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L’EUROPEISMO FASCISTA DI DRIEU
di M. Valensise

E’ stato l’ultimo genio nevrotico della letteratura francese Pierre Drieu La Rochelle, un monumento alla sterilità moderna e alle sue illusioni. E’ lo scrittore che meglio di altri, mettendo in scena se stesso e il romanzo della sua vita, è riuscito a raccontare con ottant’anni di anticipo il nichilismo e la disperazione del mondo in cui viviamo, il nostro mondo contemporaneo. "Non c’è più niente da conservare. Religione, famiglia, aristocrazia, le antiche incarnazioni dell’autorità, sono ridotte in polvere", scriveva in uno dei primi saggi politici, "Mesure de la France", che pubblicò, reduce dal fronte della Grande guerra, nel 1922 quando non aveva ancora compiuto trent’anni. "Oggi ci sono i moderni, gente che vive o di profitti o di salari, e pensa e parla solo di questo argomento. Sono tutti senza passione, preda dei vizi corrispondenti: alcool = droga; unione libera e sterile = omosessualità = corse al cinema in comune. Non c’è possibilità di scelta… Tutti passeggiano soddisfatti nell’incredibile inferno, nell’enorme illusione, nell’universo di spazzatura che è il mondo moderno e in cui, ben presto, non penetrerà nemmeno più un raggio di luce spirituale". Era un bell’uomo, alto, asciutto, gambe e bacino dall’estensione vichinga, in rapporto di tre a uno rispetto al tronco, occhi verdi corrucciati, labbra carnose, indice di propensione alla lussuria. Ma un uomo triste e molto inquieto. "Un uomo senza gioia", dirà di lui Maurice Martin du Gard che lo conobbe giovanissimo e ne ricordava gli slanci verso una Francia popolata di atleti raffinati, universitari fattivi e vestiti bene, ma privi di barba e binocolo. Era uno che considerava suoi nemici personali i bevitori di Pernod, i giocatori di bocce e i pescatori alla lenza affetti da pinguedine o spossatezza postprandiale. E avrebbe volentieri fucilato, senza distinzioni di sorta fra i partiti, tutti i politici profittatori o soltanto incapaci di concepire il mondo moderno. Tentato dalla politica, finiva sempre col farsi disgustare dall’azione per il "tanfo stantio" che a suo giudizio emanavano la mediocrità degli interessi e la meschinità delle ambizioni. Era un moralista, cresciuto alla vecchia scuola di Chamfort e i libertini, maturato sugli aforismi di Nietzsche e dei romantici tedeschi, e dunque in grado di portare sul mondo uno sguardo amaro, lucido, sferzante. "Sapeva bene che non potendo essere francese come lo si era ai tempi di re Sole, non poteva nemmeno più essere uomo, essendo condannato alla sconfitta nella vita e nel mondo", dirà, dipingendo se stesso, del suo alter ego Constant Trubert, protagonista di "Les chiens de paille", uno degli ultimi suoi romanzi. Si considerava un decadente, un degenerato, e per tutta la vita non fece altro che comporre e ricomporre il ritratto della decadenza e la degenerazione che andava scoprendo dentro di sé e intorno a sé. Nel 1943 ammise di essere diventato fascista per pessimismo, perché aveva misurato i progressi della decadenza in Europa. E aveva visto nel fascismo l’unico strumento per contenerli. Ma ammise pure di essere ottimista solo in quanto socialista ed europeo davanti a quello che pensava essere il "nuovo destino di un impero e di una forma di società che riempirà i secoli futuri". Meglio di altri, e pagando un prezzo maggiore di altri, ha intuito la natura inesorabile delle tragedie del XX secolo. Ha salutato il giogo del totalitarismo sulla vecchia Europa, stanca di assoluto e tradizioni, e perciò propensa alla speranza di una restaurazione spirituale. Da ribelle non conformista, ha