Napoli ha meritato aggettivi di ogni genere, nel bene e nel male, ma nessuno l’ha mai descritta come noiosa. La patria dei babà e dei botti di capodanno, della sfrontatezza e della comprensione, quella che Goethe definì paradiso abitato dai diavoli e chi è ancora più saggio evita di definire, è una città sepolta scoperta infinite volte, ma mai del tutto, perché la sua cifra è l'oblio e non la memoria. Pochi mesi fa Dolce & Gabbana l'hanno fortemente voluta come scenario per la festa più clamorosa della loro storia, cui sono intervenute più stelle di quante ce ne siano in una guida Michelin, eppure la cosa è caduta nella generale indifferenza. Si fosse celebrata a Milano, degli eventi in cui hanno profuso denaro e glamour si sarebbe parlato da Porta a Porta a Dagospia, mentre per fare notizia dalle mie parti basta molto meno, o ci vuole molto di più. Ci siamo sempre divertiti con poco e lo facciamo ancora, senza che si sappia.
Ma cosa si faceva di bello, come ci si divertiva a Napoli qualche lustro fa? Luoghi, orari ed abitudini sono cambiati, ma la fine di un’altra estate concilia l’innocuo piacere di una giusta dose di nostalgia. Gli anni sessanta furono quelli dello Shaker in Via Nazario Sauro, dove cantavano Fred Bongusto e Peppino di Capri, che nella minuscola foto allegata (scattata il 4 giugno 1961) suona proprio allo Shaker nel quartetto di Sergio Mondadori. Lo shaker era il classico Night Club, simbolo di un’epoca breve e indimenticata. D'estate e non solo si ballava allo stabilimento della Grotta Romana a Posillipo, amato da Re Farik e Gloria Christian. La Grotta Romana era uno stabilimento balneare con intrattentimento, una formula che ora, cinquantanni dopo, qualche imprenditore della riviera adriatica, di Ibiza o della Versilia crederà di aver inventato. Altro stabilimento partticolare era il Lido del sole, gestito dal poeta Salvatore serino. Nonostante fosse molto più economico era ben frequentato. Nel ‘63 si inaugurava al parco Margherita lo Stereo Club, locale da ballo per i più giovani, che apriva anche al pomeriggio. Le ore piccole erano ancora riservate agli adulti, perché per l’esercito degli studenti e soprattutto delle studentesse suonava ancora l’ora della ritirata. Un refrain decisamente kitsch diceva che le ragazze per bene andassero a letto alle nove, per poter essere a casa alle dieci. Dopo il successo del Castillo Aragonese ad Ischia, Franco e Gigi Campanino ottenevano nel ’67 gli scantinati di Palazzo Leonetti in Via dei Mille e vi aprirono la Mela, destinato a diventare il pantheon transgenerazionale delle notti partenopee.
Mentre nel golfo rombava l’esuberante, suprema eleganza dei Riva, nelle località balneari si affermavano il dancing dell’Africana a Praiano, i ristoranti Chez Black a Positano e Pappone allo Scoglio a Nerano, lo stabilimento della Canzone del Mare a Capri, dove Giovanni Leone disponeva della mitica cabina n. 4, praticamente un piccolo appartamento. Sull’isola azzurra, dove il locale di moda era lo Splash, si poteva andare spendendo 1.000 lire per il traghetto, 2.500 per l’aliscafo o 10.000 per un posto sull’elicottero che partiva da Capodichino, faceva tappa davanti alla Stazione Marittima e ripartiva per gli eliporti delle Tore a S. Agata sui Due Golfi e di Damecuta ad Anacapri.
Giungeva allora all’apice della sua storia evolutiva la strana specie del “Chiattillo”, giovane con la puzza al naso e moto inglese fiammante, sofisticato e “sfasteriato”. Un fenomeno tutto napoletano, ignoto a sociologi e antropologi. Il “Chiattillus communis”, con Vespa truccata o moto italiana di piccola cilindrata, si riuniva quotidianamente e in grandi branchi a Piazza Amedeo. Il “Chiattillus evolutus”, con moto inglese, si arrampicava sino al Miranapoli, da cui guardava tutti dall’alto in basso. A livello di iniziative private, venivano meticolosamente preparate le feste di ingresso in società. Alcune, come quella di Isabella del Balzo di Desenzano, sono restate nella memoria di molti. Nel periodo di carnevale si organizzava il Ballo dell’Anno, manifestazione in maschera ispirata da Ida Crimeni Bennati, che in nome della beneficenza raccoglieva all’Hotel Excelsior la migliore società. Le ultime due edizioni furono dedicate nel ‘68 alla corte del Re Sole e nel ‘69 al samba. Maurizio Barracco riceveva nella splendida Villa Emma, dove i bagni terminavano in party.
Negli anni sessanta, nella sola Via Chiaia c’erano tre diverse ditte che noleggiavano smoking e tenute da sera e da cerimonia. Con gli anni settanta, certi sfoggi un po’ ingenui e un po’ tracotanti dei decenni precedenti cominciarono ad essere guardati con crescente sfavore. Negli anni dell’eskimo, lo struscio che accompagnava le principali serate al Festival del Cinema di Sorrento, le mise da gran sera alle prime del San Carlo, i ricevimenti esclusivi e tutte le manifestazioni di stato sociale, vennero spazzate via da un vento interclassista.
Molti locali importanti sopravvissero per la prima metà del decennio successivo, per poi scomparire con i primi geli degli incipienti anni di piombo. Tra i bar dove si tirava tardi resta incancellabile la memoria del Cristallo in Piazza dei Martiri, creato da Peppe Trimboli col barman Lucio Sellitti, ma anche della più breve avventura dell’Harry’s Bar di Mario Finizio in Via Orsini. Furono gli ultimi, veri american bar della città. Durante il giorno, erano ancora tempi d’oro per Caflish, che aveva sedi Via Roma, Via Partenope e Via Chiaia, dove al piano rialzato c'era una deliziosa, silenziosa e preziosa tea room.
E’ mio dovere a questo punto inviare un ringraziamento postumo all’indimenticato Prefetto della Provincia Cavalleresca di Napoli barone Giosi Campanino di San Giovanni, che avendo qualche anno più di me mi istruì a suo tempo sulla movida degli anni sessanta, ma la conclusione sarà una menzione d’onore a Tommaso De Benedetta, creatore del locale più divertente degli ultimi quaranta anni della storia partenopea: la Taverna degli Amici, in Via Martucci. La gente vi arrivava in ore in cui tutto il resto della città dormiva e l’atmosfera era così piacevole che non sentii mai nessuno lamentarsi della cucina, che non era gran che e nelle ore più piccole poteva diventare tossica. Il cuoco se ne andava alle ventitré, e non sempre Tommaso aveva la forza o il tempo di arrangiare qualcosa. Una volta chiese a me, che non sapevo bollire un uovo, di riscaldare qualsiasi cosa fossi riuscito a trovare in cucina e servirla a un paio di clienti giunti all’alba. Io obbedii, ma non ebbi il coraggio di guardare la reazione per paura degli effetti. Pare che siano sopravvissuti. Da un piccolo palco aperto sui tavoli, chi aveva un po’ di talento o molto bevuto improvvisava qualcosa al piano, mentre lo stesso Tommaso, re dei maitre, si tratteneva a tutti i tavoli e vi dispensava il suo humour spregiudicato e piccante. Dopo oltre dieci anni di gloria, chiuse nel 1977.
P.S. Se qualcuno possedesse qualche rara foto delle persone e dei luoghi citati, meriterebbe la mia imperitura riconoscenza inviandomene copia presso gran.maestro@noveporte.it.