L'ORMAI ABBANDONATA FIGURA DEL DANDY di Massimiliano Mocchia di Coggiola A Indro Montanelli non piacevano le "dannunzianate": forse gli ricordavano i fascisti, o forse trovava l’estetica decadente troppo effeminata per i suoi austeri gusti di storico giornalista. Mascherate, nient’altro che mascherate! Ed è per questo che, sebbene avesse potuto farlo, non volle raccontare qualcosa di più a proposito di Maria Anna dei principi d’Aragona Pignatelli di Terranova di Cortes, conosciuta come Mananà (1894-1960). Nauseato dal decadentismo Montanelli non nascose tuttavia, evidentemente compiaciuto, di esserne stato amico durante un certo periodo. Il fatto è che, alle domande insistenti dello studioso Giovan Battista Brambilla, Indro rispose che: « …Mananà Pignatelli Aragona Cortes non interessa che lei e una dozzina di altre persone. Essa appartiene infatti a un mondo che, sebbene sia soltanto quello dei nostri padri (che per lei, immagino, siano nonni), sembra lontano alcuni secoli dal nostro: il mondo dannunziano, fatto soltanto di esclamativi e di "patacche"[…] fu il trionfo del fasullo (e Dio sa se in Italia ce n’era bisogno), una peste, una lebbra. Mananà fu una delle sue vittime. E lo dico con dispiacere perché fu mia amica, le volli bene e mi volle bene. […] Le capitò di partecipare a una grande festa mascherata a Parigi, punto di raccolta di quella società. Vi si presentò truccata da Pierrette con la zazzerina a gronda sulla fronte e il volto interamente coperto da una patina di biacca. Ebbe un tale successo che non volle più abbandonare questa cosmesi, nemmeno quando gli anni cominciarono a farsi sentire. Io, che pure per un certo periodo l’ho molto frequentata, non l’ho mai vista che con la zazzerina incanutita sul volto di gesso, a tutte le ore del giorno e anche della notte, perché solo di notte lei viveva. Così d’altronde la voleva anche suo marito, Guido Sommi Picenardi, altro dannunziano doc, ricco di talenti (letteratura, teatro, musica) coltivati da raffinato dilettante, e per questo incompiuti. Una volta che m’invitarono a un soggiorno nella loro famosa Torre, mi misero a dormire in un letto foderato di lenzuola di seta nera che sembrava una bara. Superstizioso come sono, buttai via le lenzuola, ma anche il materasso era nero, come lo era tutto il dècor di quella casa che sembrava uscita dalla fantasia di un impresario di pompe funebri. Dopo la morte del marito, Mananà si scelse per compagno la sua antitesi umana: Guidone Parisini era un ex ufficiale di cavalleria che s’intendeva e parlava solo di stalle e di concorsi ippici. Si ritirarono prima a Capri, poi a Venezia, dove lei, sempre addobbata da Pierrette, dette sfogo alla sua passione, la scultura. Minuta e delicata com’era, non raffigurava che omaccioni erculei, di cui non saprei che valore artistico avessero. Viveva e lavorava, come sempre, solo di notte in stanze abbuiate da tende scure come quelle di cui era decorato il Vittoriale di D’Annunzio, regno del fasullo mortuario. Ecco tutto quello che posso dirle di Mananà ». Anche Dario Cecchi ne parla, nella sua prima biografia della marchesa Casati, Corè: « Invariabilmente vestita di nero, capelli cortissimi sempre nascosti entro una calottina di feltro nero senza tesa, Mananà aveva alle finestre tendaggi neri, nel letto lenzuola nere, e nera probabilmente sarà stata anche la sua biancheria personale. Scolpiva dei titani giganteschi, tormentati e libidinosi, che si potevano intravedere attraverso le inferriate delle basse finestre, dall’esterno ». È tutto, probabilmente. Cecchi scrive nel 1986, abitando nella casa che era stata proprio di Mananà, dopo averla conosciuta da bambino; la principessa seppellita già da ventisei anni, si