sono preparate da Raoul Dufy, e la sceneggiatura, ovviamente, è di Jean Cocteau: Le boeuf sur le toit è ambientato durante il proibizionismo in America; in un bar incontriamo dei personaggi tipici: un nano, un negro, un boxeur, una donna elegante, una donna russa, ed altri ancora. Il barman distribuisce cocktails. Ma arriva un poliziotto ed il bar si trasforma in una latteria, gli avventori assumono un aspetto bucolico e fingono di bere latte al suono di una pastorale. Il barman aziona il congegno che mette in moto il ventilatore che decapita il poliziotto; allora la donna russa fa una danza con la testa del poliziotto imitando la Salomè; i personaggi abbandonano la sala ed il barman presenta un lungo conto da pagare al poliziotto resuscitato.
La realizzazione fu superba. Erano stati ingaggiati i famosi Fratellini, i grandi clown del secolo, al circo Mediano. Le maschere di Fauconnet, e di suoi costumi, avevano qualcosa di irreale. La stessa sera vi erano in programma i Trois petites pièces Montées di Satie, Adieu New York, famoso fox-trot di Auric, e la Cocardes di Poulenc. Era il 1920.
Ma l’incontro di Cocteu con il gruppo dei Sei risale già al 1918, con la collaborazione di ciascun membro del gruppo per molte opere teatrali e per la messa in scena di poemi quali La voce umana (Poulenc), La dama di Monte Carlo (ancora Poulenc), Phèdre (Auric), Les Mariés de la Tour-Eiffel (tutti i membri del gruppo, tranne Durey), del quale parlerò più in seguito; Auric compose più tardi le colonne sonore dei film La bella e la bestia, I parenti terribili e Orfeo.
Cocteau scrisse nel 1918 il manifesto di questo originale gruppo di musicisti, intitolato Il gallo e l’Arlecchino, nel quale difende la possibilità di una musica "a misura d’uomo", lontana da Schoenberg e dalla musica tedesca che giudica in generale accademica, pretenziosa e volgare.
Ecco alcuni assunti fondamentali espressi da Cocteau nel manifesto dei Six:
"Il nostro spirito digerisce bene. L’oggetto profondamente assimilato si muta in forza e provoca un realismo superiore alla semplice copia. Non bisogna confondere una tela di Picasso con un arrangiamento decorativo. Non bisogna confondere Parade con una improvvisazione." "Si dice che un artista originale non può copiare. Non bisogna dunque far altro che copiare per essere originali." "La scuola impressionista sostituisce il sole alla luce e la sonorità al ritmo." "L’opposizione che compie Eric Satie consiste in un ritorno alla semplicità. È questa, del resto, la sola opposizione a un’epoca di raffinatezza estrema." "Il caffè-concerto è spesso puro; il teatro è sempre corrotto." "L’opposizione della massa alle élites stimola il genio individuale. È il caso della Francia. La Germania moderna muore d’attenzioni, di applicazioni, di una volgarizzazione scolastica della cultura aristocratica." "Si chiudono gli occhi ai morti con dolcezza; è con la stessa dolcezza che bisogna aprirli ai vivi." "Un poeta ha sempre troppe parole nel suo vocabolario, un pittore troppi colori sulla sua tavolozza, un musicista troppe note sul suo pianoforte." "D’una certa attitudine al frivolo. – se senti la vocazione del missionario, non nascondere la testa come lo struzzo; và dai negri e riempiti le tasche di paccottiglia". Da queste brevi massime, tipiche della scrittura di Cocteau (nei suoi scritti ciò che può sembrare divagazione dal tema è in realtà il tema stesso), si deducono molte cose riguardo i principii dei Six: è evidente innanzitutto la loro assoluta mancanza di pregiudizi nei confronti delle musiche non accademiche: si parla di jazz ("cataclisma sonoro") come di caffè-concerto, di danze Cubane e Brasiliane, ritmi latini che oggi paiono subire un ampio revival all’interno delle sonorità pop – come di spunti artistici da copiare, trasformare, inventare, riproporre, pur di dare originalità estetica all'impressionismo musicale di Debussy.
