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MALAPARTE (1959)
di Indro Montanelli

Non per consolarci della sua scomparsa, ma per essere proprio sinceri anche a scapito dell’umana pietà, dobbiamo dire che Curzio, morendo, ha avuto ragione. Non era fatto per invecchiare, e la dentiera gli sarebbe stata malissimo. Pur volendogli bene solo a mezzo, come s’usa fra toscani, ogni tanto pensavo con terrore al giorno in cui questo rumoroso e variopinto personaggio, che ci ha fatto da avanguardia nella vita roteando il manganello, con un cappellaccio alla "dioboia", come dicono a Livorno, di traverso sul ciuffo, lanciando berci e facendo boccacce a tutti, avrebbe dovuto rinunziare per via dei reumatismi alla sua spavalderia. Non ero punto sicuro che ci si sarebbe rassegnato, e mi attristava l’idea di vederlo, avvilito, in lotta con gli anni. Ne aveva cinquantanove. Ancora un passo, e la sessantina lo avrebbe ingoiato, irrevocabilmente. Invece ha fatto in tempo ad andarsene alla Malaparte: con tutt’i suoi capelli ancora neri e col fare insolente e ribaldo, da bravaccio ammazzatutti, con cui partiva per le sue spericolate conquiste: di uomini, di donne, di trincee e di gloria. Fra tanti che inutilmente ci si provarono prima, durante e dopo il fascismo, gli unici che siano riusciti a imbavagliarlo sono stati i cinesi, i quali ce lo restituirono con la bocca ingabbiata in una maschera di garza. Confesso che quando lo vidi scendere dall’apparecchio conciato a quel modo, pensai ancora una volta che Curzio ci prendesse tutti per il bavero. Nonostante la tracotanza dei suoi muscoli, egli aveva già altre volte sofferto di polmoni, in seguito a una lesione procuratagli dai gas nella prima guerra mondiale. Ogni tanto gli tornava fuori da sola, sotto forma di bronchiti o di pleuriti; ogni tanto la tirava fuori lui, quando gli faceva comodo: per il trasferimento, per esempio, da una galera all’altra, o da questa a quella località di confino. Perché, da buon pratese, non sprecava nulla, neanche quello straccio di malattia. Ma poi, regolarmente, guariva.
A me questo scherzo già lo aveva fatto una volta quando, trovandomi a Helsinki, avevo ricevuto un telegramma di Aldo Borelli, direttore del Corriere, che m’ingiungeva: "Malaparte moribondo. Si precipiti suo capezzale Stoccolma". Mi ci precipitai. Ma il posto al capezzale era già occupato in maniera permanente dall’infermiera che lo aveva assistito nella più liscia e placida operazione d’appendicite a freddo. Dei due, la malata grave era lei, poveretta, che aveva perso la testa per quel degente. Lui, sdraiato sul letto in costume da bagno e in una posa fra Madame Récamier e da gladiatore stanco, sotto un Niagara di fiori e di telegrammi, seguitava a lasciarsi piangere moribondo da mezz’Italia, e si divertì moltissimo del fatto che anche Borelli ed io avessimo abboccato. ‹‹ Ma come!? ››, disse, giulivo e sorpreso. ‹‹ Ci avete creduto!?... Avete creduto che il Malaparte venisse a morire qui, a due passi da Roma, quando in casi come questi le spese di trasporto della salma spettano al giornale!?... Almeno in Cina va a tirar le cuoia. Così, anche dopo morto, viaggia un po’. Gratis ››.
C’è mancato nulla che la celia si avverasse.
Ma quel che ha reso patetica e in certi momenti drammatica la sua fine è che, anche stavolta, Curzio credeva di celiare. I medici non avevano avuto nessuna difficoltà a dargli a intendere che si trattava del solito polmone sinistrato dai gas. Un po’ perché, essendo ormai troppo tardi, avevano rinunziato a operarlo, un po’ perché i cinesi ci avevano aggiunto volontariamente del loro applicandogli quella mascherina che confermava la diagnosi di pleurite, ma soprattutto perché era convinto che anche la Signora della Falce avesse, come tutte le signore, un debole per lui, Curzio ha trascorso gli ultimi giorni della sua vita a giocare con l’idea della morte come un gatto col topo, senz’avvedersi che il topo era lui. Ne parlava, ma come si parla di una persona di servizio, tenuta a entrare in camera del padrone solo a comando. Era persuaso di aver ripetuto, in grande, il colpo di Stoccolma, e sotto sotto si compiaceva della sua riuscita. Il governo di Pechino aveva lanciato appelli attraverso la radio, clinici e chirurghi erano accorsi dall’Italia, un aereo speciale era stato mobilitato, nugoli di giornalisti e di fotografi lo avevano atteso a tutti gli scali, scrittori, attori, cineasti e ministri si assiepavano nei corridoi della clinica che l’ospitava. Era proprio un bel colpo, alla Malaparte. E tanto n’era certo, che a una comune amica disse che io non volevo andare a trovarlo perché, sapendo che si trattava di tubercolosi, avevo paura dei microbi.