poneva così fine ad una vita che era stata solo la finzione, o la facile premonizione, di un invocato fasto funebre. La morte, oltre ad affascinarla, dovette seguirla da vicino, ché diversi personaggi in questa storia moriranno prematuramente o in «circostanze poco chiare». L’ombrosa signorina vantava invero nobilissimi natali: la famiglia Pignatelli Aragona Cortes affonda radici nella storia del regno di Aragona e di Sicilia, mentre il Cortes deriva da un’unione, seppur indiretta, con Stefania Cortes, unica discendente del conquistadores Hernan Cortes. L’ampia famiglia contava diverse proprietà (e annessi diritti di sovranità) in Italia, in Messico e in Spagna. Bartolomeo Pignatelli, arcivescovo di Messina, è citato nel Purgatorio di Dante: è lui il pastor di Cosenza a profanare la tomba di Manfredi (nel 1266): dissotterrò il corpo di Manfredi dal tumulo di pietre sotto il quale i cavalieri francesi lo avevano sepolto per onorarne l’eroismo, benché fosse stato un nemico; poi, trasportandolo a candele rovesciate e spente, come si faceva con gli scomunicati e gli eretici, ne disperse i resti al di fuori dei confini dello stato della Chiesa. Indubbiamente le fascinazioni macabre di Mananà trovavano echi fin nel lontano passato della famiglia. Nel 1691 un Pignatelli venne eletto Papa col nome di Innocenzo XII, e nel 1954 fu fatto santo Giuseppe Pignatelli di Fuentes, un mistico gesuita vissuto alla fine del Settecento, che aveva avuto un ruolo fondamentale nella riapertura dell’Ordine all’inizio dell’Ottocento. Senza contare i vari e numerosissimi viceré, pari di Spagna, cavalieri del Toson d’Oro, arcivescovi di Napoli, Palermo e del Sacro Collegio… Il motto di famiglia è "Iudicium Domini apprehended eos et fortitude eius corroboravit brachium meum", il che può essere tradotto con "Il giudizio di Dio li colpì e la sua forza rinforzò il mio braccio". Il padre di Mananà era Giuseppe Pignatelli di Terranova (1860-1938), detto Peppino, il quale fu ben più prosaicamente senatore del neonato Regno d’Italia. La madre, donna Rosa, era nata marchesa de la Gàndara y Plazaola. Torniamo così all’alba del nuovo secolo. L’ondata decadentista era giunta in Italia via scrittori, poeti e riviste letterarie francesi; pochi pittori si provavano alla nuova moda, ma i tempi erano maturi perché anche l’Italia avesse il suo decadentismo. Purtroppo non fummo capaci di produrre mai nulla di tanto importante, culturalmente parlando, come invece accadde in Francia e in Inghilterra. I rari eccentrici che scoprirono in essi un’indole votata al putrescente dorato, al mortifero profumato, alla letteratura "deviata" e al trucco pesante furono rari, e per questo più preziosi. Maria Anna dovette trovarsi a nuotar meglio di altri in quest’acquario e, a differenza della "sorella" marchesa Casati, la quale morì in una quasi volontaria solitudine, Mananà riuscì a brillare in società fino alla fine dei suoi giorni: morì nel 1960, giusto in tempo per non dover affrontare l’ondata di volgarità che di lì a poco avrebbe invaso l’Italia. Mentre è invece più facile immaginare la Casati allo Studio 54. Mananà si sposò il 10 marzo 1917 con il marchese Guido Sommi Picenardi, sesto marchese di Calvatore, signore di Sommo e Pieve Altovilla, e Cavaliere d’onore e devozione del Sovrano ordine militare dei Cavalieri di Malta; un personaggio misterioso che sarebbe bello poter riscoprire. La madre, Nadina Grigor’evna Bazilevskaja, apparteneva a una delle più ricche famiglie d’Ucraina, mentre il padre Gerolamo era stato ambasciatore a Costantinopoli e deputato al parlamento. La famiglia dal 1909 si era stabilita a Venezia presso la casa Blaas, (Zattere, alle spalle di Ca’ Rezzonico). La celebrazione del