Notti a Napoli

Curiosità - Viaggi

Giancarlo Maresca

da Napoli, sabato 24 settembre 2016 alle ore 14:38:52

Napoli ha meritato aggettivi di ogni genere, nel bene e nel male, ma nessuno l’ha mai descritta come noiosa. La patria dei babà e dei botti di capodanno, della sfrontatezza e della comprensione, quella che Goethe definì paradiso abitato dai diavoli e chi è ancora più saggio evita di definire, è una città sepolta scoperta infinite volte, ma mai del tutto, perché la sua cifra è l'oblio e non la memoria. Pochi mesi fa Dolce & Gabbana l'hanno fortemente voluta come scenario per la festa più clamorosa della loro storia, cui sono intervenute più stelle di quante ce ne siano in una guida Michelin, eppure la cosa è caduta nella generale indifferenza. Si fosse celebrata a Milano, degli eventi in cui hanno profuso denaro e glamour si sarebbe parlato da Porta a Porta a Dagospia, mentre per fare notizia dalle mie parti basta molto meno, o ci vuole molto di più. Ci siamo sempre divertiti con poco e lo facciamo ancora, senza che si sappia.

Ma cosa si faceva di bello, come ci si divertiva a Napoli qualche lustro fa? Luoghi, orari ed abitudini sono cambiati, ma la fine di un’altra estate concilia l’innocuo piacere di una giusta dose di nostalgia. Gli anni sessanta furono quelli dello Shaker in Via Nazario Sauro, dove cantavano Fred Bongusto e Peppino di Capri, che nella minuscola foto allegata (scattata il 4 giugno 1961) suona proprio allo Shaker nel quartetto di Sergio Mondadori. Lo shaker era il classico Night Club, simbolo di un’epoca breve e indimenticata. D'estate e non solo si ballava allo stabilimento della Grotta Romana a Posillipo, amato da Re Farik e Gloria Christian. La Grotta Romana era uno stabilimento balneare con intrattentimento, una formula che ora, cinquantanni dopo, qualche imprenditore della riviera adriatica, di Ibiza o della Versilia crederà di aver inventato.  Altro stabilimento partticolare era il Lido del sole, gestito dal poeta Salvatore serino. Nonostante fosse molto più economico era ben frequentato. Nel ‘63 si inaugurava al parco Margherita lo Stereo Club, locale da ballo per i più giovani, che apriva anche al pomeriggio. Le ore piccole erano ancora riservate agli adulti, perché per l’esercito degli studenti e soprattutto delle studentesse suonava ancora l’ora della ritirata. Un refrain decisamente kitsch diceva che le ragazze per bene andassero a letto alle nove, per poter essere a casa alle dieci. Dopo il successo del Castillo Aragonese ad Ischia, Franco e Gigi Campanino ottenevano nel ’67 gli scantinati di Palazzo Leonetti in Via dei Mille e vi aprirono la Mela, destinato a diventare il pantheon transgenerazionale delle notti partenopee.

Mentre nel golfo rombava l’esuberante, suprema eleganza dei Riva, nelle località balneari si affermavano il dancing dell’Africana a Praiano, i ristoranti Chez Black a Positano e Pappone allo Scoglio a Nerano, lo stabilimento della Canzone del Mare a Capri, dove Giovanni Leone disponeva della mitica cabina n. 4, praticamente un piccolo appartamento. Sull’isola azzurra, dove il locale di moda era lo Splash, si poteva andare spendendo 1.000 lire per il traghetto, 2.500 per l’aliscafo o 10.000 per un posto sull’elicottero che partiva da Capodichino, faceva tappa davanti alla Stazione Marittima e ripartiva per gli eliporti delle Tore a S. Agata sui Due Golfi e di Damecuta ad Anacapri.

Giungeva allora all’apice della sua storia evolutiva la strana specie del “Chiattillo”, giovane con la puzza al naso e moto inglese fiammante, sofisticato e “sfasteriato”. Un fenomeno tutto napoletano, ignoto a sociologi e antropologi. Il “Chiattillus communis”, con Vespa truccata o moto italiana di piccola cilindrata, si riuniva quotidianamente e in grandi branchi a Piazza Amedeo. Il “Chiattillus evolutus”, con moto inglese, si arrampicava sino al Miranapoli, da cui guardava tutti dall’alto in basso. A livello di iniziative private, venivano meticolosamente preparate le feste di ingresso in società. Alcune, come quella di Isabella del Balzo di Desenzano, sono restate nella memoria di molti. Nel periodo di carnevale si organizzava il Ballo dell’Anno, manifestazione in maschera ispirata da Ida Crimeni Bennati, che in nome della beneficenza raccoglieva all’Hotel Excelsior la migliore società. Le ultime due edizioni furono dedicate nel ‘68 alla corte del Re Sole e nel ‘69 al samba. Maurizio Barracco riceveva nella splendida Villa Emma, dove i bagni terminavano in party.

Negli anni sessanta, nella sola Via Chiaia c’erano tre diverse ditte che noleggiavano smoking e tenute da sera e da cerimonia. Con gli anni settanta, certi sfoggi un po’ ingenui e un po’ tracotanti dei decenni precedenti cominciarono ad essere guardati con crescente sfavore. Negli anni dell’eskimo, lo struscio che accompagnava le principali serate al Festival del Cinema di Sorrento, le mise da gran sera alle prime del San Carlo, i ricevimenti esclusivi e tutte le manifestazioni di stato sociale, vennero spazzate via da un vento interclassista.

