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COCTEAU (1951)
di Indro Montanelli

Cocteau è, fra quanti ne conosco, l’unico scrittore che somiglia fisicamente al suo stile, che è piuttosto tagliente. I sessant’anni non pesano né sul suo corpo agile e asciutto, scavato, sembra, in un tronco d’ulivo (‹‹ Ha una salute di fil di ferro ››, dice di lui, con invidia, Colette), né sul suo spirito di goliardo elegante. Non porta cappello sulla grigia ciocca di capelli aridi, gonfi d’aria e di elettricità, volti all’indietro; e parla con le mani, come un italiano, forse perché sa di averle bellissime: lunghe, nervose, inquiete, con vene e tendini in rilievo. La sua vera casa è a Milly, pochi chilometri fuori di Parigi, dove viene solo ogni tanto e dove possiede un pied-à-terre nel quartiere di Palais Royal, caro agli artisti, al 36 di rue Montpensier: qualcosa che somiglia più a un transatlantico che ad un appartamento e che fu l’abitazione di Barras, al tempo del Direttorio e della Convenzione: un vestibolo, una cucina, una camera, un bagno e uno studio, il tutto in proporzioni minuscole, suddiviso, più che da pareti, da tramezze di legno, tende e paraventi. Ne risulta un’insieme dall’aria provvisoria e instabile, in cui il prestidigitatore e illusionista Cocteau deve sentirsi perfettamente a suo agio. ‹‹ Ma non ci vengo quasi mai ››, dice. ‹‹ Ho paura d’incontrarvi il Cocteau che i giornalisti hanno inventato, ravvolto in sontuose vesti da camera gialle e rosse, fra arazzi preziosi e tappeti di Bukara; che mi fa orrore; e che come vedete, non mi somiglia ››. No, non gli somiglia. Uscendo dal bagno, dove si era nascosto al tinnire del campanello della porta d’ingresso, eccolo che mi viene incontro dentro un bianco accappatoio di spugna drappeggiato in complicate pieghe che gli modellano le gambe, gli fasciano la vita e il torso, sapientemente sottolineando e mettendo in rilievo il giuoco dei muscoli e la flessuosità del tronco; nudi i piedi lunghi e nervosi come le mani; elastiche e giovanili le movenze. ‹‹ Ah, siete voi, mio caro? ››, mi dice come a un vecchio amico, sebbene mi veda per la prima volta. ‹‹ Temevo che fosse qualche scocciatore o, peggio, qualche scocciatrice. Ce ne sono, nel mondo! Che? Anzi, non ci sono che loro ››. E, come azzardo qualche parola di introduzione e accenno a chiamarlo maitre, mi ferma con un gesto, mi poggia tutt’e due le mani sulle spalle, mi esorta con aria semplice e sorridente insieme: ‹‹ No, caro amico, no… Chiamatemi Jean… Che?... Tutti mi chiamano Jean… ››. E, facendomi dolce pressione sugli omeri, mi mette a sedere su una poltrona dinanzi a lui.
‹‹ Venite dall’Italia? Io ne ritorno in questo momento. Amo l’Italia perché adoro l’anarchia, ma ho visto a Venezia qualcosa che mi ha spaventato. Cosa stanno combinando con quelle costruzioni in stile Novecento? Ogni paese ha le sue disgrazie, cioè i suoi Le Corbusier, ma c’è sempre un rimedio a questi malanni: il linciaggio. Hélas, non si lincia più che per ragioni politiche, le uniche per le quali non si dovrebbe mai linciare. Che? Anche qui a Parigi stiamo correndo i nostri pericoli. Una mattina, uscendo di casa, trovai un tipo che prendeva, con due assistenti, misure e rilievi nella strada qui sotto. Volevano "sventrare". Sventrare il Palais Royal, capite? Corsi alla direzione delle Belle Arti, riuscii ad impedire il misfatto. Che? Acconsentirono non per convinzione, ma per indulgenza. Forse mi considerarono matto, o esaltato, o maniaco. Perché i matti siamo noi, capite? E forse è vero. Eh? Che ne dite? Siamo noi i matti? ››.
