IL CAPPELLO A CILINDRO di Max Beerbohm "Che cos’è?" s’informeranno i più giovani: e i loro genitori, sempre pronti a rettificare, gli riprenderanno: "Che cos’era, vorrete dire". Perché si tratta, senza dubbio, di una cosa del passato; quasi di un pezzo da museo. Può anche darsi, a dire il vero, che alcuni genitori che non hanno ancora raggiunto la cinquantina non ne abbiano mai sentito parlare. Quanto a me, confesso di trovare un fascino che cerco invano di trovare nel presente. Mi affretto peraltro ad aggiungere che si tratta di un fascino poco stimolante rispetto a quello che avrebbe il futuro se io fossi più giovane; perché, stando alla parola di molti giornalisti, il futuro, il dopoguerra, sarà tutta una delizia: nuovo uomini e nuove idee, nuove politiche, nuovi orizzonti cosmici, nuove valli e nuove colline, nuovi antichi Maestri, nuovi padri e madri, nuovi vini, nuovi almanacchi del buon tempo antico, nuovo tutto, insomma. Ma, ahimé, io non vedrò granchè, e forse proprio per niente, di tutto questo. Ecco perché logoro affettuosamente i miei occhi ormai offuscati dagli anni spingendo il mio sguardo sul paesaggio retrogrado dominato dal cilindro, questo antico monumento nero ma luccicante. Antico, a fino a che punto? Lo ignoro. So soltanto che era già stato eretto negli ultimi anni della vita di Charles James Fox, che porta un cilindro nel bel ritratto in cui lo si vede seduto nel suo giardino, immensamente corpulento ma ancora pieno di energia e vivacità, di bontà e di genio. Ritto allegramente sulla fronte, esso forma coi pantaloni attillati un accoppiamento piuttosto bizzarro, strano amalgama del vecchio e del nuovo secolo. Si tratta naturalmente di un cappello di pelo di castoro, perché il cilindro di seta è un’invenzione vittoriana. Fossi stato presente in quel giardino nel momento in cui veniva dipinto il ritratto, credo che mi sarei scandalizzato vedendo che il modello non portava un tricorno dai galloni dorati; anche in quei vecchi tempi non avrei visto di buon occhio le cose d’attualità. Quanto a Fox, era senza alcun dubbio fierissimo di quel copricapo inedito. Che ne sia stato l’inventore? Non aveva forse scritto a un amico qualche anno prima, a proposito della presa della Bastiglia: "è il più gran momento della storia! È di gran lunga il migliore!"? È ben strano che un cappello che doveva divenire il simbolo di tutto ciò che esiste al mondo di più statico e di più venerando sia stato concepito da un uomo tanto pericoloso! Immagino che i Whigs, che seguivano in ogni cosa il beneamato Charles come un gregge di montoni, abbiano adottato con entusiasmo il cappello a cilindro, mentre i Tories, considerando quest’ultimo con alterigia e orrore, non ne volessero sentir parlare. Ma ben presto, assai prima dell’abominevole ‘Reform Bill’, lo portarono anch’essi, a malincuore forse, ma senza protestare. Si era imposto, con quell’inesorabile e misterioso potere che in qualche modo gli apparteneva. Aveva cessato di essere un segno dei tempi per diventare un fenomeno naturale, a punto che sembrava far parte del corpo umano. Non ci si accontentava di indossarlo a caccia, come si fa ancor oggi: si pescava, si pattinava, si giocava al cricket col cilindro in testa. Lo si teneva in capo durante I dibattiti in Parlamento, togliendolo soltanto (con un gesto virulento) quando ci si alzava in piedi a prendere la parola, e rimettendolo (con un sospiro di sollievo) appena concluso il discorso. Malgrado la folla che si assiepava ai ricevimenti, lo si teneva sempre in mano; e con quanto piacere si dovette accogliere, negli anni 1860, l’invenzione del cappello a molla, del gibus, che potendo essere tenuto sottobraccio salvava le apparenze senza ingombrare troppo! Lo si teneva in testa anche pranzando al club. Non credo che esista ai giorni nostri qualche club che abbia mantenuto questa tradizione. Ma non è poi passato troppo tempo da quando vigeva all’In and Out, proiettando come per magia il visitatore in un’altra epoca. Ancora recentemente, a teatro o all’opera, quando si andava a fumare nel foyer, non ci si dimenticava mai di prendere