scavato la complicità tra comunismo e capitalismo, che giudicava "due forze congiunte, momentaneamente contraddittorie, di uno spirito nuovo che distrugge la civiltà". Poi, da fanatico dell’azione e dell’engagement, ha cavalcato in prima persona la contiguità tra fascismo e comunismo. Entusiasta di Mussolini, in cui vedeva l’uomo nuovo, il rivoluzionario che sulle orme di Nietzsche si sbarazza in pochi anni del marxismo e dell’anarchia, per farsi carico delle masse abbandonate dalle vecchie autorità, nel 1936, in pieno declino economico e disfattismo, finirà per farsi irretire anche lui, come il radicale Bertrand de Jouvenel, dall’impegno militante nel neonato Partito popolare di Jacques Doriot, il vecchio sindaco comunista di Saint Denis espulso dal Pcf, che aveva rotto con Mosca e sognava un comunismo nazionale, un fascismo francese. L’avventura durerà solo tre anni, finché la vicenda dei Sudeti e il Patto di Monaco non fugheranno ogni illusione: "I francesi hanno deciso di dormire e morire come democratici, piuttosto che vivere e vincere come fascisti". Era un dandy visionario e molto perverso, ossessionato dalla vecchiaia incombente, come lo era il suo predecessore Benjamin Constant, che prima dei quarantanni disse a Madame de Staël: "Siamo vecchi". Drieu l’aveva eletto a suo modello, anzi a suo doppio, per proiettare se stesso nella tradizione. "Come lui, passo la vita aggrappato alle sottane delle donne del gran mondo, pur preferendo le puttane. Non posso far a meno delle donne, le detesto, le disprezzo, talvolta le comprendo e mi fanno pena; in fondo sanno che vivo la loro solitudine come se fosse mia. Ho il suo stesso amore per la solitudine, ma molto più risoluto e capace di difendersi. Il carattere meno esitante o che rinuncia prima ad esserlo. Lo stesso rigore politico, sotto le apparenze dello scetticismo o le precauzioni dell’indulgenza individuale. Lo stesso amore mal riposto e monco per le speculazioni filosofiche e la storia delle religioni. Insomma due francesi del nord. Lo stesso cosmopolitismo e lo stesso sguardo severo sui limiti dei francesi. Ma la sua ribellione contro Napoleone diventa in me ribellione contro il conformismo radical- massone e anche contro il conformismo cattolico". Constant, il liberale, si sarebbe rivoltato nella tomba. In comune i due, infatti, avevano solo quella forma di sublime egotismo (teorizzata da Drieu) che, a differenza dell’egotismo triviale del narcisista compiaciuto di essere prigioniero del proprio io, è tipica dei curiosi, dei grandi osservatori, quando si accaniscono sul loro io per attingere alla materia umana più tangibile e meno ingannevole che esista. Dell’universalismo liberale di Constant, Drieu non aveva niente. Era un antisemita, odiatore di ebrei apolidi e assimilati, a meno che non fossero sionisti. "Non posso sopportare gli ebrei, perché sono il mondo moderno per antonomasia, e io li odio" farà dire a Carentan, mentore dell’altro suo alter ego letterario "Gilles", protagonista dell’omonimo romanzo iniziato nel 1939. Antisemita convinto lo era sul piano intellettuale, ignaro forse dei campi di sterminio di cui non parla mai, indifferente alle deportazioni e abbastanza paranoico da mettere addirittura in dubbio la stessa autenticità dell’antisemitismo di Hitler, mentre da parte sua, in piena Occupazione, sognava di perseguitare i mezzi ebrei, di veder strisciare ai suoi piedi "quella congrega di ebrei, di pederasti, di pavidi surrealisti e massoni pedanti della Nouvelle Revue française", addirittura di demolire, dopo la Borsa, le Halles e la Tour Eiffel, persino il Palais de Chaillot al Trocadéro, esempio di "architettura ebraica". Un