matrimonio tra Mananà e il marchese si tenne nella cappella della villa di famiglia in Roma; tale importante unione venne segnalata perfino sul parigino "Le Figaro". La bizzarra sposina dovette ben scegliersi un passatempo artistico degno del suo rango, com’era d’uso fare di tra le donzelle di nobili natali, ma la scultura non dovette certo far sorridere la famiglia: perbacco, perché non suonare l’arpa, o dipingere miniature su avorio? La scultura dovette tuttavia avvicinarla, e renderla grata, al circolo artistico internazionale che già era caro al marito, futurista dilettante. Lo stesso anno Mananà si era fatta ritrarre dalla pittrice e caricaturista di fama Adriana Bisi Fabbri, protetta di Boccioni e intima del circolo di Ferrara, la quale sarebbe morta prematuramente di febbre spagnola l’anno seguente a soli 37 anni. Una prima influenza mortifera della nostra nobildonna? Il ritratto, in bello stile simbolista (ricorda per certi versi von Stuck), è una delle pochissime immagini che restano oggi a chi cerchi informazioni su Mananà in rete. E’ probabile che, visto il personaggio, esistano molti altri ritratti: ma chi si interessa più a tali "dannunzianate"? La coppia dei novelli sposi era tra le più ricercate di Roma, e anche la più mondana: partecipavano a quelle feste lussuose che solo in Capitale, all’epoca, era ancora possibile vedere nel nostro Paese; Guido, artista e musicista dilettante, intratteneva rapporti con la società artistica dell’epoca, a cominciare proprio da Gabriele d’Annunzio, che Mananà presentò a Tamara de Lempicka nel 1926; senza contare i cosmopoliti che ruotavano attorno ai Balletti Russi Leonidaff, fondati da Molinari, per i quali Guido compose diverse pantomime e balletti futuristi, ché era un fervente ammiratore del circolo di Prampolini e Marinetti. Lempicka, che l’anno prima aveva esposto per la prima volta le sue opere alla sede della casa editrice "Bottega di Poesia" del conte Castelbarco, descrisse così l’eccentrica coppia: « Mananà e Guido Sommi Picenardi, la cui maniera di vivere sarebbe definita oggi come una sorta di "hippy", capeggiavano un circolo di giovani brillanti, che si occupavano ogni notte tra feste, opera, balletti, concerti e pranzi in dimore private con servi in livrea. In tali occasioni, le donne erano sempre magnificamente vestite e coperte di gioielli; gli uomini sempre belli e eleganti. La conversazione era supremamente coltivata e spiritosa ». La pittrice, famosa per la sua libertà totale nelle questioni sentimentali (moderna quindi non solo sulla tela), era divenuta ben presto l’amante di Guido. I due ritratti che questa gli fece datano tutti attorno al 1925: con il suo abituale, lussuoso, stile art dèco, Tamara rivela i tratti di un uomo elegantissimo e composto, freddo, un autentico dandy. Il marchese era appassionato di occultismo, e pare praticasse sedute spiritiche, oltre ad essere un occasionale travestito, e un casanova quasi professionista. Si dice avesse tendenze sadiche e omosessuali, cosa che dovette certo affascinare l’animo decadente di Mananà nei primi tempi, ma che dovette finire per stancarla dato che a partire pressappoco dal 1923 i coniugi presero a menare vite separate. Guido Sommi si ritirò nel castello di famiglia, la Torre dei Picenardi (vicino a Cremona, ancora oggi dimora privata) negli anni Quaranta, dopo aver subìto le torture dei nazisti nel 1945 in quanto probabile oppositore al regime fascista (al contrario del cugino Gianfrancesco, fedele di Mussolini). Condusse là il resto di una vita apparentemente solitaria, morendo « in circostanze poco chiare », cosa che nel gergo delle famiglie perbene significa in genere "suicidio", – quando non "orgia sadomasochista". Fosse