Molti locali importanti sopravvissero per la prima metà del decennio successivo, per poi scomparire con i primi geli degli incipienti anni di piombo. Tra i bar dove si tirava tardi resta incancellabile la memoria del Cristallo in Piazza dei Martiri, creato da Peppe Trimboli col barman Lucio Sellitti, ma anche della più breve avventura dell’Harry’s Bar di Mario Finizio in Via Orsini. Furono gli ultimi, veri american bar della città. Durante il giorno, erano ancora tempi d’oro per Caflish, che aveva sedi Via Roma, Via Partenope e Via Chiaia, dove al piano rialzato c'era una deliziosa, silenziosa e preziosa tea room

E’ mio dovere a questo punto inviare un ringraziamento postumo all’indimenticato Prefetto della Provincia Cavalleresca di Napoli barone Giosi Campanino di San Giovanni, che avendo qualche anno più di me mi istruì a suo tempo sulla movida degli anni sessanta, ma la conclusione sarà una menzione d’onore a Tommaso De Benedetta, creatore del locale più divertente degli ultimi quaranta anni della storia partenopea: la Taverna degli Amici, in Via Martucci. La gente vi arrivava in ore in cui tutto il resto della città dormiva e l’atmosfera era così piacevole che non sentii mai nessuno lamentarsi della cucina, che non era gran che e nelle ore più piccole poteva diventare tossica. Il cuoco se ne andava alle ventitré, e non sempre Tommaso aveva la forza o il tempo di arrangiare qualcosa. Una volta chiese a me, che non sapevo bollire un uovo, di riscaldare qualsiasi cosa fossi riuscito a trovare in cucina e servirla a un paio di clienti giunti all’alba. Io obbedii, ma non ebbi il coraggio di guardare la reazione per paura degli effetti. Pare che siano sopravvissuti. Da un piccolo palco aperto sui tavoli, chi aveva un po’ di talento o molto bevuto improvvisava qualcosa al piano, mentre lo stesso Tommaso, re dei maitre, si tratteneva a tutti i tavoli e vi dispensava il suo humour spregiudicato e piccante. Dopo oltre dieci anni di gloria, chiuse nel 1977.

P.S. Se qualcuno possedesse qualche rara foto delle persone e dei luoghi citati, meriterebbe la mia imperitura riconoscenza inviandomene copia presso gran.maestro@noveporte.it.

 

 

 

 

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INVIO

Giampaolo Marseglia

Eravamo quattro amici al bar…

In una caldissima notte di questo caldissimo agosto è andato completamente distrutto da un violento incendio il bar Miranapoli, che fu a lungo un luogo simbolo per i giovanissimi degli anni sessanta e settanta. Gli scherzi del destino. In fiamme sono scomparsi altri due famosi caffè napoletani: il Cristallo ed il Rosso e Nero, tutti locali molto in e frequentati soprattutto da quella che veniva chiamata “la Napoli bene”.

Il primo ad incendiarsi fu l’elegante bar Cristallo, che apriva i suoi spazi in piazza dei Martiri ed occupava due dei locali, quelli più adiacenti al portone di palazzo Partanna, che oggi ospitano Ferragamo donna.

Negli anni cinquanta e sessanta il Cristallo fu una tappa fondamentale per tutti i dandy, che tirati a lucido da capo a piedi e sempre in giacca e cravatta, erano soliti intrattenersi ai suoi tavolini nelle cosi dette” ore di punta ” cioè a mezzogiorno ed il pomeriggio intorno alle diciotto e trenta quando il via vai delle tante signore impegnate nello shopping aumentava nella piazza considerata il salotto buono di Napoli.

I frequentatori erano giovani abitanti in zona, anche se qualcuno si recava in vespa identica a quella  del film Vacanze Romane che in quegli anni trionfava nelle sale cinematografiche, qualche altro più grande si “sparava una posa” con la 1100 Fiat o con la Giulietta sprint del papà, tutti invece avevano nomi appartenenti a famiglie importanti di Napoli, e già frequentavano l’università o qualcuno iniziava anche a lavorare nell’azienda di famiglia, insomma erano i famosi ragazzi di via dei Mille degli anni cinquanta , un mondo che purtroppo da tempo non c’è più.

Il celebre cantante Wan Wood, che spesso suonava allo Shaker club, dove trascorrevano le serate gli stessi personaggi che di mattina affollavano i tavolini del Cristallo, ebbe modo di conoscere questo allegro ed affascinante mondo tutto napoletano tanto da poter scrivere la canzone “Sci sci piazza dei Martiri”

Alla fine degli anni sessanta il Cristallo, che con la sua strategica posizione poteva godere dei raggi del sole anche nei mesi invernali, fu rinnovato. Le pareti della sala da tè vennero tappezzate in pelle color nera ed il pavimento fu ricoperto di moquette beige  come voleva la moda del momento mentre alle spalle del lungo bar, che si trovava sulla sinistra entrando, c’erano su vari livelli varie bottiglie di liquori illuminate con una luce blu che dava molta atmosfera all’ambiente, furono messi anche nuovi divani che di sera si occupavano con i soliti habituès che si davano appuntamento prima di andare a cinema o a cena.

Il loro chiacchiericcio aveva come accompagnamento un piano bar completamente differente da come è inteso oggi perchè era un semplice sottofondo musicale che permetteva di parlare.

