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LA FEMME FATALE
di Massimiliano Mocchia di Coggiola



I. ANGELO DEL FOCOLARE
Il mito della femme fatale è, prima di tutto, una patetica favola a sfondo moralistico. Nasce, in sostanza, quale ammonimento alla società: ecco ciò che l’erotismo femminile senza restrizioni (la donna: prima peccatrice) può provocare. L’assoggettamento dell’uomo, sesso forte, al potere della donna, sesso debole, è inconcepibile, per una questione di stereotipi e convenienze. Ma è anche vero che l’unica tirannia che duri, secondo Oscar Wilde, è appunto quella del debole sul forte. Raccontare, rappresentare la femme fatale fu come l’appendere un cartello con la scritta "Attenzione!": tenete le vostre donne in casa, al riparo, rendetele quegli "angeli del focolare", mogli domestiche, riservate e serene nella loro accettazione della condizione di mediocrità famigliare; esse hanno un elenco di precisi doveri: badare al figliolame, condurre la casa (o meglio: i domestici), ed essere in grado di svolgere tutti quei doveri tipici della brava moglie borghese: ricamare, cucire, sorridere, conversare cogli ospiti, servire il tè, adempiere ai doveri coniugali più intimi – senza troppa passione: il trasporto amoroso è sinonimo di debolezza eccessiva, la sensualità è morbosa e malata. L’uomo bacia la moglie sulle guance, e si prende ciò che la moglie non gli dà nei postriboli e nei casini. Tutto fila alla perfezione, e George Mosse nel suo illuminante saggio "Sessualità e nazionalismo" illustra in maniera esaustiva ed ironica tale metodo, tipicamente ottocentesco. Più che essere tenuta al riparo, la moglie del XIX secolo non deve essere liberata per paura che possa nuocere.
La brava donna, già sposa a vent’anni se non prima, ha da contribuire alla sanità della nazione agendo come panacea per tutti i mali all’interno della società borghese; la sua divisa è la pudicizia; il ruolo che essa svolge è importante e riconosciuto. Non vota, né lavora: non vota perché di politica non ne capisce nulla, non lavora perché ai bei tempi bastava un solo stipendio. Chiederà poi in futuro di votare, e poi anche di lavorare; la seconda richiesta, accordata poi quanto la prima, potrebbe far supporre che certi pregiudizî erano fondati. O forse che un solo stipendio non bastava davvero più, e che anche i mariti iniziavano ad accorgersene, nonostante la "conduzione della casa" non spettasse direttamente a loro.
La figura dell’angelo del focolare non è esclusivamente tipica del secolo XIX, ma si potrebbe tranquillamente affermare che è grazie agli ideali di questo secolo – nazionalistici, razzisti, tendenti ad un desiderio di mitica purezza e tranquillità sociale a costo di sacrifici enormi, oltre essere caratterizzata dalla presa di coscienza del valore del denaro – che la brava donna di casa s’instaura come figura onnipresente e necessaria in ogni famiglia. Guai a lei se tradisce, se fugge, se dimostra scontentezza o intelligenza. L’angelo del focolare rimarrà un personaggio ossessivo sino agli anni Sessanta, e soprattutto negli Stati Uniti, rigurgitanti immagini di felici famigliole sorridenti: lui con la pipa diritta in bocca, la cravatta nera e la giacca blu, i bambini biondi coi capelli a spazzola, e la madre, con una corta capigliatura mossa e ramata, cinquantadue denti in fila tra due labbra dipinte di rosso squillante, vestitino attillato e grembiule da cucina – lei, la sexy-casalinga, inforna tacchini incerati ed enormi, imbocca rosei e paffuti sgorbî sdentati, e compie quei lavoretti di casa che, a causa della scomparsa del servidorame (una vittoria, secondo quelle stesse casalinghe disoccupate con la schiena spezzata già a trent’anni) è costretta a fare. E’ felice, dopotutto.
L’immagine tipica è quella della donna che ancora oggi viene stampata sulle confezioni del dado Star; micidiale. Suo figlio è con ogni probabilità il ragazzino ariano del cioccolato Kinder, recentemente aggiornato ai più moderni canoni estetici. Identici.



II. LA STREGA
Tutto questo non fu utopico, ma reale. Immagino che non ci si dovette sforzare nemmeno più di tanto: essere mantenuti fa gola a tutti, o quasi. Tanto più che questi angeli del focolare nascondevano tutti uno scheletro nell’armadio; sotterfugî, meschinità, divorzî infamanti, scandali, eccetera. Difficile essere santi, l’importante era però dar l’idea di esserlo.