quel che fosse, era il 30 marzo 1949. Anche dopo la morte di Guido, Mananà continuò a frequentare il suo amante "ufficiale" (in tutti i sensi) che frequentava già dal ‘23: qualcuno che aveva poco a che fare con l’ombrosa spiritualità della principessa, ma che certo doveva essere soddisfacente sotto altri aspetti, meno artistici e più convincenti agli occhi di una bellezza dannunziana oramai cinquantenne; Guido "Guidone" Parisini era un ex ufficiale di cavalleria, capace solo di parlare di corse di cavalli e spettacoli equestri. Un rassicurante ossimoro di Guido Sommi. La vita di Mananà procedeva tra feste, ricevimenti, balli mascherati e pranzi di gala. Pare che la principessa avesse preso l’abitudine a Parigi di dormire in una bara (ma si diceva la stessa cosa di Sarah Bernhardt, della Casati e di molte altre femmes fatales dell’epoca), dalla quale si levava soltanto la sera, pronta a vestirsi per qualche serata all’opera o dagli amici; la sua residenza romana era cambiata: abbandonata la casa di via Boncompagni 12 si era trasferita nel villino Pignatelli, austero edificio in stile neorinascimentale fiorentino – a due passi dal villino Casati-Stampa (via Piemonte 51), abitato dalla famosa Marchesa Luisa Casati, intima di d’Annunzio e amica di Mananà. Le due "furie" dovevano certo ispirarsi l’una all’altra, anche se è difficile credere che la Casati, più anziana di Mananà, ne fosse in qualche modo l’ispiratrice, sebbene le due donne intrattenessero rapporti cordiali sebbene un poco distanti. La storia e i biografi ricordano sempre la Casati, e dimenticano la vicina e compagna di sedute spiritiche, anch’essa dal volto imbiaccato e dalle pesanti palpebre verniciate al lucido da scarpe; immaginiamo i tea-party di mezzanotte delle due signore, le tazze colme di tè allungato col laudano che si rovesciano a causa del tavolino da seduta spiritica traballante… La nobildonna scolpiva in un atelier, un piccolo appartamento al pianoterra dello stabile 11 di Corso d’Italia, nei pressi di Villa Borghese. Ci piace immaginare che terrorizzasse i passanti per i giardini della Villa, rientrando a casa il mattino presto. Il secondo atelier, probabilmente in via Margutta, era stato teatro di una vicenda che Federico Zeri racconta nel suo articolo dedicato a Mananà (senza farne il nome, scrisse di lei su La Stampa nel 1982): « Nel suo atelier di scultrice era stata organizzata una festa; le pareti ricoperte di stoffa nera ostentavano fregi e ghirlande di ossa umane (tibie, costole) alternate a teschi; mentre l’arredo si limitava ad alcune casse da morto: un insieme di gusto discutibile, ma notevole culturalmente, a mezza via tra il Decadentismo e il Punk. » Dei facchini, reclutati per l’occasione certamente a causa del loro piacevole aspetto fisico e ricoperti solo da uno slip di velo nero, avevano preso le "vesti" di fiaccolai, ed erano ricoperti di porporina d’oro e d’argento. Uno di questi, sentendosi male a causa della soffocante pittura, svenne e non ci furono modi per fargli riprendere conoscenza; chiamato il Pronto Soccorso, la crocerossina di turno, impressionata da tali e tanti apparati (senza parlare degli ospiti), denunciò immediatamente festa e padrona di casa. Fu operata una perquisizione durante la quale, pare, vennero rinvenute sostanze illecite. Zeri tuttavia scrive che « si fece molto rumore per nulla (o per ben poco) grazie all’ottuso perbenismo di quegli anni (si era, credo, verso la fine del decennio ‘20). Ad ogni modo Benito Mussolini, esaminata in persona la pratica del "festino maledetto", si limitò ad ammonire l’organizzatrice, imponendole di allontanarsi da Roma ». Mananà e Guido Parigini si trasferirono allora a Capri – tipica mèta della ricca