Anche parcheggiare era semplicissimo se proprio non si trovava un posto per l auto innanzi al bar bastava fare un giro intorno ai quattro leoni e sicuramente usciva la possibilità di posteggiare, insomma tutto era molto comodo e soprattutto a portata di mano.  Poi dopo solo qualche anno la bella sala da tè del Cristallo andò distrutta da un incendio e non venne più riattivata, restò aperto solo il vano occupato dal bar che si era salvato dalle fiamme, ma il locale non era più quello di un tempo e così iniziò la sua agonia che lo portò irrimediabilmente alla sua chiusura.

Anche al Rosso e Nero di via Partenope, altro famosissimo bar, toccò la stessa sorte nel gennaio del 1978. Il locale del lungomare, inaugurato alla metà degli anni cinquanta, per molto tempo fu un altro  luogo cult per tanti napoletani, che soprattutto nelle giornate domenicali di bel tempo, grazie alla sua magnifica collocazione, si davano appuntamento per l’aperitivo o per gustare i toast preparati dal barman Gennarino.

Il Rosso e Nero nel suo arredamento già si presentava con uno stile più essenziale in confronto ad altri caffè ed iniziò ad ospitare una clientela più sportiva, qualche giovanotto indossava come soprabito i primi montgomery comprati da  Gutteridge in via Toledo, mentre molte ragazze con pettinature cotonatissime in versione prima Mina, per non farsi scompigliare dal vento ornavano le loro testoline con foulard di Hermes con nodo sotto al mento. Molti dei frequentatori mattutini, poi si recavano anche di sera poiché negli spazi sottostanti del bar si apriva un accorsato night club, avente lo stesso nome del bar, frequentatissimo nel periodo invernale.

Intanto la nuova generazione cresceva ed i tempi iniziavano a cambiare. I giovani volevano la loro indipendenza ed i loro spazi, possibilmente lontani dai “matusa” termine coniato per individuare persone dai quaranta anni in su e pertanto per le loro esigenze quale miglior posto poteva essere se non il Miranapoli di via Petrarca, attrezzato anche con jukebox.Intanto la nuova generazione cresceva ed i tempi iniziavano a cambiare. I giovani volevano la loro indipendenza ed i loro spazi, possibilmente lontani dai “matusa” termine coniato per individuare persone dai quaranta anni in su e pertanto per le loro esigenze quale miglior posto poteva essere se non il Miranapoli di via Petrarca, attrezzato anche con jukebox.

Per quell’epoca questo bar era molto lontano dal centro e quindi poteva essere  raggiunto solo in auto o con moto di grossa cilindrata.

E fu così che il nuovo caffè divenne ben presto il punto di riferimento giornaliero per i tanti centauri napoletani, che dopo aver prelevato qualche bella ragazza all’uscita di scuola e dopo una “vasca” in via dei Mille con passaggio fondamentale innanzi a Moccia all’Umberto , si incontravano,tutti vestiti con jeans e chiodo, al Miranapoli che all’epoca oltre ad avere la terrazza belvedere occupava i locali dove oggi c’è un istituto bancario.

Solo con gli anni novanta del secolo scorso, il Miranapoli lasciò i suoi vecchi locali in muratura per trasferire la sua attività sulla terrazza che nel frattempo era stata ricoperta da pannelli di plexiglass sostenuti da una struttura di ferro e proprio questo spazio, che comunque continuava a far vivere la tradizione del Miranapoli, ad agosto è andato distrutto.

Mino Cucciniello, Agosto 2017


Bar Miranapoli


Bar Rosso e Nero



da Napoli, lunedì 15 giugno 2020 alle ore 22:11:55
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INVIO

Giampaolo Marseglia

https://www.youtube.com/watch?v=rmIQifFlSiA





Fausto Cigliano canta:

"Sci, sci (Piazza dei Martiri), di Peppino Fiorelli e Furio Rendine.


L'appuntamento e' all'otto in punto

j'scengo Chiaia e veco a te

tu scinne'a coppe mez'ora doppo

e 'lla' 'mpalato truove a me.

Che signorina, che tipo fine

che modellina ca si ttu!

'a cchiu' bella 'mmiez' 'a folla

certo e' chella c'aspett'j'.


Sci, sci, Piazza dei Martiri

'a piazza de' Gaga':

'nu lione tene ment' 'a cca'

'nu lione arape 'a vocca alla'.

Sci, sci, Piazza dei Martiri

appena spunte tu 

tutt'e ll'uommen' 'a te

tutt'e femmene a me

fanno a gara pe ci'offri' 'o cafe'.

Ciao Fru Fru, ciao Na na

tanti cari saluti a mamma'

ciao di qua, ciao di la'

tutta gente ca nun tene che fa'!

Sci, sci Piazza dei Martiri

tu vuo' ca j'resto cca'

ma si t'aggia vasa' miez' 'a tanta gaga'

tu me 'a dicere comm'aggia fa'?


J'so all'antica, io nun me veco,

'mmiez' 'a chest'aria je m'en fou'

che bella flemma, chi mangia 'a gomma

chi fa salute e niente cchiu'.

All'ott'a sera, m'abbasta'o scuro

dduje o tre suspire 'mbraccia a te...

Tu si bella tanto bella

senza tanti decoltee'.