Ma accanto a questa figura di donna buona, remissiva, rispettosa e timorata convisse, e convive tutt’ora sebbene in termini differenti che andremo in seguito a rilevare, la figura spaventosa della femme fatale, ovvero della donna fatale, seduttrice mortale. Se l’angelo del focolare è tipicamente ottocentesco, a mettere in pericolo la stabilità della famiglia e prima ancora l’autorità maschile era venuta questa strana figura di donna, pronipote delle streghe medievali, indipendente, sfacciata e spaventosamente sessuata.
Nel Settecento si rese famosa la figura letteraria della Duchessa de Merteuil, sadica invenzione di Choderlos de Laclos nelle sue "Le relazioni Pericolose" (1782). La Duchessa è vedova; una buona scusa per poter fare della propria vita ciò che desidera, scartando amanti uno dopo l’altro, come caramelle, con la ferma intenzione di "non prendere mai più ordini da nessun uomo". La trama del libro si basa sulla crudeltà cinica di questa donna la quale, inizialmente, pare essere in secondo piano rispetto alla figura del Visconte di Valmont, libertino senza scrupoli, ma finisce poi per rivelarsi superiore ad esso nei suoi perfidi piani di seduzione, mirati ad intaccare l’onore e la reputazione di una manciata di persone sgradite, perché a lei disubbidienti.
Si delinea già con la Marchesa de Merteuil quel tipo di donna fatale che andremo ad individuare: cinica e calcolatrice nei suoi piani di annientamento. Ama farsi desiderare, ma raramente, molto raramente, si concede. Disconosce l’amore, lo rifiuta o se ne addobba come fosse un vestito prezioso, ma che finisce in breve tempo tra gli stracci lisi. In virtù della sua freddezza, la donna fatale sa riconoscere il tempo in cui colpire, come colpire, e può avere una marea di stratagemmi come può averne uno solo: il risultato è sempre lo stesso, ovvero far soffrire coloro che si permettono di amarla.
Leopold von Sacher-Masoch porta ai limiti estremi questo mito, rendendolo non più seducente ma odioso e mortifero, nel suo romanzo "Venere in pelliccia" (1878); Wanda, la protagonista femminile, si prodiga con tutte le sue forze a far si che il narratore si renda suo schiavo, sotto ogni punto di vista. Tramite un vero e proprio contratto, Severin, innamorato follemente della crudele bellezza bionda conosciuta quasi per caso, dà sfogo alle sue pulsioni masochiste (il termine medico deriva proprio dall’autore del libro, tra l’altro) arrivando a provare piacere sessuale solo nel farsi frustare selvaggiamente da Wanda. Non protesta quando questa lo umilia in ogni modo, lo porta con sé durante i suoi viaggi in qualità di infimo servitore, non protesta quando Wanda si stanca di lui ma continua a tenerlo con sé in qualità di eunuco, e non protesta neppure quando lei si prende un altro amante, bello, crudele e desiderato quanto lei, capace di dominarla. Severin darà, a modo suo, le dimissioni, e dopo una serie di orrende vicissitudini, scoprirà delle verità inimmaginabili riguardo al suo morboso rapporto con Wanda. Costei, precisa lei stessa sin dall’inizio del romanzo, non lo ama e non potrà mai amarlo. Si dimostra arcigna e spietata in pubblico quanto dolce e sensuale in privato: sa in sostanza come tenere al guinzaglio il protagonista, sino a fargli perdere la ragione completamente. La componente "stregonesca" di Wanda si fa evidente quando il protagonista si rende conto di essere fatalmente soggiogato dalla sua crudele padrona solo quando questa indossa una qualsiasi pelliccia.
Evidentemente, tale convinzione è prettamente maschile: non è la donna ad essere capace di magie occulte, ma è Severin ad essere un depravato, in quest’ultimo caso. E tuttavia l’ineguagliata malvagità della Wanda di Sacher-Masoch rappresenta forse il culmine, il parossismo della femme fatale, il punto di non ritorno riguardo il cinismo e la follia della donna-vampiro.
Più essere soprannaturale che umano, la femme fatale è rappresentata pure nel romanzo dell’orrore più famoso di tutti i tempi: "Dracula", di Bram Stoker. Le tre mogli del Conte sanguinario non invidiano in nulla il loro degno sposo: succhiano il sangue da neonati vivi (sacrifico del quale erano accusati, tra l’altro, anche gli ebrei – e da tempo immemorabile), e seducono il protagonista ospite di Dracula per poterne ancora una volta cavare il sangue, loro unica fonte di nutrimento. Simbolico, nevvero?



III. LA PROVOCAZIONE
La femme fatale è diabolica in sé tanto quanto l’uomo che ne è assoggettato se la rappresenta come tale. Più lui se la figura diabolica, più lei si sente autorizzata ad esserlo. Ella sa quali effetti può provocare uno suo sguardo, un gesto, una parola. Sa quando la sua preda è ormai a tiro, e calcola quale metodo di aggressione adottare: se essere lenta e metodica, oppure veloce e spietata.