paranoico, insomma, che nell’ebreo odiava se stesso e la civiltà contemporanea: "Gli ebrei siamo noi, col volto contratto in una smorfia nella grande città". Un antisemita di testa, ma non sul piano dei rapporti personali, e non al punto da evitare di sposare, nel 1919, una ricca fanciulla ebrea, seppur convertita, Colette Jéramec, sorella di un amico morto al fronte, di ricevere da lei 400 mila franchi di dote, per poi tradirla subito e divorziare dopo tre anni, vivendo di rendita per altri sei, salvo poi usare, nel maggio del ’43, tutto il suo ascendente vichyssois per liberarla dal campo di Drancy, dov’era finita coi due figli di secondo letto. "Non sospetta lontanamente che la trovo insopportabile", confiderà a se stesso pensando alla moglie n. 1, che descrive come piccoloborghese e scientista, priva di senso artistico, incapace di ironia, dalla voce insopportabilemente aspra e ingollata, "graziosa, quasi nana, un ombra di gibrebosità sulla nuca, e un po’ claudicante, per quella labilità tra bacino e ginocchia, tipica delle donne della sua etnia". Aveva potuto sposarla solo perché pensava che avrebbe subito aperto gli occhi, preferendogli qualchedun altro. E se ne considerava la vittima. Vittima degli ebrei. "Ho sempre saputo di odiarli" confesserà alla fine della sua vita nel diario (tremenda prova di violenza e raccapriccio solipsista, di cui esiste l’ottima edizione a cura di Julien Hervier, tradotta dal Mulino). "Quando ho sposato Colette ero consapevole di quello che facevo e della bassezza che stavo commettendo. E per questo non ho mai potuto andarci a letto". Il fatto è che "L’homme couvert de femmes", come intitola il romanzo d’esordio del 1925, era pure misogino, anche se non faceva che collezionare donne, purché sposate o prostitute. Come Gilles anche lui forse "le donne le voleva nude, prive del loro involucro sociale, espressione semplice e forte del loro sesso, e amava quelle che erano di tutti e quindi non potevano essere sue". Lo dimostra il catalogo meticoloso nel diario, compilato a mo’ di bilancio alla fine della sua vita, quando ormai bastava solo ripensare a un particolare per soddisfare il gusto della carne. Dopo Colette, dunque, viene Marcelle Jeanniot-Lebey, moglie di Charles Dullin e amante di Léon Paul Fargue, "testa magnifica, ma corpo pesante con brutte gambe". Poi Emma Besnard, l’algerina, "denti magnifici, larghi regolari, e gli stessi seni di Marcelle, un po’ cascanti". E’ lei l’ardore trasfigurante, cjhe dà i suoi tratti alla Rosita del "Journal d’un homme trompé" e alla Pauline di "Gilles". Non mancano le racchie, come Constance Wash, "brutta, veramente brutta, fronte bassa, occhi piccoli, naso schiacciato, seni avvizziti, ma il grande tipo dell’americana, splendide gambe e spalle dritte". Forte passione mancata, sarà lei a mollarlo per restare col marito; e in "Gilles" diventa Dora, incarnazione della bellezza dorica. C’è pure l’italiana. "Bella ma esangue" è la contessa Cora Caetani, il fiore estremo di una società in decomposizione, conosciuta a Parigi nel ’25 e seguita a Roma, alias l’Edvige di "L’Intermède romain", fedele resoconto scritto vent’anni dopo. Poi viene Suzanne de Vibray, "tipo meridionale, viso volgare, corpo non bello". E poi Olesia Sienkiewicz, la seconda moglie polacca. Drieu la sposa nel ’27, "solo perché pensavo che fosse lesbica e non potesse amarmi veramente", e divorzia da lei nel ’31. In mezzo trova spazio per Victoria Ocampo, la mecenate argentina, la scrittrice antifascista fondatrice di "Sur". Con lei, Drieu ammette di essere stato "eroicamente antisemita". Mentre lui a lei sembrava solo "un bambino infelice che continua a