Sci, sci...

da Napoli, martedì 16 giugno 2020 alle ore 01:42:52
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INVIO

Giampaolo Marseglia

Gianfilippo Perrucci è da considerare, senz’ombra di dubbio, uno degli ultimo Signori di Napoli, con la S maiuscola naturalmente, una razza in estinzione, messa in fuga dall’irrompere della volgarità e del cattivo gusto nel vestirsi e nel comportarsi e dalla faccia tosta di considerare questi vizi come virtù da esibire in società.

70 anni portati con lo spirito di un ventenne, dalla battuta sempre pronta ed incline a vedere sempre il bicchiere mezzo pieno e mai mezzo vuoto.

Il padre ammiraglio, quando lui era in fasce, lasciò la moglie, una Fuchs, appartenente ad una delle più ricche famiglie tedesche con un castello a Berlino contenente una delle più famose raccolte di dipinti d’Europa, distrutto dai bombardamenti durante l’ultima guerra mondiale.

I suoi zii erano tutti eminenti scienziati: oculisti, chimici, fisici, alcuni in odore di Nobel. Del loro ingegno Gianfilippo non aveva preso nulla: in compenso aveva ereditato la classe e la signorilità della mamma, la quale di fidava solo di Gennaro, il suo cameriere personale, ricchione inveterato, quando il termine gay era di là da venire.

Ogni settimana Gianfilippo, nella sua splendida villa di tre piani in via Tasso, circondata da un giardino lussureggiante con piante secolari, organizzava feste memorabili con la partecipazione della migliore borghesia della città e, soprattutto, delle ragazze più affascinanti, dalle quattro sorelle Basilone, una delle quali è divenuta n°2 della Polizia di Stato, alle mitiche Sanniti di Baja, tre sorelle, di cui due gemelle dalla bellezza straripante in grado di ammaliare chiunque, una delle quali, purtroppo, da tempo scomparsa.

Spesso allietavano le serate i “Lubbers” un complesso che alternava “La Mela”, mitico night ritrovo della Napoli bene, ai saloni di Gianfilippo. Era composto da 5 elementi: tra questi i fratelli De Bellis divenuti uno (Diego) un grande finanziere e l’altro (Massimo) un valente primario di neurochirurgia.

Fu durante una di queste feste che Cupido fece scoccare la freccia fatale che da allora ha unito i cuori di Giuliana e Peppino Di Capri.

In occasione di uno di questi ricevimenti conobbi il simpatico padrone di casa e, nonostante sia passato quasi mezzo secolo, siamo amici per la pelle, a tal punto che mio figlio si chiama con il suo nome, anche se diviso in due parole.

Voglio ricordare qualcuno degli amici più intimi di Gianfilippo, che non saltavano una festa: Emanuele Leone, studente fallito ed arrapato cronico, imparentato con la celebre famiglia di giuristi; Lucio Testa, un battilocchio di 1,90 di altezza, figlio del questore, grazie a papà divenuto regista televisivo; Giosi Campanino, cui non mancavano classe e faccia tosta, figlio e nipote di magistrati, in grado, con audacia e millantato credito, di entrare in qualunque ufficio; Leandro Zontini, con il quale organizzammo una memorabile seduta spiritica, attore dilettante di rara bravura, finito a lavorare presso l’Ambasciata Italiana in Madagascar; Francesco Conti, alto e bellissimo, che faceva girare la testa a tutte le ragazze fino a quando non ha perso la sua per una vigilessa di Cisternino, dove esercita la professione forense; Carlo Spagna, ex amante della più celebre magistrata italiana, attualmente integerrimo Presidente della 5° sezione del Tribunale penale di Napoli e suo fratello Michele, docente di Diritto Amministrativo; Corrado Tagliaferro, studente di Ingegneria a vita ed assicuratore a tempo perso; Massimo Compagnone, figlio dello scrittore Luigi, oggi apprezzato psicoanalista freudiano; Lucio Migliaccio, impiegato in una ditta di rimorchiatori; Luciano Perullo, titolare di un’affermata ditta d’elettronica, con il quale nel 1968 facemmo un viaggio indimenticabile in Svezia alla ricerca di vichinghe da montare, con passaggio a Praga il giorno della repressione dei carri armati russi; Gennaro Ummarino, che da tempo ha lasciato questa valle di lacrime; Raffaele Cascone, il primo capellone della città relegato dai genitori, presidi integerrimi, sul terrazzo di casa; Antonello Buttò, che ha impalmato una delle Sanniti di Baja; Vanni Gentile talmente basso da colpire con la testa i tiri rasoterra, ma dal cervello fino, che gli ha permesso, dopo aver vinto e disdegnato un posto di magistrato, di diventare facoltoso notaio a Rodi Garganico; Giorgio Castronovo, personaggio scialbo, ma imbattibile nella corsa; Bruno Broegg, militare di carriera; Elio Rocco Fusco, abile avvocato dall’intelligenza acuta e vivace ed infine Sandro Terreri, uomo squallido ed insignificante che, dopo un ventennio di studi in medicina, si assegnò la laurea ad honorem ed aprì truffaldinamente laboratori di analisi. Dimenticavo Sergio Pucciarelli, dall’addome batraciano e dall’alito pestifero, ma di una simpatia straripante tale da permettergli delle conquiste.

Tra le ragazze: Ada Marciano, dal corpo ben tornito e dal volto poco invitante che, grazie ad un cuscino, poteva e sapeva far godere; Alba Cavallino, l’intellettuale; le sorelle Fontana, una alta e slanciata, l’altra bassa e popputissima, denominata “d’oie cape ‘e criature”, e la figlia di un noto imprenditore, con una casa da mille e una notte al Parco Grifeo, con nei bagni rubinetti d’oro, che, per quanto poco appetibile, era corteggiatissima.