Dal canto suo, l’uomo che ne diviene succube ricopre il ruolo di preda solo perché ha ceduto al fascino della femme fatale, e non ha saputo riconoscerla, o resisterle. Questa può essere d’aspetto dolce e ingenuo, come Louise Brooks nel film "Lulù – il vaso di Pandora" (1928), tratto dall’omonima opera teatrale di Frank Wedekind: quasi una bambina nei modi e nei sentimenti, ma consapevole dell’attrazione micidiale che involontariamente attizza negli uomini che incontra. Il suo desiderio non è la punizione del maschio, ma la propria affermazione sociale; non solo tramite la seduzione (o esisterebbero centinaia di donne fatali) ma grazie all’abuso cinico degli uomini che di volta in volta cedono al suo fascino. Uno di questi sfortunati protagonisti è Alwa il quale, mentre fa l’amore con Lulù le domanda se l’ama; ma ella risponde, ridendo "Io? Nemmeno per sogno!". Grazie ai suoi civettuoli capricci convincerà il ricco Schon a sposarla ma questi, rendendosi ben presto conto del carattere diabolico della moglie, le dà una pistola e le ordina di suicidarsi; chiaramente è Lulù a sparare a Schon, uccidendolo. Non una sola goccia di sangue macchia il suo abito bianco. Lulù si sporcherà solo per le strade di Londa, in veste di prostituta, che adesca clienti anche se squattrinati perché "Non importa, mi piaci". Dacché una simile creatura ha da essere eliminata, Wedekin farà entrare in scena Jack lo Squartatore, che alla fine della commedia darà un taglio netto alla vicenda.
Ma la femme fatale può essere anche riconoscibilissima, come la Lola del romanzo "Il professor Unrat" di Heinrich Mann: cantante di cabaret, donna vissuta, cinica e terribilmente annoiata. Similmente alla Wanda di Masoch, Lola si decide a sedurre solo dopo un primo impulso datole dall’uomo che le farò da servente, il professor Unrat. Questi due tipi di donne hanno bisogno dell’assicurazione primaria da parte della loro vittima per non cadere in errore: lo spasimante deve palesarsi disponibile a rendersi tale – deve insomma mostrarsi debole sin dall’inizio. Un unico confronto tra predatrice e preda può essere sufficiente allo scopo.
Marlene Dietrich, ventinovenne, presterà il suo volto e soprattutto le sue gambe alla versione cinematografica di Lola nell’amaro film "L’Angelo azzurro" (1930). Come Louise Brooks due anni prima, ma con più popolarità, la Dietrich diverrà lo stereotipo della donna fatale: lo sguardo carico d’odio e di noia, le movenze sensuali, l’erotismo promesso ma mai pienamente svelato. Vestita da uomo, la Dietrich è oramai quell’icona classica della donna dominatrice che affascinerà generazioni di cinefili, e non solo. Si sa che l’attrice era "fatale" anche nella vita, e le divenne abituale vestirsi da uomo per creare sensazione; questa sua componente androgina sarà motivo di attrazione persino per un omosessuale come Cecil Beaton. E come vuole la logica di queste particolari donne, la Dietrich ne divenne pure l’amante per qualche tempo.
Se la femmina, tradizionalmente debole, si mette a contrastare ed invertire le parti, si rende ironicamente maschio: giacca e cravatta, capelli corti, seno piatto e molti sigari; un po’ sfotte, e un po’ si libera.
La "maschietta", moda femminile tipica degli anni ’10 e ’20, pareva fatta apposta per assecondare tutte quelle donne desiderose di rivalsa, e soprattutto desiderose di staccarsi dagli stereotipi ottocenteschi, dannunziani, misteriosi e perversi. Una moda che però rese un po’ troppo manifesta quella che, per molte, era diventata il "fare la donna fatale", senza esserlo veramente.
Elena Muti, nel romanzo "Il Piacere" (1889) di Gabriele d’Annunzio, è invece un tipo di femme fatale ottocentesca carica di sensuale ambiguità, giacché non sarà mai comprensibile fino a che punto la crudeltà le fosse propria o fosse solo una proiezione delle fantasie del protagonista, Andrea Sperelli – un dandy tormentato, romantico e libertino, ossessionato dalla presenza di lei, reale o fantastica che fosse. D’Annunzio sarà tormentato a sua volta, per tutta la vita, dalla femme fatale più celebre della storia: la Contessa Luisa Casati Stampa, diabolica e seducente mondana col gusto per i leopardi da passeggio, le gondole veneziane, i serpenti esotici, gli uomini sposati. La loro unione sarà breve ma intensa, supportata da una costante e sincera amicizia. Se il matrimonio si fosse andato a concludere (ma la Casati era sposata già al Marchese Stampa) si sarebbe con ogni probabilità formata una rarissima coppia dandy-femme fatale come è possibile solo al cinema – mi vengono in mente Gomez e Morticia Addams.