Alle sue spalle, la testa di un gatto siamese emerge da un vaso di maiolica dove, evidentemente, ha sonnecchiato sinora. Sbadiglia, si lecca i baffi, poi la zampa sinistra, poi quella destra, sbadiglia ancora, pensa un poco guardandosi pigramente intorno. Infine, d’un balzo solo, guizza fuori come esploso da una carica di dinamite, e va a posarsi sull’omero del suo padrone, che non ha un gesto di trasalimento.
‹‹ E’ quello che rimprovero ai tempi in cui siamo costretti a vivere. Eravate ieri sera alla prima di Orfeo al Gaumont? Sì, fu un successo naturalmente, un successo non di piacere ma di compiacimento per le belle toilettes, i bei gioielli, le belle automobili che si erano dati convegno dentro e fuori la sala. Che? Voi non avete conosciuto la Parigi di quarant’anni fa, quella in cui io e Iribe pubblicavamo Le Mot. Erano piccoli fogli polemici in un’epoca in cui la vera politica era quella delle lettere, in cui ci si batteva nelle sale di teatro e di concerto, in cui Parigi non era ancora diventata quella città di cattivo umore che è oggi, che critica tutto e si rifiuta all’entusiasmo. Oh, era bello! Le Corbusier non era ancora nato, o perlomeno non aveva ancora trovato gl’imbecilli disposti a considerarlo un genio; la poesia era quello che doveva essere e che è sempre stata: un vasto calembour; e qualunque sconosciuto poteva diventar "vedetta" in due sere. Che? ››. Un’altra testa di gatto siamese è spuntata fuori dallo stesso vaso, viva, nervosa, con gli occhi spalancati come ali di farfalla. Scompare come risucchiata dal fondo, riappare, avventa nell’aria una zampa per catturare un moscerino che passa, torna a sparire e subito dopo balza in aria come un siluro, trascinandosi dietro tutto il resto del corpo, per posarsi a sua volta sulle spalle del suo padrone, che il suo compagno abbandona con un lungo salto. ‹‹ Charmant, n’est-ce pas? ››, dice Cocteau carezzando il nuovo venuto, convinto che sia quello vecchio che ha fatto una piroetta passandogli da un omero all’altro, e gli palpa la schiena e la coda con le sue lunghe, nervose, bellissime mani.
‹‹ Ho ricevuto proprio stamattina una lunga lettera di Jean Marais, che è a girare un film a San Gimignano. Conoscete San Gimignano? Che meraviglia! Jeannot mi dice che, per la prima volta dacché è in Italia, ha trovato gente scortese. A San Gimignano! In mezzo a quelle torri! Nel paesaggio senese!... Che? ››.
Per la prima volta alzando gli occhi al soffitto ne vedo pendere una testa disegnata nello spazio con fil di latta. L’ha costruita Cocteau con le sue mani, non c’è dubbio, ed è una delle opere che più gli somigliano: scultura di marmo trasparente, svuotata di peso; figura a tre dimensioni, rappresentazione del nulla. ‹‹ Quella lì? ››, fa Cocteau risalendo la traiettoria del mio sguardo. ‹‹ E’ la Poesia, cioè la scoperta dei segreti rapporti che corrono fra la materia e l’invisibile ››. Lo ha detto seriamente, come la cosa più naturale e normale di questo mondo, mentre, incredibile a dirsi, dal solito vaso di maiolica emergono una terza, poi una quarta, poi una quinta testa di gatto, e io trattengo il fiato nel terrore di vederne apparire ancora, una dopo l’altra, all’infinito. ‹‹ Guardate! ››. E, azionando un filo, imprime un rapido movimento circolare all’aerea scultura di latta che proietta sulla parete una mobile ombra. ‹‹ Ravissant, n’est-ce pas? ››. Mai avevo visto un bambino così estasiato di fronte a un proprio giuoco. ‹‹ Guardate com’è animata, profonda, inafferrabile! ››. Tutti e cinque i gatti fissano a loro volta la saltellante macchia scura che tremola sulla parete, uno inarca la schiena soffiando, un altro si appallottola per spiccare un salto e catturarla, un terzo corre a nascondersi sotto un cuscino urtando un fascio di disegni che cadono sul tappeto e, aprendosi, mostrano delle teste di ragazzo ricciute e angeliche. In basso essi recano, come tutte le opere di Cocteau, la firma "Jean", raccolta dentro un cerchio disegnato con amorosa esattezza e una stella a cinque punte, di cui nessuno, e forse nemmeno Cocteau, è mai riuscito a capire il significato.