Ci divertivamo, la droga c’era sconosciuta, l’alcol non ci attirava più di tanto, cercavamo spasmodicamente il sesso che allora era proibito e le ragazze si concedevano con grande cautela solo dopo ripetute promesse di matrimonio.

Quasi tutti eravamo assidui frequentatori del “casino di Santa Chiara” (consulta il mio scritto sul web) ed il padrone di casa, in primis, gran puttaniere, non si è fatta sfuggire nessuna delle prostitute attive nei primi 40 chilometri della Domiziana.

Quando ci siamo conosciuti, decidemmo di preparare assieme l’esame di anatomia, che Gianfilippo, come pure Emanuele Leone, avevano tentato varie volte. Mi bastò una settimana per dargli un affettuoso consiglio che, in seguito, cambiò la sua vita. Gli dissi: “Gianfilippo un essere umano non si farà mai curare da te, una bestia forse sì”. Il giorno dopo lasciò medicina per iscriversi a veterinaria ed a lampante dimostrazione di quanto e da tempo sia decaduto il prestigio dell’università, è stato per 30 anni stimato professore.

La sua villa, come abbiamo detto, composta da più piani, aveva una parte, parzialmente interrata, di oltre 200 mq abbandonata da tempo. Gli proposi di darmela gratuitamente in uso per un anno: l’avrei trasformata in un nigth ed allo scoccare del 365° giorno sarebbe ritornata in suo possesso… così, in meno di un mese, nacque “Il Fico”, un locale cult che esiste ancora oggi.

Gianfilippo immaginava che avrei investito un cospicuo capitale, invece me la cavai con 200.000 lire perché schiavizzai gli amici: Luciano Perullo fece l’impianto elettrico, Emanuele, esperto di seghe… la parte lignea, dal bancone bar agli sgabelli, Diego e Massimo misero i pavimenti, Leandro dipinse le pareti di vari colori, gli altri scaricarono il materiale lungo le scale che portavano dall’ingresso su via Tasso all’altezza del locale.

All’inaugurazione del Fico intervennero le più belle fiche della città in vertiginose minigonne e, le più dotate, con scollature abissali.

Alla musica pensavano i Lubbers, alla porta, l’erculeo Nando Borriello.

Aperto venerdì, sabato e domenica, i giorni feriali per i compleanni, il Fico si rivelò per me una vera miniera d’oro, anche perché la Coca Cola era taroccata con le bustine, idem l’aranciata, l’alcol centellinato, la musica gratuita, la Siae sconosciuta, l’incasso netto. Dopo qualche mese, nonostante i lauti guadagni, percepii la stanchezza del dover essere presente sul posto tutti i fine settimana per cui colsi al balzo la proposta di Gianfilippo di subentrare nel possesso prima della scadenza.

In mancanza di liquidi, mi diede un anello con un brillante di 1,7 carati dalla luce splendida, che gli era stato restituito da una fidanzata rinsavita che lo aveva lasciato: ha adornato per qualche anno l’anulare di mia madre, prima di passare tra i gioielli della mia adorata moglie Elvira.

In meno di un mese si fece viva prima la Siae, con una multa sostanziosa e poi, la settimana dopo, due loschi figuri a pretendere il pizzo. Gianfilippo se la fece sotto dalla paura e prudentemente diede in gestione il locale a don Salvatore Valese, che negli anni ne è stato il vero proprietario fino a quando pochi mesi fa, per cause di forza maggiore, ha dovuto lasciare… avendo reso l’anima a Dio.

Don Salvatore era la classica figura di pregiudicato buono. Già campione italiano di motociclismo, era scritturato per rapine importanti, anche in trasferta, perché quando era al volante, nessuna “volante” riusciva a raggiungerlo.

Ritiratosi dal lavoro…, ufficialmente faceva il falegname ed infatti rifece gli sgabelli ed il bancone bar ma, soprattutto, quando i loschi figuri si ripresentarono per il pizzo, li allontanò a sputi e pedate.

Prima di parlare di altri momenti importanti della vita di Gianfilippo, vogliamo accennare al suo cane Scialà, una femmina di bulldog che Gennaro lavava accuratamente ogni giorno.

Quando divenne signorina, la signora Fuchs decise che doveva accoppiarsi. Tramite il veterinario si identificò un maschio vigoroso dall’interminabile pedigree che, accompagnato da un’anziana gentildonna con annesso maggiordomo, giunse alla villa. Mentre le signore gustavano un the (erano le 17), mettemmo i due cani in cucina e dall’alto, attraverso un finestrone, seguimmo i loro ripetuti amplessi intervallati da abbondanti bevute. Dopo numerose coniunctio, il cane tornò nella sua elegante casa del Parco Margherita, dopo che la padrona per iscritto aveva chiesto, in virtù dell’alto lignaggio dello stallone, di poter scegliere i due maschi più belli della cucciolata.

Spesso mangiavamo alla mensa universitaria di via Mezzocannone dove, per 60 lire, si potevano consumare pasti luculliani e dove un addetto alle cucine, in cambio della promessa di un cucciolo, ci forniva, ogni giorno, carne in abbondanza.