L’autentica femme fatale è di carattere forte, combattivo, profondamente egoista. Abbiamo pure detto che raramente ella si concede sessualmente; se lo fa è per un breve attimo, intenso, ma che sarà l’ultimo per il suo compagno. Gode altrimenti della propria castità, in qualità di strumento di tortura: esempio d’un tale atteggiamento lo si ritrova in "La donna e il burattino" (1898) dello scrittore decadente Pierre Louys; Michel Delon, nella sua postfazione a questo racconto lungo rileva quella che a parer suo è una variante della femme fatale, "nutrita di esotismo, erotismo, estetismo: l’allumeuse, colei che provoca senza mai concedersi"; un boia di marmo, dirà Barbey d’Aurevilly, capace di una castità micidiale. L’ammaliante Conchita, protagonista del racconto, secondo le stesse parole di Louys, ha un solo compito, che "consiste nel seminare la sofferenza e guardarla crescere". Luis Bunuel trarrà dal racconto un film memorabile: "L’oscuro oggetto del desiderio".



IV. VOGLIA DI DOMINIO: LO STEREOTIPO DELLA DONNA ORIENTALE
Un giovane poeta francese, malato e drogato, s’accinge nel 1844 a compiere un viaggio in Oriente, che lo porterà a scoprire gli angoli meno visitati e più affascinanti delle città egiziane, libiche e turche. Si tratta di Gerard de Nerval, morto suicida nel 1855, che pubblicò a più riprese le sue memorie di viaggio quattro anni prima di affrontare il suo celebre aforisma "Ci sono solo due tipi di epiloghi, il matrimonio o la morte".
Nel suo "Viaggio in Oriente" (e più in particolare in quel capitolo pubblicato in Italia separatamente col titolo "L’Harem") Nerval pare essere intenzionato, ad un certo punto, ad intraprendere la ricerca di una moglie. In realtà sappiamo da sicure fonti che non fu lui il protagonista delle vicende alle quali di seguito si accenna, bensì un suo amico, ben più dotato economicamente di lui (e ci voleva poco, pare) che s’era fissato con l’idea della moglie esotica. Moglie che il protagonista deve procurarsi entrando in contatto con un vero e proprio mercante di mogli; il tutto a pagamento. Il narratore verrà così a cozzare con i costumi e le abitudini di quei popoli esotici, scoprendo prima di tutto che mantenere una moglie egiziana non è facile come sembra. La donna da lui scelta, per quanto graziosa e giovane, si comporta già subito come una regina, desidera apparire ricca agli occhi delle donne del Cairo, benché sia effettivamente al livello di schiava; è cocciuta, testarda, e – bisogna aggiungere – ha un gran senso dell’umorismo. Il protagonista si renderà conto in questo modo che molti dei pregiudizî, delle idee occidentali riguardo i costumi degli orientali, sono in parte fasulli. La donna orientale non è timida né remissiva, ed è difficilmente dominabile dal marito, nel senso comune del termine. Senza descrivere una femme fatale, Nerval dà però il via ad una lunga tradizione di crudeli seduttrici esotiche: basti citare la Salambò di Flaubert, o la Izé Kranile, di Lorraine, o la Salomé di Wilde, della quale parleremo in seguito.
Le colonie sono per gli occidentali terre misteriose e fascinose, sedi di religioni ancestrali, governi mitici, mostri e dèi raccapriccianti, lussuria e depravazione, e via dicendo – perfetti recinti in cui sfogare ciò che la severa morale ottocentesca non tollera in patria.
Francesi e inglesi daranno vita alla leggenda della tipica femme fatale orientale o medio-orientale, attribuendo le caratteristiche della donna crudele e seducente a tutta una categoria razzistica e sessista che trae linfa vitale – questa volta – dalla sola fantasia degli uomini, artisti o esploratori che fossero.



V. DEVOZIONI: RELIGIONE E POLITICA
A centrare il tema di collisione tra femme fatale e religione sono senza dubbio la "Salomé" di Oscar Wilde, e la donna-robot Hel del romanzo infuso di spirito nazionalsocialista "Metropolis" di Thea von Harbou, tradotto poi in un grandioso film realizzato da Fritz Lang.
" Salomè" deve molto alle atmosfere di Flaubert, ma anche alla "Hérodiade" di Mallarmé, ai dipinti di Moreau (con una Salomè piuttosto androgina nelle sue forme…), e di nuovo alla "Erodiade" di Massenet. Salomè è forse la prima femme fatale della storia, attestata da un testo biblico, e simile ma non altrettanto famosa quanto un’altra decapitatrice, ovvero Giuditta (assassina per vendetta).