Ancora, altro punto cardine è la semplicità; già Cocteau confessa la sua predilezione per uno stile semplice e chiaro in letteratura, in contrasto al dannunzianesimo ancora imperante in quegli anni. In Oppio scrive: "vorrei arrivare allo stile dei numeri". Per questo ammira Satie, per questo i Six ammirano Satie e lo imitano, per questo Cocteau ammira i Six. Armonie semplici, colori squillanti in un gioco apparentemente impressionista ma che ha qualche cosa di fauve, e degli scatenati dada; si sopprime la raffinatezza estenuante e decadente, si ravvivano le spregiudicate armonie jazz, tra Josephine Baker e Maurice Chevalier, in una sorprendente mescolanza di stili e di idee leggera e senza troppe pretese in realtà. Ad ognuno di essi il pubblico affibiò una maschera, un’etichetta per renderli riconoscibili alla Francia: Poulenc era la musica da camera, in ispecial modo pianistica; Honegger il genere oratorio-mistico; Satie (che teoricamente non faceva parte del gruppo ma ne era in realtà il protagonista), la caricatura sofistica; Milhaud, il più deriso dopo Le boeuf sur le toit, era considerato "musicista leggero", "autore di cabaret", "compositore comico", e così via.
Curiosamente, dei Sei, fu però proprio Milhaud ad affermarsi di più nel mondo della musica e non solo nel periodo che andò dal ’18 al ’25, ma anche oltre, fino a diventare indiscusso esempio di compositore d’avanguardia, capace di sperimentare sonorità diverse e nuove astrazioni, tanto da venir preso come maestro spirituale niente meno che da Shostakovich. Ma a vegliare su tutto fu Jean Cocteau, l’inimitabile maestro dell’eleganza, espressa dalla semplicità moderna, e non dalla raffinatezza decadente che ora aveva fatto il suo tempo ed era stata assimilata - come tutto ciò che all’inizio sconvolge - dalla borghesia, volgarizzandola. Cocteau ebbe una vitalità giocosa e disinvolta, atta Da sinistra: Francis Poulenc, Germaine Tailleferre, Louis Durey, Jean Cocteau, Darius Milhaud, Arthur Honegger (Georges Auric, assente, è rappresentato dal ritratto di Cocteau appeso al muro).a stupire ancor prima che piacere. Tutti i Six ebbero in loro, in quel dato periodo, un tale spirito dissacratorio e vitale, che trovò la sua apoteosi nel già citato balletto Gli sposi della Tour-Eiffel commissionato da de Maré, capo della compagnia di balletti svedesi, che volle una prova di vitalità da parte di tutto il gruppo dei Sei, un balletto scritto in collaborazione. Solo Duery rinunciò (poco più tardi si chiuse in un convento). Il balletto era ancora una volta una sorta di pantomima. Cocteau e Pierre Bertin leggevano il testo, trasmesso da due altoparlanti di cartone posti ai lati del boccascena, i ballerini portavano delle maschere e dei costumi dipinti mimetizzanti, ideati da Iréne Lagut; il soggetto, facile: due giovani sposi accompagnati dai genitori ed un vecchio amico, un generale, vanno a celebrare il loro matrimonio sulla terrazza delle Torre Eiffel, fanno un banchetto, assistono al brindisi del generale, si fanno infine fotografare: ma ogni volta che si pronuncia la fatidica frase "attenti all’uccellino" accade un bizzarro contrattempo; arriva la ragazza del telegrafo, che ha la sua antenna sulla torre, una bagnante, e finalmente un leone che mangia il generale, con un finale a sorpresa: tutti sono massacrati dal "Fanciullo Futuro".
Auric scrisse l’Overture, assai brillante, Poulenc la "danza della bagnante di Trouville" e il "discorso del generale"; Tailleferre il "valzer del telegramma"; Honegger la "marcia funebre del generale" e Milhaud la "Marcia nuziale" e la "fuga del Massacro del Matrimonio". Il pubblico apprezzò poco questa riunione di pezzettini, questo ‘potpourri’ di ariette divertenti. Quando ascoltò il pezzo di Honegger, disse: ‘evviva, ecco la musica’, senza accorgersi che era stato adoperato caricaturalmente, al basso, il valzer del Faust.