La pancia cresceva e giunse il giorno del lieto evento: sei cuccioli, che, dopo pochi giorni, per il muso lungo ed affilato, si scoprì essere bastardi perché la cagna, a nostra insaputa, aveva concesso le sue grazie ad un pastore tedesco della villa contigua: cane di gran razza, ma …

diversa. La nobildonna andò su tutte le furie e noi non potemmo più usufruire della mensa universitaria.

Gianfilippo, cui mancava il fiuto degli affari, volle aprire uno studio di veterinaria, con servizio di tolettatura e vendita di alimenti, con un collega poco raccomandabile che, naturalmente, lo truffò. Mi chiese in prestito quattro milioni per l’acquisto del materiale ed il fitto del locale ed in pegno mi diede un quadro di grande valore che, da secoli, troneggiava in camera da letto della famiglia Fuchs e da 40 anni troneggia nella mia perché il socio scomparve svuotando lo studio: attendo ancora che i soldi mi vengano restituiti.

Uomo di grande sensibilità, Gianfilippo ha pubblicato un libro di poesia in dialetto e, per non incorrere in imprecisioni nel vernacolo, si è fatto assistere da un grande napoletanista: Vittorio Paliotti.

Sul fronte amoroso, a parte la prima fidanzata cui abbiamo già accennato, ha sempre avuto una focosa amante tedesca, più grande d’età, che periodicamente veniva a trovarlo per esibirsi in peripezie erotiche, fino a quando non si è dovuta ricoverare in un ospizio. Poi vi è stato un lungo periodo di fidanzamento con un’attempata signorina della buona società che, disperatamente, ha cercato di imporgli una regola di vita, purtroppo invano.

Al momento non ha eredi, né un’eredità da lasciare ma non è detta l’ultima parola perché, come vedremo in seguito, attualmente è in buona e giovane compagnia.

Ed arriviamo alla nascita del “Gallo nero”, un elegante e ben frequentato ristorante ancora in attività. Per fare cassa, Gianfilippo pensò (male) di fittare i suoi saloni, incluso l’elegante arredamento, dai tappeti persiani ai preziosi quadri alle pareti, ad una coppia di giovani bancari che lasciarono l’impiego e si gettarono nella nuova lucrosa attività imprenditoriale,pagando un fitto irrisorio di un milione e mezzo, mai aggiornato.

Dall’inaugurazione, dopo aver perso la parte inferiore, dedicata al ballo, perse anche i saloni che i gestori del “Gallo nero”, dopo aver fatto scomparire i quadri, fingendo un furto, con sdegno gli permettevano di attraversare per ritirarsi nella camera da letto.

Ma non è finita: infatti, per completare l’opera, doveva ancora perdere un piano, ma ci riuscì in breve tempo, grazie ad una inserviente del suo ambulatorio che, per acconsentire alla divisione del talamo, pretese che lo stesso gli venisse intestato. Così, pur d’intostare, Gianfilippo cadde nella trappola ed, al ritorno dal notaio, trovò al cancello della villa il fidanzato della ragazza, erculeo e dotato, che gl’ingiunse amichevolmente di trovarsi un nuovo domicilio.

E qui comincia la diaspora: prima in un basso di via Foria di proprietà di Corrado, che puntualmente ogni 1° del mese si recava a ritirare i 300 euro di pigione, poi alcuni anni a Gesualdo, dietro, o meglio, all’inseguimento delle pudende di una giovane straniera ed infine in un paesino in provincia di Frosinone, in un appartamentino fittatogli da un suo ex studente, dove, però ha trovato l’amore, quello vero, grazie ad Angela, una splendida trentatreenne.

Nelle more di questo calvario, consigliato da me e Carlo Spagna, decise, per ritornare in possesso della villa, di dimostrare di essere incapace di intendere e di volere, incapacità che il tribunale non ebbe difficoltà a concedergli, nominandogli un tutore.

L’ultima volta che ci siamo incontrati è stato cinque anni fa, al Circolo Posillipo, in occasione della presentazione del mio libro “Il seno nell’arte dall’antichità ai nostri giorni”, presenti anche Emanuele Leone e Lucio Migliaccio.

Ci siamo poi persi di vista per ricongiungerci, attraverso la posta, da pochi giorni, grazie a Vanni Gentile che gli ha dato il mio nuovo indirizzo: Rebibbia.

Mi ha confessato che vuole girare un film sulla sua vita, comico secondo lui, drammatico a mio parere. Ecco pronta la sceneggiatura, ma, soprattutto, un omaggio alla sua bontà, tradita da falsi amici e sfruttatori di ogni specie.

Gianfilippo, ti voglio bene!!!

Achille della Ragione, agosto 2013.





da Napoli, sabato 16 gennaio 2021 alle ore 09:53:21
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Giampaolo Marseglia

La storia del clubbing a Napoli


Introduzione


Quando si parla di club culture a Napoli non è possibile fare a meno di partire dalla forma urbana densa e verticale disegnata dai suoi quartieri che abbracciano il golfo. Con il suo clima temperato che rende strade e piazze luogo privilegiato di incontro, Napoli è teatro continuo di infinite aggregazioni sociali e creative. Uno scorrere di impulsi attraverso un tessuto urbano poroso che continuamente rielabora e rimescola contenuti e tensioni estetiche che nella musica hanno il loro più potente mezzo di espressione. Una città apparentemente ai margini dell’Europa, culturalmente meticcia, dove la dialettica tra l’identità mediterranea e quella europea, insieme con le influenze e gli scambi Atlantici hanno definito una geografia dello stare insieme e del paesaggio sonoro dalle risonanze planetarie. 
Caruso, la prima pop star globale, prese il mare verso l’America, portando con sé la tradizione partenopea, aprendo la strada al successo della musica Napoletana come gospel delle popolazioni emigrate dal sud Italia. Come per altre importanti città portuali, dalle stesse navi, per gran parte del secolo sono sbarcati ritmi e suoni che si sono ibridati nelle vene musicali della città, un’eredità sonora con cui fare i conti.