Salomè è invece esclusivamente preda del suo egoismo: è giovane, bella, potente, viziata. Crede di poter ottenere tutto ciò che vuole, ed in effetti sa come ottenerlo sempre. La sua vittima, in questo caso il patrigno Erode (non certo uno qualunque), le promette mari e monti pur di vederla ballare; non c’è bisogno di dire di più riguardo a questo desiderio, tutt’altro che innocente. Salomè inizialmente rifiuta, forte della indipendenza di cui sa di godere anche di fronte al tetrarca, furiosamente innamorato di quella bellezza che non può concedersi e che comunque, di suo, non si concede comunque; ma poi, in preda ad un amore morboso per Iokanaan, ovvero il santo profeta Giovanni incarcerato da Erode, Salomè finisce per concedere al patrigno l’anelata danza, per poi pretendere in cambio la decapitazione del profeta che, unico in tutto il regno, non sembra concupire affatto la bella danzatrice – ed anzi ne insulta insistentemente la famiglia. Questa caratteristica della femme fatale (e cioè di offrirsi a coloro che non sembrano desiderarla) occuperà in seguito un capitolo a parte.
Il caso di "Metropolis" è ancora una volta rappresentativo di quegli strascichi di cultura borghese che rimanevano insiti nella società del nuovo secolo, nonostante si muovessero correnti di pensiero in un certo senso più dinamiche rispetto alle precedenti. Il nazionalsocialismo, ovvero il partito nazista capeggiato da Adolf Hitler, era uno di questi movimenti pretenziosamente provocatorî, sebbene in realtà, mirando al potere, non ponesse più di tanto in discussione gli ideali ed i valori che avevano oliato gli ingranaggi del secolo XIX. Thea von Harbou, tesserata al partito nazista, moglie dell’ebreo Fritz Lang, scrisse nel 1926 un romanzo d’appendice, titolato appunto "Metropolis", con due protagonisti femminili: la bella Maria, agitatrice delle masse operaie in nome di un nazionalsocialismo più libero e felice, e la cattivissima Hel, robot creata dai padroni sfruttatori, incaricata di distruggere Maria e il suo operato pseudo-comunista.
Maria è timida, remissiva e profondamente religiosa: la donna tedesca ideale (troverà degno marito) – mentre il robot col quale ella ad un certo punto viene sostituita le è identico in fattezze fisiche quanto diverso nei comportamenti: se non avesse il cuore di metallo – o forse proprio per questo – sarebbe una deliziosa femme fatale, per quanto più folle di tutte quelle finora enunciate giacché capace, in virtù della propria sfrenata carica erotica, di condizionare masse di operai e muovere masse di padroni. Provoca infine lo scontro tra le due classi sociali ed infine, a seguito di complicate vicissitudini, verrà arsa "viva" su di un rogo preparato proprio da quelle masse che aveva ammaliato.
Pericolosità dell’erotismo!



VI. LA SINDROME DI CLEOPATRA
Le più seducenti, mortifere e tenebrose femme fatale ci vengono descritte da Jules-Amedée Barbey d’Aurevully, già autore dello sperticato elogio del dandismo in "Di G. Brummell e il dandismo". Barbey pubblica una raccolta di racconti titolata "Le diaboliche" nel 1874, alla quale sarebbe dovuta seguire, nelle intenzioni dell’autore, una raccolta edificante titolata "Le celesti". Tuttavia lo scrittore, che si vantava di vivere nel più profondo rispetto della morale cattolica, non trovò quell’inchiostro così puro di cui bisognava. Meglio così.
Le donne diaboliche di Barbey suscitarono il meritato scandalo, condito con le consuete denunzie, il processo, eccetera. Ottima pubblicità, insomma. Egli non era vergine a tali argomenti: i titoli di alcuni suoi altri libri lo possono ben testimoniare: "L’indemoniata" e "Un prete sposato" parlano da sé. "Le diaboliche" si presenta come una carrellata di pezzi di conversazioni da salotto, in cui spesso i protagonisti rievocano le vicende sadiche di cui furono attori. Le donne non parlano: esse agiscono – e come agiscono! Gli eroi dei sei racconti narrati da Barbey sono dei dandies impenitenti stanchi e delusi, fedeli alcuni a quella regola claustrale ed anacoretica professata da Max Beerbohm nel suo "Zuleika Dobson", mentre altri si presentano invece come dei libertini secenteschi, seduttori cinici e inclini alla malinconia dongiovannesca. Il dandismo, religione della freddezza, dell’impassibilità, atta a mantenere intatta una sensibilità superiore al normale, è forse l’atteggiamento più vulnerabile ed allo stesso tempo più immune al sistema della femme fatale. Infatti i dandies di Barbey vengono travolti praticamente tutti da queste seduttrici perverse e attraenti, ma la maggior parte di loro ne rievoca le gesta come brani tratti da un passato remoto, un libro di novelle già terminato e riposto nello scaffale.
