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INTRODUZIONE A JACQUES RIGAUT
di André Breton

Lo "stoicismo - dice Baudelaire - religione che ha un solo sacramento: il suicidio!" Benchè il suicidio no abbia tardato ad assumere per lui questo valore di sacramento unico, a Rigaut bisogna attribuire tutt'altra religione che quella stoica. La rassegnazione non è il suo forte: non solo il dolore, me l'assenza di piacere è per lui un male intollerabile. E' combattuto tra un egoismo assoluto, flagrante, e una generosità innata, che sconfina nella prodigalità suprema, quella della vita costantemente offerta, disposta a perdersi per un si o per un no. il più bel dono della vita è la libertà che ci è lasciata di poterne uscire al momento giusto, libertà almeno teorica, ma che val forse la pena di conquistare con una lotta accanita contro la vigliaccheria e contro tutte le insidie di una necessità fatta uomo, che ha relazioni troppo oscure e troppo discontinue con la necessità naturale. Verso i vent'anni Jacques Rigaut decretò da sè la propria condanna a morte, e attese con impazienza, d'ora in ora, per dieci anni, l'istante perfettamente appropriat in cui porre fine ai suoi giorni. Si trattava, in ogni caso, di un'esperienza umana esaltante, alla quale dare un accento tra il tragico e l'umoristico che è solo suo. Le ombre di Petronio, di Alphonse Rabbe, di Paul Lafargue, di Jacques Vaché, sono come segnali lungo una strada sorvegliata anche da altri eroi che con fastidio riconosciamo ben diversi da coloro che li chiamarono all'esistenza sensibile: "Chi non è Julien Sorel? Stendhal - Chi non è Monsieur Teste? Valéry - Chi non è Lafcadio? Gide - Chi non è Giulietta? Shakespeare". Jacques Rigaut, la cui ambizione letteraria si limitò a fondare un giornale il cui titolo è già un programma, 'La Grabuge' (La Rissa), nasconde ogni sera una rivoltella sotto il guanciale: è il su modo di aderire all'opinione comune che la notte porti consiglio, e di sperare di farla finita con la teppa che è in noi, cioè con le forme convenzionali di adattamento. Baudelaire dice ancora: "La vita ha una sola vera attrattiva: il fascino del gioco. Ma se ci è indifferente vincere o perdere?". Rigaut gira attorno a questa indifferenza senza mai raggiungerla, ma il gioco resta. Correre il rischio; in caso di dubbio più o meno acuto, giocarsi la certezza a testa e croce. Si presenta come un "personaggio morale", ma intendiamoci bene: visto il carattere steso della sua decisione, con lui si dà un addio alle convenienze. Il dandysmo eterno è in gioco: "Sarò un grande morto... Provate, se vi riesce, a fermare un uomo che viaggia col suo suicidio all'occhiello". Ha viaggiato curiosamente come lo sbadiglio di Chateaubriand fino a noi: "Imprudenza: l'uomo che sbadiglia davanti allo specchio. Chi dei due si stancherà di sbadigliare? Chi ha sbadigliato per primo? Da mascella a mascella, il mio sbadiglio scivola fino alla bella Americana. Un negro ha fame, una ragazza s'annoia: sono io che ho sbadigliato". Si tratta sempre di saltare su una Rolls Royce ma, si badi, sempre a marcia indietro. "Dopo di me il diluvio", queste parole non gli suggeriscono altra idea che quella d'inseguirsi tra i suoi antenati, di riacciuffare i morti che possono aver contato qualcosa nel corso della loro vita, di dare al loro destino il piccolo giro di manovella che li devii su un'altro binario. Occorre solo trovare il veicolo. E' la corsa delle diecimila miglia di Jarry applicata alla vita della mente. Finalmente, il 5 novembre 1929, il momento è venuto. Jacques Rigaut, dopo una minuziosa toilette, e preoccupandosi che questa specie di partenza abbia tutta la dignità esteriore che esige: non lasciar nulla fuori posto, cautelarsi per mezzo di qualche cuscino da ogni possibile tremito che sarebbe un'ultima concessione al disordine, si tira una pallottola nel cuore.

Tratto da "Antologia dell'humor nero" di André Breton, edito in Italia da Einaudi.