con sé il cappello, in caso che capitasse qualche disgrazia. E nelle visite pomeridiane (un’altra delle abitudini non ancora defunte) si sarebbe morti piuttosto di presentarsi alla propria ospite senza cilindro – e guanti – in mano. Li posava a terra accanto alla propria poltrona, là dove l’ospite poteva vederli, simboli del sapere vivere e rassicuranti proclamazioni del fatto che voi eravate lì solo in veste di visitatore, e non avevate alcuna intenzione d’installarvi presso di lei. La domenica, il cilindro acquistava anche un significato sacrale. Quando una famiglia prendeva posto al banco ad essa riservato, il padre, invece di inginocchiarsi per qualche istante con la moglie e i figli, restava seduto, chino in avanti, a recitare la sua silenziosa preghiera nel copricapo. Cosa che mi ha sempre intrigato. Non riuscivo a capire la teoria implicita secondo la quale una preghiera pronunciata in tal maniera aveva qualche possibilità di essere gradita. La domenica, a Oxford – stavo per dire "ancora recentemente": il mio debutto universitario mi sembra risalire a ieri, mentre ne sono separato da più di mezzo secolo – alcuni studenti onoravano il Giorno del Signore indossando cilindro e redingote. E nessuno studente che, violando I regolamenti censori, osasse perpetrare una visita-lampo alla capitale, si sarebbe azzardato a farlo senza munirsi di tali insegne di urbanità, benché esse l’avrebbero reso facilmente individuabile sulla via della stazione. Si prenotava un fiacre la vigilia dell’avventura e, quel mattino stesso, si ordinava al cocchiere di raggiungere la stazione al più presto. Se si intravedeva un’aria da ‘don’ in qualche individuo fermo sul marciapiede, si faceva del proprio meglio per sembrare maturi e molto distinti. Un’automobile sarebbe stata di grande aiuto. Ma non era ancora l’età dell’automobile. E il cilindro che quest’ultima schiacciò – se così posso esprimermi – subito dopo, e la redingote che essa rovesciò – per modo di dire – figuravano ancora come necessità vitali per ogni giovanotto che rispettasse se stesso. Per ogni giovanotto, modesto e decente in realtà, e che, semplicemente, non volesse farsi notare. Perché a Londra persino I netturbini portavano per lo più il cilindro. E gli straccivendoli, questi errabondi personaggi dalla voce rauca, erano I più portati all’esagerazione: ne portavano addirittura tre, uno infilato nell'altro, emblemi, suppongo, di un fiorente commercio. È vero che I poliziotti avevano da tempo adottato il casco; non perché l’avessero voluto, senza dubbio, ma perché qualche Home Secretary si era messo in testa che sarebbero apparsi più spaventevoli in quella guisa. Un unico altro strato sociale non sottoscriveva alla moda generale: quasi tutti gli attori portavano la bombetta. Marrone, di preferenza, per gli attori comici, nera per I tragici; quelli che facevano la bohéme avevano peraltro una predilezione per il sombrero. Il capocomico assisteva alle prove in cilindro; privilegio condiviso dall’attore che aveva recitato da protagonista su altre scene, e che non mancava di provocare l’invidia dei membri meno illustri della troupe. Io speravo sempre che questi ultimi spezzassero finalmente le loro catene e l’immemoriale etichetta di un comune accordo, cingendosi fieramente la fronte col cilindro. Essi non risposero mai alle mie speranze. Suppongo che ai giorni nostri anche il più eminente, il più responsabile degli attori non porterebbe altro che ciò che si chiama (con un termine quanto mai ridicolo) cappello floscio. Lo spirito dei nostri tempi è volto allo schiacciamento, non all’elevazione. I fattorini di banca, gli allievi della scuola di Westminster, I portieri che vegliano gli ingressi di locali come l’Albany o il Palace Garden Terrace sono tra tra gli ultimi fedeli. Senza dimenticare, naturalmente, la fedeltà compulsiva e di circostanza di coloro che si recano ai matrimoni o ai funerali, o (in tempo di pace) ad Ascot e al match Eton-Harrow. Il mio cuore si rallegra a tali spettacoli? A rischio di sembrare capriccioso, direi di no. Gli individui di sesso maschile delle razze