Il dandy preferisce di gran lunga la prostituta che la moglie perbene, modello imperante nel secolo di Barbey d’Aurevilly e di Beerbohm. Se decide di ammogliarsi, è solo per provare un qualcosa di nuovo, e che comunque gli è difficilmente connaturato. Ma differente in maniera totale è il suo rapporto con la femme fatale: giacché ella è insensibile per temperamento a coloro che di lei professano adorazione, rimane colpita, come Salomè, da quegli uomini che danno mostra di non desiderarla affatto. Così è il dandy. Che la provocazione, la scintilla diretta verso l’altro sesso parta dalla vampira o dal dandy, a questo punto, il risultato è lo stesso – ed in termini ironici quanto paradossali questo buffo rapporto è descritto proprio in "Zuleika Dobson" (1911).
Il Duca Dorset, giovane studente e dandy perfetto sa ostentare naturalmente quella sovra-naturalità professata da Baudelaire, mostrando indifferenza e distacco verso quelle donne ordinarie che rimangono abbagliate da questo suo modo di fare. Allo stesso modo Zuleika è la classica quanto crudele donna fatale; l’incontro tra i due, descrive Stefano Lanuzza nel suo libro "Vita da dandy", "è l’incontro di due ambiguità ossimoricamente incrociate; di artifici, distinzioni, stili, verità e finzioni ascrivibili al dandismo". Zuleika si incapriccia di Dorset proprio per questa sua indifferenza, mai veduta prima in un uomo che le stesse a fianco. Dorset, dal canto suo, cede banalmente al fascino di Zuleika. Ed assai dandisticamente egli è mortificato da questo sentimento, del tutto nuovo per lui, che lo indebolisce e lo rende succube di un’altra persona. Compiendo l’errore più grande della sua vita, Dorset si dichiara a Zuleika la quale, com’è ovvio, smette di amarlo seduta stante, delusa profondamente dall’ "egoismo" (così lei interpreta) del Duca. Il seguito del romanzo si basa, molto acutamente, sull’alternarsi delle passioni tra i due contrastati protagonisti, giacché Dorset, da squisito dandy quale è, reprime il suo amore e, non senza sofferenza, si riammanta di quell’aura di superiorità che lo aveva reso celebre quanto fascinoso. La storia avrà un epilogo piuttosto tragico per entrambi.
Nel suo capitolo sulla femme fatale Lanuzza compie a mio parere un errore: citare assieme alle altre, nel breve elenco indicativo di diaboliche letterarie che ebbero a che fare con dei dandies, la Sybil Vane del "Ritratto di Dorian Gray", attricetta innamorata di Dorian (sul cui dandismo, tra l’altro, avrei dei dubbi), sua spasimante sino al ridicolo – che finirà per suicidarsi già dalle prime pagine del romanzo. V’è ben poco della femme fatale in questa patetica figurina sentimentale, che ha tutta la nostra pietà.
Una sola, possibile unione, della quale s’è già parlato in precedenza; ovvero il dandyssimo Gomez e la fatalissima Morticia, deliziosi, macabri ed eleganti coniugi della serie televisiva degli anni Sessanta "La Famiglia Addams", poi tradotto in diverse versioni cinematografiche che non hanno nulla da invidiare alla vecchia serie in bianco e nero.



VII. OGGI
In quel capolavoro del regista Peter Greenaway che è "Giochi nell’acqua" (tit. orig. Drowning by Numbers, 1988) si manifestano in contemporanea tre eroine che sono, a modo loro, fatali. Tutte e tre hanno avuto in sorte lo stesso nome, Cissie, e sono rispettivamente madre, figlia e nipote. Greenaway sembra volerci suggerire, in un film denso di oscuri simbolismi, che il monomio delle tre protagoniste sta a significare l’unica identità delle tre donne, rappresentate nelle tre età fondamentali: adolescenza, maturità, vecchiaia. Dire infatti che il terzetto è molto affiatato sarebbe poco; tra loro collaborano, direi quasi, forze sovrannaturali possibili solo tra simili esseri, e la trama del film è basata in effetti sul potere che può raggiungere la solidarietà femminile, e di quanto questa possa essere perniciosa per l’uomo che si mette di mezzo. Nel corso del film le tre Cissie decideranno di annegare i tre rispettivi loro compagni; la più anziana ucciderà (con una freddezza spaventosa e ironica al tempo stesso) il marito nella vasca da bagno, nello scoprire che questi la tradisce; la figlia di lei annegherà il corpulento marito in mare, perché era poco incline ai capricci sessuali della consorte; la terza, più giovane, annegherà il fidanzato in piscina… perché le era venuto a noia.