società cosmopolita di allora. Il pittore caprese Attilio Lembo ricorda di aver conosciuto la Principessa nel 1947 o 1949, anni in cui frequentava assiduamente Marina di Mulo a Capri; ci lascia questo ritratto, il più "umano" invero finora conosciuto della bizzarra Maria Anna Pignatelli. La casa di Mananà sorgeva a Marina Piccola, « su un grosso masso, dove un tempo vi era un deposito di pescatori, costruita su due livelli: soggiorno, studio e cucina a pian terreno e terrazzo prospiciente la spiaggia. L’accesso al piano superiore, attraverso una scala a chiocciola portava alla stanza da letto. Ella viveva con il conte Guido Parigini ex ufficiale di cavalleria (almeno così era conosciuto) persona sempre cortese con i pescatori. Factotum era "Totonno" Gargiulo. Tutto l’ambiente era pavimentato da lastre nere, il tendaggio dello studio, la coperta del letto anch’essa nera. Ai quattro lati del letto quattro sculture raffiguranti la lince. L’ambiente austero e tetro era poco invitante. Lei vestiva interamente di nero, turbante compreso, e a rendere lo spettatore piuttosto imbarazzato contribuiva la sua faccia cerea ricoperta da una crema biancastra, supponevo dovuta ad allergia facciale [sic], […] che le rendeva il viso inespressivo. Mi ricordava la figura dolente del celebro quadro di Arnold Bocklin "La villa sul mare", questa figura femminile che appare più volte nelle composizioni di De Chirico metafisico. Era oggetto della curiosità dei bagnanti ed oscurava il finestrone dello studio dove lavorava in creta persa a sculture per poi fonderle nel bronzo. Era una scultrice simbolista, di quel genere decadente in voga a fine ’800, raffigurante grovigli di serpenti, ippogrifi, teste di meduse etc. Non ricordo di aver visto "gli omaccioni nudi" citati da Montanelli. Più volte pescando di notte, con la lampara, prossimi alla riva, questo nero fantasma, dall’incedere flessuoso, passeggiava sulla spiaggia salutandoci ed augurandoci buona pesca. Non credo, per lo meno in quegli anni, che frequentasse persone del suo rango. Con i pescatori era gentile e generosa. Organizzava ogni anno per i pescatori del posto gare veliche per i pescatori anziani ed a remi per i giovani, premiando i vincitori con stoffa per le vele, damigiane di vino e "schiocche" di arance e limoni a cui seguiva un rinfresco per i pescatori sulla rotonda sopra l’arenile. […] Per carineria questo gentile fantasma acquistò da me due disegni. Dopo che lasciai l’amata Marina di Mulo seppi che la principessa si era trasferita a Valentino e che più tardi lasciò Capri ». La ritroviamo infatti a Venezia; qui la nobildonna, ormai anziana, poteva sfogare i suoi istinti artistici. Come ormai si era abituata a fare da decenni, non viveva né lavorava che la notte, in una casa che doveva essere, dice Montanelli, ispirata largamente al Vittoriale. Un testimone d’eccezione è ancora Federico Zeri, che era divenuto amico di Mananà a Venezia, dove si erano incontrati in casa dell’amico comune Vittorio Cini. La principessa già si era fatta notare da Zeri tempo addietro, durante una passeggiata, tra lo stupore dei passanti e lo sciamare dei ragazzini: « Non alta (ma la statura era corretta da scarpe provviste di spesse suole), vestita di nero, sorretta da un singolare bastone da passeggio, dal passo lento ma sonoro a causa di pesanti ornamenti metallici […]. Aveva capelli grigi tagliati cortissimi (a mo’ di diacono), mentre gli occhi, cerchiati da un bistro azzurrastro, spiccavano sul volto ricoperto da un cerone bianchissimo, gessoso, con le sopracciglia rasate e sostituite da due esili strisce di velluto nero. Il suo vestito era sempre uguale, un’ampia pezza di crêpe de Chine nero; per adeguarlo al suo corpo