Cocteau passa la vita, più che a scrivere, a divertirsi con questi giuochi di filo di latta, a disegnare teste di ragazzo, a scoprire geni sconosciuti e a lanciarli (qualcuno dice: a rovinarli). Chi, senza di lui, si sarebbe accorto di Erik Satie, di Radiguet, di Bérard, di Desbordes, di Marianne Oswald? Fu Cocteau a suggerire il nome, destinato alle più alte fortune, al cabaret di Moyses: Le boeuf sur le toit, detto anche dai maligni le bluff sur le moi. Ma la sua vera grande passione rimane per l’unico mestiere che non sa fare: la musica: ‹‹ Le cose che ho fatto con più entusiasmo di tutte sono le prefazioni ai cataloghi delle mostre di Debussy e Ravel. Che? Mi sono battuto per una musica francese fin da giovane, ed è sempre la musica ciò che mi ha condotto verso il mito di Orfeo ››. Con un lungo salto uno dei cinque gatti è tornato a scomparire dentro il vaso di maiolica, mentre gli altri quattro passeggiano due a due, in perfetto ordine, sul tappeto, provandovi gli ugnoli e dimostrando che non è affatto un Bukara. Sembra un esercizio militare. Mi son distratto a guardarli, e non ho seguito il filo del discorso di Cocteau, se un filo c’era, il quale è passato non so come dalla musica a Napoleone. ‹‹ Non rimpiango il Bonaparte, io non sono stendhaliano. Ha avuto una frase terribile il Bonaparte, una frase che mi stupisco di non vedere mai riportata dai suoi avversari assertori della libertà: "Ogni uomo che ha un’idea è mio nemico". Che? Io non sarei stato felice se fossi vissuto ai suoi tempi. Decisamente, no››. ‹‹ Signore? ››, interrompe una voce dietro di me. Mi volto di scatto, perché ero rimasto tutto quel tempo seduto nella tranquillante convinzione di non avere, alle spalle, che la parete. Ahimè, la parete non c’è più: era soltanto una tramezza mobile che la vecchia domestica ha spostato per entrare e per il cui vano s’intravede ora la cucina. E’ arrivata la posta e con essa, forse, il momento di andarmene. Quando riporto gli occhi nella direzione di prima, essi invano cercano Cocteau e i gatti. Sono spariti, bipede e quadrupedi, senza lasciar traccia.
Aspetto cinque minuti, dieci, un quarto d’ora. Poi, in punta di piedi, mi alzo, sollevo la tenda, scivolo nel vestibolo; e, per l’uscio aperto del bagno, intravedo il padrone di casa nella tinozza che con un cannellino di legno lancia per aria colorate bolle di sapone che salgono, scendono, ondeggiano, svaniscono in un leggero spruzzo di saliva. Forse altrettante poesie, altrettante scoperte dei rapporti che corrono fra la materia e l’invisibile?
Ho lo scrupolo di turbare Cocteau in quel supremo istante di ispirazione e di creazione. Sul pianerottolo, accoccolati sul tappetino dinanzi alla porta, cinque gatti siamesi attendono in quadrato come la guardia imperiale a Waterloo. Saranno quelli del vaso di maiolica o altri ancora?

(Tratto da "Incontri - supplemento alla Storia d'Italia", vol.5, 1998, Fabbri editori)