A parte la fatalità manca però il rito della seduzione e dell’abbandono. La vendetta pare giocare una parte preponderante, e la giustificazione morale dell’omicidio diviene motivo di forte censura in Italia di un tale film, mai visto in televisione, rarissimo in vhs. Ma la donna moderna ha forse bisogno di farsi in tre per essere fatale? Oggi sono finiti i tempi degli intrighi aristocratici a corte, che sapeva preparare così bene la Marchesa de Merteuil. Sono scomparse quasi del tutto le donne-vampiro descritte da Masoch e d’Annunzio, ritratte da Moreau e Klimt. Eleonora Duse, femme fatale sul palcoscenico e disorientata donna di piacere nella vita, desiderosa di portarsi a letto quasi chiunque, è il modello inconsapevole predominante. Nessuna traccia lascia il lucido caschetto di capelli corvini di Louise Brooks se non nei brutti fumetti di Guido Crepax, e la Dietrich resta ormai solo nelle rievocazioni nostalgiche degli appassionati del cinema d’autore o dei cinquantenni con un po’ di gusto.
Oggi ci sono magari delle ‘pseudovamp’ (così le definisce la Bruzzone nel suo intelligente libello "Personaggi"), ovvero false mantidi che si atteggiano, vestono e camminano per "conquistare sicurezza e conferire credibilità – vera o presunta – al loro look ma senza possedere i requisiti che si adeguano ad ogni fatalona che si rispetti: egoismo, impudenza, perversione."
Ad un certo tipo di presunta femme fatale odierna si addice meglio la definizione di vamp, perché così si chiamano quelle ragazze che, per moda e per noia, amano vestirsi sempre con nerissimi abiti stracciati, calze a rete pure nere, rozzi anfibi ad avvolgere i piedi sottili, catene e borchie metalliche a guisa di collane, occhi cerchiati di nero, capigliatura tinta dello stesso colore (con occasionali ciocche verdi o rosse), labbra color sangue. Queste femmine, altrimenti dette dark, appartengono ad una giovane generazione che sta a metà tra il fenomeno dei punk e dello stereotipo – equivocato – della donna fatale. Quando tale fenomeno è a livelli parossistici si può parlare di ‘gotik’ – ma ci stiamo allontanando troppo dal nostro discorso.
Certo è che in questo caso la donna desidera riappropriarsi di una certa aura misteriosa, vamp-iresca da romanzo. Tuttavia la loro presunta voglia di provocazione non tocca il fine erotismo, la magia nera, quanto più spesso la banale volgarità sessuale. Una femme fatale non ha mai avuto bisogno di spogliarsi per irretire le sue prede, mentre una di queste dark, già solo nell’utilizzo del linguaggio sboccato di cui vanno tanto fiere, si discosta dall’ideale di cui si è tentato di parlare in queste pagine. Un tipo contemporaneo di seduttrice crudele potrebbe essere, a prima vista, individuato in quelle femmine che amano irretire ricchi scapoli così da poterne consumare denaro e cervello – e per poi lasciarli, totalmente svuotati, ed accedere ad un grado superiore della piramide sociale, fino ad arrivare ad occupare posizioni da loro tanto agognate (conduttrici televisive, capitane d’industria, ricche vedove, o più squallidamente capoufficio). E tuttavia tale tipo di donna differisce dalla femme fatale nei suoi scopi: non le è cara la sofferenza provocata, ma solamente l’ansia di prevaricare, di ascendere, spesso in nome di una pretenziosa emancipazione. Ciò che accende la miccia di questa donna-in-carriera è lo snobismo. Probabilmente i suoi ‘sedotti-e-abbandonati’ le fanno un po’ pena.
Moltissimi anni sono passati da quanto le donne manifestavano in piazza per ottenere i loro diritti, una considerazione, una possibilità di carriera, di uguaglianza sociale; eppure pare che la maniera migliore di illustrare all’uomo questa loro conquista sociale sia quella di mostrare gambe, ventre, e scollature capezzolari – anche quanto non c’è proprio da vantarsene. Dopo decenni di battaglie, sono questi i risultati? Era questo lo scopo? Forse è solo una dimostrazione di cattivo uso di una presunta libertà da poco acquisita. Ma ciò che si è voluto dimenticare è molto.
*** Infine è ancora la Bruzzone a darci un aiuto significativo nell’individuare le ansie che portano una donna a divenire oggi autentica femme fatale; sebbene siano scaduti certi stereotipi, la mentalità è ancora attiva in certe femmine le quali si rendono vamp non per moda o per snobismo, ma per un autentico senso di disorientamento sociale, una profonda inquietudine che la porta a non riconoscersi più nei tipi convenzionali, che la porta ad una "turbinosa metamorfosi sociale". La società nella quale operano è cambiata, ma non così sono cambiate le tipologie di attrazione tra i due sessi. Una femme fatale d’oggi è ancora in grado, se lo vuole, di far innamorare e distruggere un uomo esattamente come l’avrebbe fatto cent’anni fa. La femme fatale è uno spirito raro. E come tutto ciò che è raro, si nasconde. Ma c’è.