latine sono molto meno timidi di noi e più malleabili in materia di costumi. Il carnevale nelle città francesi e italiane è un periodo estremamente gaio. Ci si diverte veramente, in abbigliamenti fantasiosi che aiutano I partecipanti a raggiungere il sommo della gioia. Fra I miei ricordi, tuttavia, non c’è nulla di più triste dei balli mascherati organizzati un tempo all’Opera del Convent Garden. Le donne avevano l’aria di divertirsi, ma gli uomini – che aspetto contrito! Come sembravano vergognarsi della loro apparenza! Gli acrobati ambulanti della mia infanzia eseguivano assai giovialmente, nelle loro maglie attillate rosa ricoperte di paillettes, I salti mortali e altre prodezze professionali. Ma quando avevano finito, quando si avviavano lungo il marciapiede fino alla prossima sosta, si trasformavano in figurine mogie e camminavano strasciconi. Stesso aspetto contrito in coloro che vanno o vengono da un matrimonio o da una di quelle cerimonie per le quali bisogna indossare quello che, con ogni evidenza, è divenuto un travestimento. Dopo l’attuale guerra può darsi che il cilindro scompaia definitivamente dalle cerimonie, persino dalla testa del decano. Forse troverà un’utilizzazione in casa a mo’ di vaso, riempito di terra, per nutrire il bulbo d’un giacinto o di qualche altra pianta da appartamento. Auspico, di tutto cuore, che la domestica non lo maltratti, e che lo spazzoli nel senso del pelo. Perchè è sensibilissimo. La sua sensibilità è sempre stata fra le sue grandi attrattive. Unico tra I cappelli, possedeva in qualche sorta un’anima. Se lo si trattava bene poteva anche amarvi. Pur non essendo dotato dell’espressività canina, aveva l’aria docile di un compagno devoto. Condivideva coi nostri amici felini un senso sicuro della propria dignità. E aveva, infine, I suoi umori. Nelle tetre giornate nuvolose era anche lui spento, mentre diventava radioso appena brillava il sole. Uscito durante un rovescio senza parapioggia, soffriva enormemente: veniva afflitto allora da una sorta di eruzione nera e malva, visione tra le più costernanti, e non si rimetteva che a prezzo di una tenera e incessante assistenza. Nelle prime fasi della malattia, la Natura stessa era la miglior cura. Era meglio lasciar asciugare il paziente all’aria aperta, prima di spazzolarlo il più delicatamente possibile con la più morbida delle spazzole. Man mano che procedeva nella convalescenza, sembrava rispondere con un sorriso quando lo sfregavate senza precipitazione con l’aiuto di una pezzuola di seta. Presto si era rimesso abbastanza in forze per essere sottoposto al ferro da stiro. Quando ero giovane, facevo stirare regolarmente il cilindro dal mio cappellaio come tutti gli altri giovanotti. Operazione affascinante: rapidità ed esperta sicurezza, violenta celerità in apparenza pericolosa e tuttavia inoffensiva, causa di una completa metamorfosi. Più tardi, non affidai più il mio muto amico a dita mercenarie, per quanta fiducia si potesse riporre in esse: formulò quasi la sua gratitudine quando acquistai un ferro da stiro del tipo voluto – due in realtà: uno largo, per tuba e sommità; l’altro stretto, per la tesa – e mi provai a stirarlo personalmente. Dapprima la mia mano novizia e lenta eseguì male il compito; non riuscii mai a padroneggiare artisticamente il percorso a voluta dei bordi arrotondati attorno alla sommità, da cui dipendeva la perfetta simmetria. Devo anche confessare che mi capitò più di una volta, nei primi tempi, di giudicare erroneamente la temperatura del ferro e di ferire crudelmente il mio amico; tanto crudelmente in effetti, che malgrado le sue mute negazioni e le implorazioni di non abbandonarlo, dovetti procurarmi in fretta un successore. Ma mentre spingo lo sguardo, al di là dell’abisso che me ne separa, verso quegli anni vittoriani ed edoardiani, mi sento in diritto di affermare che ho meritato l’affetto dei miei cappelli. E spero che i miei giovani lettori non si facciano beffe – temo che lo faranno comunque – dell’entusiasmo con cui rispondevo a quell’attaccamento. Max Beerbohm (tratto da FMR, traduzione di Gianni Guadalupi)