In realtà, povero Curzio, sapendo appunto che non si trattava di tubercolosi, avevo paura che me lo leggesse negli occhi e che non mi riuscisse secondarlo in quel groviglio d’illusioni. Dal letto in cui lentamente e senz’accorgersene si spegneva egli seguitava, più rissoso e rapinoso del solito, a profondere le gemme del suo talento: motti memorabili, definizioni taglienti, aneddoti da salotto e da osteria; e a tendere l’orecchio per sentire se avevano fatto il giro della città e quali echi di scandalo vi avevano suscitato. C’e nera per tutti e con tutto dentro, il buono e il cattivo, alla rinfusa, come del resto accade nei suoi libri. L’aveva coi critici, coi colleghi, coi giornali, con la politica, col teatro, col cinematografo, col processo Montesi. Ma soprattutto pare che l’avesse con me. A Guglielmo Peirce, che andò a trovarlo con Ilario Fiore, gridò: ‹‹ Non voglio morire prima di Montanelli!... Sono io che voglio andare al funerale suo!... ››. Chissà perché mi aveva preso tanto in odio. Ma non mi dispiace che per merito mio sia morto così in carattere con se stesso, battagliero e aggressivo, sul punto di ripartire, "a tracolla schioppi e tromboni" come un eroe delle sue "cantate" di Strapaese, per qualche nuovo putiferio.
Intendiamoci: questo è il Curzio, quale si è mostrato fino in fondo, ignorando che in fondo era arrivato. Ma se sia quello vero, non lo so. Quest’uomo che ha avuto tanti adoratori e soprattutto tante adoratrici, non ha mai avuto un amico a cui confidarsi. E con tanta gente a capo del letto, in camera e in anticamera a reggergli, come a lui piaceva, lo strascico, è morto solo, col suo segreto. Se l’ha serbato con tanta ostinatezza facendo il Malaparte fino all’ultimo giorno, vuol dire che teneva a portarselo nella tomba, e sarebbe sacrilego da parte nostra il frugarci dentro. Ma io ho di lui un’altra idea; di un personaggio molto diverso, e migliore, di quello ch’egli stesso si costruì, cominciando dal nome. Rinunzio a dirla, perché so che non gli farei punto piacere. E preferisco ricordarlo com’egli stesso mi si mostrò, con la certezza che un giorno me ne sarei ricordato, alla vigilia del suo viaggio a Pechino.
Ci s’incontrò per caso nell’atrio del Grand Hotel, e mi fermò con un gesto: ‹‹ Proprio te. Mettiti a sedere, e senti se è poco bella ››. Trasse di tasca alcune cartelle dattiloscritte e cominciò a leggermele. Era, come al solito, un eccellente scampolo di prosa, pastosa e colorata, ma riguardava un poeta cinese che non avevo mai sentito rammentare. ‹‹ Come!? ››, fece, indignato. ‹‹ E’ famoso… Non lo conosci? ››. ‹‹ No ››. Mi guard; con aria di riprovazione, poi ammise, stringendosi nelle spalle: ‹‹ Be’, a dire il vero, non l’avevo mai sentito rammentare neanch’io, fino a qualche giorno fa… Ma cosa vuoi? Se lo confessavo, saltava subito su qualche altro a dire che c’era stato a balia insieme, e l’invito per andare a commemorarlo a Pechino toccava a lui… Io lo so come fanno "quelli": ti dicono che hanno rinunziato, e hanno già il biglietto in tasca… Eppoi, cosa vuoi, ormai sono andato fino a Londra, per documentarmi su questo versaiolo… ››. ‹‹ Fino a Londra? ››. ‹‹ Erano anni che non ci mettevo piede, e m’hanno fatto un monte di feste. Ma m’è successo un incidente. A un pranzo in mio onore all’Associazione degli scrittori, figurati, il presidente s’alza e pronunzia il brindisi di benvenuto con queste parole: "Bevo alla salute del nostro ospite italiano, sebbene sia personalmente convinto che gl’italiani sono delle canaglie: tutti, nessuno escluso…". Io rimango impassibile, poi a mia volta mi alzo, e pronunzio il brindisi di risposta, guardandolo dritto negli occhi: "Bevo alla salute dei miei anfitrioni inglesi, perché sono personalmente convinto che gl’inglesi sono dei gentiluomini: tutti, escluso uno…". Eh? ››.