CONCLUSIONE
E’ ancora una volta in un film che si rivela un tratto saliente e fin’ora poco considerato della femme fatale, che va a concludere questa breve galleria fatta più di immagini, che di vere e proprie analisi. Nella pellicola del 1922 "Il diabolico dottor Mabuse" (ancora una volta di Fritz Lang) la Contessa Told rappresenta una glaciale vamp che il protagonista von Wenk (commissario di polizia incaricato di scovare un misterioso giocatore avvezzo a sbancare le bische clandestine ipnotizzando gli avversari al tavolo verde, metodo efficacissimo che a quanto pare funziona a meraviglia) conosce in una futuristica sala da gioco.
Il protagonista, affascinato dalla conturbante Contessa, chiede ad un addetto di sala di esserle presentato. Ella lo riceve dalla sua postazione preferita, ovvero un lussuoso divano, coperto di cuscini di seta e stoffe pregiate, che ha più l’aspetto di un vero e proprio letto, un simbolismo che non passa inosservato. La Contessa non gioca mai perché, dice, preferisce guardare. È preda allo spleen più nero, un inquietante senso di disadattamento, un languore estenuante. Manco a dirlo, seduce totalmente von Wenk. Il misterioso giocatore ricercato dal commissario è in realtà un potente mafioso, dai poteri soprannaturali (tipi che andavano molto di moda all’epoca), capace di mascherarsi a regola d’arte imitando chiunque; egli ha sempre con sé, come assistente, un’attrice di cabaret che non ha nulla della donna fatale, giacché – tanto per dirne una – è infatuata follemente di lui. La sfortuna di questo mefistofelico individuo è di avere un’alleata simile, che verrà tra l’altro incarcerata e costretta al suicidio, mentre invece la fortuna di von Wenk è quella di avere dalla parte sua una donna fatale che lo aiuterà, a modo suo, a sventare i piani del pericoloso criminale, che è poi il "diabolico dottor Mabuse" del titolo.
La Contessa Told si innamorerà perdutamente di von Wenk; ben poco fatale, direte voi. Eppure la semplicità, l’amore sincero e un po’ ingenuo del buon protagonista sarà la chiave capace di aprire le porte del cuore della glaciale Told. Forse, in fondo, la femme fatale non è poi così cattiva.
È che la disegnano così.


Torino, XI - 2005.

BIBLIOGRAFIA CITATA:
J.-A. Barbey d’Aurevilly, Le diaboliche (Rusconi, 1977)
M. Beerbohm, Zuleika Dobson (Serra e Riva, 1984)
R. Bruzzone, Personaggi (L’Autore Libri Firenze, 2003)
P.A.F. Choderlos de Laclos, Le relazioni pericolose (Newton&Compton, 2003)
T. von Harbou, Metropolis (Studio Tesi, 1993)
M. Innocenti e E. Roddolo, Fascino (Mursia, 2004)
S. Lanuzza, Vita da dandy (Stampa Alternativa, 1999)
P. Louys, La donna e il burattino (SE, 2001)
G. Mosse, Sessualità e nazionalismo (Laterza, 1984)
G. de Nerval, L’Harem (Passigli Editori, 2004)
L. von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia (ES, 2004)
F. Wedekind, Lulù, il vaso di Pandora – Lo spirito della terra (Adelphi, 1992)
O. Wilde, Salomè (ES, 1992)

FILMOGRAFIA CITATA:
L’angelo azzurro (1930, di J. Von Sternberg)
Il diabolico dottor Mabuse (1922, di F. Lang)
Giochi nell’acqua (1988, di P. Greenaway)
Lulù, il vaso di Pandora (1928, di W. Pabst)
Metropolis (1926, di F. Lang)
L’oscuro oggetto del desiderio (1977, di L. Bunuel)
Le relazioni pericolose (1988, di S. Frears)
Salomè (1923, di C. Bryant)
Valmont (1989, di M. Forman)


IMMAGINI:
1- Famiglia borghese nel 1840.
2- Glenn Close e John Malkovich interpretano la Merteuil e il libertino nel film "Le relazioni pericolose".
3- Leopold von Sacher-Masoch.
4- Louise Brooks.
5- Marlene Dietrich.
6- la marchesa Luisa Casati in un ritratto di Augustus John.
7- Colette in costume da odalisca.
8- Un'illustrazione di Beardsley per la "Salomè" di Oscar Wilde.
9- Immagine dal film "Metropolis".
10- Frontespizio di Felicien Rops per "Le Diaboliche" di d'Aurevilly.
11- Scena dal film "Giochi nell'acqua".
12- Scena dal film "Il dottor Mabuse".