volere la luna". Seguiranno Nicole, l’amica di Olesia che Drieu vorrebbe sposare, ma finisce per fare abortire – triste copione del "Journal d’un Délicat"; e l’impossibile Christiane Renault, moglie di un grande industriale, passione divorante, durissima e solare, tensione allo stato puro, alias "Beloukia", altro romanzo di un adulterio disastroso. "Mi lascia vivere in un deserto interminabile. Non è mai qui e tutta la sua vita la allontana da me". Lei lo tradisce ma non può farne a meno. Lui teme di perderla, ma non riesce ad appagarla. Finiranno come due vecchi taciturni, pieni di sgomento e costernazione, separati dai loro pensieri. Tombeur de femmes, dunque, ma infelice. "Non ne ho mai conosciuta una che avesse sense of humour. Sono tutte serie come la pioggia, soprattutto quando sono frivole". Amante pervicace, eppure misogino. Non di quella misoginia elementare e primitiva di chi giudica la donna meno intelligente o meno sensibile dell’uomo, ma di quella più sofisticata dell’uomo consapevole di quanto la donna sia indispensabile e necessaria, che perciò si rivolta contro questa fatalità, come spiegò a Dominique Desanti André Malraux, che conosceva benissimo Drieu e a detta di Raymond Aron lo reputava "l’unico della sua generazione ad avere il più autentico e spontaneo talento di scrittore". Libertino instancabile, Drieu era segnato da disgusto, impotenza, ipocondria. Sul finire della sua vita, s’era votato al celibato eremitico, anacoretico. "La lussuria, confessa nel diario, era un modo per subordinare l’elemento femminile all’esigenza di una spiritualità maschile". In fondo, era un mistico preterintenzionale. Un poeta in cerca di un accordo tra l’anima e il mondo,che scoprirà l’esoterismo, studierà la Bhagavadgita e le Upanishad, sognando un’altra vita da storico delle religioni. Era un umanista d’avanguardia, col culto del corpo, e dell’armonia perduta tra l’uomo e la natura. Nel suo genio profetico, ha anticipato l’idea di Europa che sarebbe nata dal tramonto dei nazionalismi e delle piccole patrie (evidente per lui sin dalla fine della Grande guerra) anche se l’ha fatto a costo di un abbaglio imperdonabile: pensare cioè che a realizzare quell’idea potesse essere Hitler, che gli piaceva "nonostante tutto", perché incarnava il suo ideale politico – "fierezza fisica, ricerca del piglio, eroismo guerriero" – anche se non gli avrebbe perdonato di aver "mancato la rivoluzione socialista razzista", di non aver eliminato "il ciarpame del passato, capitalisti e militari". E alla fine, non reggendone la sconfitta, gli avrebbe preferito Stalin. E’ questo dunque a spiegare il generale oblio in cui Drieu sembra essere caduto, diventando un genio infrequentabile, se si esclude il martirologio fascista e l’ostinata venerazione da parte dei vinti che l’hanno innalzato, con Céline e Brasillach, sull’altare dei rebosità probi da onorare o ogni costo, pur di tener vivo lo scandalo. Tant’è che oggi della sua morte, avvenuta sessant’anni fa, nessuno parla più. Come se il fatto non fosse mai accaduto o come se non si volesse sospendere, nemmeno per un giorno, la damnatio memoriae che avvolge da allora l’uomo e le sue idee. Quel fatto invece accadde a Parigi un giorno di marzo del 1945, in una strada del Quartier des Ternes, dove le case respirano tutte la stessa freddezza del decoro borghese. Al numero 23 della rue Saint Ferdinand, in una rimessa protetta da un’insegna che annunciava commerci ordinari di prodotti alimentari, Colette Jéramec, la moglie n. 1, gli aveva sistemato un alloggio di fortuna. Pochi mobili, un lampadario in ferro battuto, qualche libro. Da alcuni mesi Drieu viveva lì nascosto, cercando