Ma, fissandomi, s’avvede che qualcosa non va, e torna a stringersi nelle spalle: ‹‹ E va bene, lo so… Lo so che questa storia non è successa a me ma a Talleyrand… ››. ‹‹ Ero presente quando te la raccontò Longanesi a Milano, l’anno scorso… ››. ‹‹ Sì, ma non è una buona ragione per ricordarmelo. Io, se me l’avessi riraccontata tu attribuendola a te stesso, avrei fatto finta di non saperla. Questo è ciò che gl’inglesi chiamano fair play. Ma tu sei di Fucecchio…››. ‹‹ Senti un po’, Curzio: tutta questa faccenda del poeta cinese e del viaggio a Pechino non te la sarai mica inventata da capo a piedi per attribuirti l’aneddoto di Talleyrand? ››.
Noooo! ››, fa lui, sinceramente scandalizzato. ‹‹ A Londra non ci sono stato, ma a Pechino ci vo davvero… Te l’ho perfino letta, la commemorazione, cioè il prologo… Bello, eh?... Quel parallelo con Jacopona da Todi t’è garbato? ››. ‹‹ Molto. Ma hanno veramente qualcosa in comune? ››. ‹‹ Questo non lo so perché non conosco il cinese. Ma non lo possono sapere neanche i cinesi, perché a loro volta non conoscono Jacopone… E tu dove vai? ››. ‹‹ A Budapest ››. ‹‹ Ti fermi a Vienna? ››. ‹‹ Sì ››. ‹‹ Mi fai un piacere? ››. ‹‹ Due ››. ‹‹ Io tempo fa scrissi un pezzo per una rivista di lì, che mi aveva chiesto un ricordo dell’Austria. E raccontai un Natale trascorso, sotto l’occupazione russa, in quella città, rinchiuso in una camera del Sacher in compagnia del mio cane morente, che poi durante la notte andai a seppellire al Prater, con una slitta sulla neve, mentre tutte le campane sonavano a distesa. Due soldati sovietici ubriachi dapprima minacciarono di arrestarmi, vedendomi scavar la terra, perché credevano che volessi nasconderci chissaché. Ma poi videro cos’era, e allora si misero ad aiutarmi con le baionette, e mi baciavano le mani piangendo,e mi ringraziavano di avergli dato l’occasione di compiere, con quegli arnesi di guerra, in gesto di carità proprio in quel giorno di Cristo… Era un bel racconto: c’era dentro tutta la Vienna del dopoguerra, meglio che nel Terzo Uomo, te l’assicuro… Era proprio un bel racconto: lo rileggevo ieri, e mi veniva da piangere… Be’, insomma, una lettrice di laggiù m’ha scritto per dirmi che n’era rimasta talmente sconvolta ch’era corsa al Prater, e fruga e fruga, aveva trovato la tomba con sopra il nome del mio cane, iscritto su rozza pietra…››. ‹‹ E con ciò?...Vuoi che ci porti dei fiori? ››. ‹‹ No ››, ribatte lui placidamente. ‹‹ Vorrei solo sapere di che cane si tratta, perché a me, a Vienna, non ne sono morti punti ››.
Forse nemmeno questo era vero. Forse quel racconto lo aveva inventato lì su due piedi. Ma che importa? Gli serviva per dare un’ultima pennellata di colore all’unico personaggio cui Curzio, con tanti libri che ha scritto, pieni di bellissime pagine, tenesse: Malaparte. Non sta a noi revocarne in dubbio l’autenticità, dopo ch’egli ha trascorso la vita a perfezionarlo giorno per giorno, ora per ora, anche a prezzo di autentici eroismi, compreso quello di non togliersene la maschera nemmeno in cospetto della morte, cui credeva di ammiccare celiando e che invece era venuta a ghermirselo; e di andarsene, pur di non scoprirsi, solitario, in mezzo a tanta gente a capo del letto, in camera e in anticamera, a reggergli, come a lui piaceva, lo strascico.

(Tratto da "Incontri - supplemento alla Storia d'Italia", vol.5, 1998, Fabbri editori)



Particolare dal ritratto di Curzio Malaparte, di Massimo Campigli (1933)