La fine della guerra, gli anni ’70, l’arrivo del Neapolitan Power


Con la fine della guerra è sicuramente Renato Carosone l’artista più famoso a interpretare per primo questo milieu culturale e nei primi anni ’50, assieme al suo complesso (orchestra) darà il via alla stagione del nightclubbing partenopeo suonando all’apertura dello Shaker Club, un locale dedicato ai nuovi ricchi e ai militari americani. Gli americani sono ospiti fissi in città dal 1943 con la loro principale base militare del Mediterraneo. La loro presenza, tra l’altro, oltre ad influire in maniera determinante sui suoni della città, darà l’impulso alla nascita del fenomeno dei night club, a Napoli e in Italia. Il nightclubbing italiano dell’epoca (dal ’46 al ’64 circa) fu un genere di intrattenimento dedicato prevalentemente alla borghesia negli anni del boom economico, ma è stato anche un’insostituibile palestra per numerosi musicisti italiani, alcuni dei quali diventeranno famosi negli anni seguenti, quando con gli anni ‘60 si aprirà la stagione dei cantautori che caratterizzerà la scena pop italiana per almeno venti anni. Carosone e la sua band frequentano un suono che mescola jazz e swing con i ritmi latino americani e la canzone napoletana. L’attitudine è ironica, i concerti sono performance ai limiti della pura comicità nel dominio della parodia, ma il ritmo è travolgente e le sue canzoni diventano famosissime. Nel ‘57, il singolo Torero è per due settimane ai vertici delle classifiche statunitensi.


Sempre nel ‘57, Carosone, dopo aver suonato a Caracas, Cuba e Rio De Janeiro, approda a New York per esibirsi al Carnegie Hall. Sono gli anni in cui al 9 di rue Git-le-Coeur, nel cosiddetto Beat Hotel nasce il cut-up letterario di Burroughs e Gysin, la postmodernità è alle porte, ma la Napoli che va incontro ai fermenti culturali degli anni ’60 è ancora in larga parte legata alla cultura popolare tradizionale, rappresentata dalla canzone classica napoletana e da eventi come la festa di Piedigrotta e il Festival della Canzone di Napoli che proprio negli anni ’50 raggiunge la massima notorietà. Era questo il contesto socioculturale esistente accanto alle élite che potevano frequentare i “nait” esclusivi, i quali non erano solo in città, ma anche nelle prestigiose località turistiche vicino Napoli, come Capri, Ischia, Positano e Sorrento. La breve testimonianza di un utente raccolta su un forum internet riporta delle basiche informazioni sulla vita notturna a Napoli del dopoguerra:


Ma per andare a ballare? Nel dopoguerra ebbe successo Il giardino degli aranci in via Manzoni di fianco alla funicolare, era un dinner-dancing, cui seguirono il Lloyd in via Partenope e lo Shaker Club in via Nazario Sauro. In questi locali si esibivano i piccoli complessi musicali del tempo, come Carosone, cui seguirono più tardi Peppino di Capri, gli Showmen, gli Alunni del Sole e tantissimi altri”.


Mentre nel ‘59 Carosone si ritirerà dalle scene, nel ’58, come ricordano anche Chambers e Cavallo, Domenico Modugno vincerà il festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu (Volare), iniziano ovunque in occidente anni di ribellione, rivolta, anticonformismo, da quel momento tutto sarà diverso, e i cantautori diventeranno la voce della trasformazione politica e culturale in corso. Sono anni in cui Napoli sembra incapace di esprimere artisti o situazioni di particolare interesse, anche se nel sottobosco tardo-beat si prepara ad emergere una generazione di nuovi artisti nati alla fine della guerra e intenti alla creazione di un personale stile di blues “metro-mediterraneo”, una scena che comincerà ad essere visibile nei primi anni ’70 e si chiamerà poi Neapolitan Power. Le tendenze che si configurano in questo passaggio temporale riflettono l’ambivalenza della città nel suo rapporto con la musica: da un lato l’influenza del rock e del beat “bianco” britannico e oltreatlantico, dall’altra il respiro r’n’b e jazz “nero” afroamericano e meticcio, e tutto questo innestato su radici musicali mediterranee e popolari.


La scena partenopea si risveglia nella seconda metà degli anni sessanta, in cui, oltre agli Showmen (dove troviamo il sassofonista James Senese) molto popolari grazie al successo del brano Un’ora sola ti vorrei, ci sono gruppi come i Battitori Selvaggi, i Volti di Pietra, i Città Frontale e poi gli interessantissimi Balletto di Bronzo, una vera è propria band culto del rock progressivo italiano, il loro primo disco del 1969 si chiama Sirio 2222, un lavoro ancora radicato nel beat e nella pop music di radice anglosassone, che però non ha nulla da invidiare alle produzioni inglesi o americane contemporanee. Ma è il loro secondo disco YS ad essere ancora oggi ritenuto una pietra miliare del genere progressive rock italiano. Questo secondo album ha come protagonista un giovane tastierista e vocalist che all’epoca ha solo 16 anni, si chiama Gianni Leone.