di sfuggire al regolamento di conti che, caduto il regime di Vichy, impazzava contro traditori, "collabos" e complici dei nazisti. Trentamila arresti, processi, epurazioni. I giornali da tempo reclamavano il suo arresto. Fucilato Robert Brasillach, era già iniziato il processo contro il fondatore dell’Action française Charles Maurras, di fronte al tribunale speciale. Drieu che era stato dadaista e fascista, di sinistra e poi di destra, e poi ancora socialista nazionalista e filonazista radicale, al punto da trovare troppo tiepida la repubblica di Vichy, "un ammasso di vecchiumi" i suoi capi, meschina la loro politica, senili le loro ambizioni e i francesi vittima in generale di un fenomeno di pietrificazione, "il rimuginio ebete e fallace della pietra", non si risparmia le invettive. "Il tarlo morale è all’interno: dubbio, diffidenza, ripiegamento su se stessi, rifiuto di se stessi. La Francia si perde fra i mille rivoli dell’individualismo. E’ un frutto mezzo secco che cade a terra spandendo intorno pochi semi insecchiti". Lui che per contrastare il capitalismo americano e dello Stato sovietico aveva sperato in una rivoluzione dell’Europa guidata dall’hitlerismo, adesso, dopo lo choc della disfatta militare repentina, sicuro indizio per lui dell’abiezione in cui radicali, ebrei e framassoni avevano gettato la Terza repubblica, temeva che i tedeschi non volessero utilizzare la Francia. "Dovrebbero volerlo perché la dissoluzione della Francia crea in Europa un vuoto che sarà fonte di scandalo e di orrore e potrebbe esercitare una fascinazione negativa". Durante l’Occupazione, dunque, s’era messo a fare propaganda. Aveva insistito per entrare in azione, ma s’era trovato di fronte un muro di gomma. L’hitlerismo gli appariva una minoranza, boicottata dall’esercito. Alla fine, in cambio della protezione tedesca, sfidando vecchi amici e sodali come André Gide e Louis Aragon, aveva accettato nel dicembre del 1940 la direzione della Nouvelle revue française, la rivista letteraria di Gallimard, al posto del filocomunista Jean Paulhan, di cui mantenne però la collaborazione. Ma se ne era subito pentito. Si trovava a dover sacrificare la libertà dello scrittore per correre dietro alle responsabilità di editore. Intanto, indifferente alle difficoltà del momento, sordo al disprezzo che andava crescendo nei suoi confronti dopo l’offensiva russa sul fronte orientale per toccare l’acme con lo sbarco alleato in Normandia, aveva continuato a pubblicare articoli e pamphlet. Sfornava analisi e giudizi, immaginando ipotesi romanzesche, come la solidarietà in extremis tra dittatori, con Stalin che offre aiuto a Hitler e Mussolini, rendendosi conto che se resta il solo della specie, è perduto ("Ma sarebbe troppo bello", pensava, "preferirà colonizzare direttamente la Germania"). E anticipava scenari paradossali con cui nutrire il suo isolamento: "La resistenza è un fascismo che non osa dichiararsi, non oserà mai farlo, né oserà mai seguire la propria vocazione. E quindi nascerà morta, schiacciata tra la risorgente democrazia e il comunismo". Quando le sorti della guerra diventano chiare, e a Parigi s’alzano le barricate e i partigiani scendono per strada a colpire i tedeschi, Drieu si sentirà nel mirino. Protetto dalla moglie n. 1 e pochi altri amici, si troverà a vagare da un rifugio all’altro. All’inizio del ’45, dopo una breve sosta in campagna, trasloca in quel seminterrato del XVIIe. E’ lì che vive gli ultimi suoi giorni, braccato come un’ombra solitaria e sinistra da gollisti, revanscisti, comunisti, nonostante l’antica amicizia dada per Paul Eluard e Louis Aragon, "la sola femmina cattiva che abbia mai