lo faceva appoggiare sulla testa e scendere sino alle caviglie, tagliando con le forbici l’apertura dello scollo che poi veniva semplicemente orlato. L’antica e splendida gioielleria di famiglia l’aveva fatta distruggere: le pietre erano servite per ornare i pomi delle mazze di ebano nerissimo con cui si sosteneva nel camminare, mentre ori e argenti erano stati fusi e lavorati in forma di grandi piastre o placche, lisce e lucide, che essa portava al collo […] e dalle quali veniva il suono metallico che l’annunciava. […] La voce: vellutata e roca, sommessa e gorgogliante, usciva da una bocca tumida, dalle labbra dipinte di color violetto tendente al porpora ». Il nipote Pepito Pignatelli, divenuto famoso pianista e batterista jazz nonché fondatore dello storico "Music Inn" di Roma, era terrorizzato all’idea che la zia Mananà lo sentisse suonare alla radio («Va a finire che mi disereda », diceva tra lo scherzoso e il terrorizzato). Zia Mananà gli lasciò solo i documenti di famiglia. Ma forse non vi fu malizia: la strana zia usava infatti destinare la quasi totalità delle sue rendite a opere di beneficenza. La leggenda vuole che la principessa Pignatelli sia morta a Venezia, precipitata e annegata nel Canal Grande mentre usciva da Palazzo Mocenigo, sua ultima dimora, per partecipare all’ennesima serata mondana. Invero morì poco dopo, all’ospedale, in seguito alle complicazioni di una malattia (forse la tisi, com’era di moda tra le decadenti dannunziane) che la tormentava già da lungo tempo e che la caduta nell’acqua gelida avrebbe sensibilmente peggiorato. Ipotesi, certo: difficile per ora chiarire ulteriormente i fatti. Della sorte riservata alla sculture della principessa si sa ben poco, per ora; ancora una volta, i dati a disposizione sono incerti. Zeri racconta di « tali colossali teste di uomini dalla mascella acromegalica, busti di tipi del Neanderthal, immense fisionomie pensose, giganteschi volti di androidi parenti dei gorilla » caricate nottetempo su di una zattera e affondate al largo della laguna, ché eredi e curatori testamentari non avevano potuto trovare per tali "mostri" un’altra stabile dimora. Se il dandismo femminile potesse avere una sua storia e una sua teoria, di certo dovremmo rivolgere lo sguardo alla vita di questa autentica dandy che, assieme a Luisa Casati, ha di certo contribuito a realizzare ciò che per molte altre era stato solamente un ideale dannunziano. Non è più epoca di tali "mostri", strascichi di un passato profumato d’etere e di fiori secchi: pochi comprenderebbero oggi. Resta la memoria di un’epoca che pare lontana, dove la Bellezza andava a braccetto con la stravaganza. Pochi comprenderebbero oggi… I dati disponibili on-line circa Mananà Pignatelli sono pochissimi, spesso inesatti, e sempre incompleti; teniamo quindi a ringraziare la deliziosa Annalisa Cignitti alla quale dobbiamo molto ché, tramite il suo splendido blog La Rocaille, ci ha saputo ispirare questo breve e purtroppo incompleto articolo, speriamo fonte di ulteriori studi sugli argomenti appena sfiorati. Giovan Battista Brambilla (autore dell’intervista a Montanelli sopra riportata), biografo "ufficiale" della famiglia Pignatelli, dal quale abbiamo avuto l’onore e il privilegio di farci strapazzare del tutto gratuitamente, conduce da anni ricerche sull’eccentrica principessa, ed è ad oggi in possesso di un archivio strabiliante a suo riguardo; ha avuto la bontà di correggere questo articolo epurandolo da molti errori, pur rifiutandosi gelosamente di arricchirlo; ci ha infine promesso una biografia di Mananà, e noi lo ringraziamo già da ora ché finalmente qualcuno potrà gettare un poco di luce su questo fantasma, tanto misterioso quanto affascinante.