conosciuto" che ora però lo detestava, e nonostante il riguardo promesso nei suoi confronti da André Malraux, che intanto si è arruolato nella brigata Alsazia- Lorena e che Drieu avrebbe voluto raggiungere. "La più forte tempra d’uomo che abbia mai incontrato", scriverà di lui nel suo diario, aggiungendo solo una nota di rammarico. "Mi dispiace che non sia più comunista, che tenda verso gli americani". Chiuso in gabbia, in preda alla paura, Drieu passa il tempo a bere whisky, a smistare le amiche, a correggere l’ultimo manoscritto, le "Memorie di Dirk Raspe", a compulsare vecchi manuali di psicopatia per scoprirsi una fratellanza con lunatici e malinconici, o speculare sui dandy del passato, Wilde, Maupassant, Baudelaire, Flaubert, anche loro non conformisti, ribelli e schiavi come lui e come lui affetti da cinismo, indifferenza e moralismi puritani. Poi, nelle lunghe ore solitarie, pensava alla morte. Era convinto che il suicidio non contraddicesse l’idea di immortalità. Anzi proprio perché credeva nell’immortalità si precipitava verso la morte, come racconterà in "Récit secret", meditazione postuma e molto autobiografica sull’impasse in cui s’era cacciato. "What will become of me?", si domandava in inglese forse per dire meglio la distanza da se stesso. "I don’t know and I don’t care. Between democracy and communism there is no more interest for me, I suppose. I was for Europe, and Europe has been spoilt by Hitler in 1940; I was for european socialism, and it does not exist any more, Europe being torn between the Saxons and the Russian. Shall I write? I wrote because it has become an habit, late, too late. But it does not mean much: the time of litterature and art is close". La morte, pensava, non è che una soglia al di là della quale la vita continua, o perlomeno qualcosa che si chiama vita, o che ne è l’essenza. Il suicidio l’aveva già tentato ben due volte due mesi dopo lo sbarco in Normandia, nell’agosto del 1944. Prima con una dose di barbiturici, poi tagliandosi le vene nell’ospedale dov’era stato ricoverato. Aveva preparato tutto, lettere di commiato, ultime volontà, disposizioni per il funerale riservato a pochi intimi. "Je pars", aveva detto a un vecchio amico incontrato per strada, "ma parto in modo pulito". Poi per due volte, per uno strano favore del caso, romanzesco, era stato salvato in extremis, grazie a una borsa dimenticata dalla governante, e un campanello che aveva tirato per sbaglio. Adesso, continuava a pensare che fosse ancora l’unica tentazione plausibile, l’ultima da blandire, perché "un morto", scriveva nel diario "è un testimone pericoloso, un rivale terribile, un visitatore che non si può evitare. E tuttavia non c’è nessuno che non finisca per amarlo". Quel giorno dunque, il 15 marzo 1945, Drieu aveva l’aria particolarmente scocciata. Non sopportava più nemmeno il cinguettio dei pappagallini, e aveva chiesto di coprire la gabbia con un telo, dirà la governante Gabrielle. I giornali avevano dato la notizia del mandato di cattura nei suoi confronti. "Adesso, non potrò nemmeno più uscire di casa", aveva commentato lui. L’indomani mattina, la governante lo troverà seduto su una sedia vicino al lavandino del bagno-cucina, tre tubetti di Gardenal per terra, accanto il tubo del gas staccato, e sul tavolo un biglietto con su scritto "Gabrielle, laissez-moi dormir cette fois". Drieu aveva solo cinquantadue anni, ma odiava la vecchiaia e la decrepitezza. Era stato un atleta, ossessionato dalla perferzione del corpo e dal rigoglio della carne. Da ragazzo s’era ripromesso che non avrebbe mai tradito la giovinezza e le sue passioni. E ora aveva tenuto fede a se stesso.
Marina Valensise