Nel 1971 entrano in scena gli Osanna, un gruppo che nasce come spin-off dei Città Frontale, che partendo da un’impostazione rock, articola complesse suite che abbracciano diverse sfumature stilistiche mescolando registri antichi e moderni con l’improvvisazione jazzistica e le partiture del blues insieme alla riscoperta del folk partenopeo. Il primo disco uscito nel 1971 è L’uomo, nel 1973 invece, dopo aver firmato la colonna sonora del film Milano calibro 9, classico poliziesco all’italiana, esce il loro secondo lavoro che si chiama Palepoli, dove troviamo interessanti spunti che aprono in maniera evidente ad una riscoperta della musica popolare. È una ridefinizione dell’identità sonora partenopea che in questi primi anni ’70, con il lavoro della Nuova Compagnia di Canto Popolare di Eugenio Bennato, Carlo d’Angiò e Roberto De Simone, diventa una delle tracce su cui la città ritroverà la sua unicità estetica e poco dopo anche il successo commerciale nazionale con l’affermazione di un gruppo di artisti sotto l’etichetta di Neapolitan Power (Tullio De Piscopo, Joe Amoruso, Rino Zurzolo, Tony Esposito, James Senese, Enzo Avitabile). Le dinamiche culturali che definiscono la nascita di questa scena musicale sono ben delineate nell’articolo di Chambers e Cavallo, e segnano quindi il progressivo ritorno di Napoli nel mainstream musicale italiano. Scrivono: “James Senese, Napoli Centrale, Pino Daniele, Edoardo Bennato – crossed the street from the post-war port clubs for US servicemen into the urban stronghold of Neapolitan song”.


I protagonisti del Neapolitan Power sono ben accolti dal pubblico e dal mercato discografico. La Nuova Compagnia di Canto Popolare esce nel 1971 con il disco omonimo, e si impone sulla scena internazionale con la partecipazione al festival di Spoleto nel 1972. Edoardo Bennato, cantautore e architetto, prolifico e anticonformista, pubblica numerosi album fino al successo di Sono solo canzonette nel 1980. Tony Esposito, inventore di strumenti a percussione dal suono inconfondibile, come quello del tamborder che caratterizza la sua hit discografica del 1985 Kalimba de luna (5 milioni di copie nel mondo), pubblica nel 1975 il suo primo disco: Rosso napoletano, un lavoro strumentale già chiaramente orientato alla world music. Pino Daniele, che sarà il più famoso di tutti, debutta nel 1977 con Terra Mia. Il batterista Tullio De Piscopo, un vero e proprio acrobata delle percussioni, con tecnica mozzafiato e anima funk. Maturato suonando nei night club americani vicino alla base NATO di Bagnoli a Napoli produce il suo primo disco nel 1974, successivamente il suo singolo del 1984 Stop Bajon è ancora oggi un classico nei dj set di Richard Dorfmeinster, almeno quando suona a Napoli.


Infine, il più giovane tra gli artisti che si ascrivono al Neapolitan Power, ma non per questo meno rilevante é Enzo Avitabile. Anche lui ha profonde radici nel funk e nel jazz, il suo lavoro più noto è l’album S.O.S. Brothers, del 1986, il cui remix del singolo Black Out diventa fortunosamente una hit balearica dell’Amnesia a Ibiza, vincendo persino un premio. Nel 1988 gli Afrika Bambaataa collaborano con Avitabile al suo album Street Happiness. 
Alcuni di questi artisti, ma non solo, li incontriamo in due eventi, importanti momenti eterotopici della cultura urbana locale, come emergono dal confuso magma della rete e dalle testimonianze raccolte durante questa ricerca. Gli eventi in questione sono il Be-in festival del 1973, organizzato proprio dagli Osanna, e Il Festival di Licola del 1975. Sono gli anni del rock progressivo e psichedelico, c’è ancora l’onda lunga dei grandi raduni hippie come l’isola di Wight e Woodstock. Il Be-in Festival si può considerare come la Woodstock Napoletana, sebbene fosse già fuori tempo massimo. È il primo evento di musica “alternativa” di questa scala a Napoli, cui partecipano 25.000 persone. La location è una pista di Go Kart sulla collina dei Camaldoli nel complesso sportivo Kennedy. Sul palco suonano i Biglietto per l’Inferno, il Franco Battiato di Pollution, Living Music, Era d’Acquario, Pholas Dactylus, Atomic Rooster.


Il secondo evento invece è il Festival di Licola del 1975, che prima di essere un festival musicale, 4 giorni dal 18 al 21 settembre, è una manifestazione culturale a 360 gradi con una forte connotazione politica a cui parteciperanno quasi 50.000 persone, con circa 4000 ospiti fissi nel campeggio. Il Festival di Licola era organizzato dagli “Organismi studenteschi della sinistra”, con adesioni da parte di forze politiche e collettivi controculturali. Il motto era: “dal movimento degli studenti a tutto il proletariato giovanile”: una festa di lotta con musica, cinema, teatro e libera creatività in un grande campeggio in riva al mare. Tra i nomi degli artisti invitati troviamo gruppi e cantautori italiani e napoletani tra i quali Il Banco del Mutuo Soccorso, Alan Sorrenti, la Nuova Compagnia di Canto Popolare, Franco Battiato, Francesco De Gregori, Napoli Centrale, Tony Esposito, Canzoniere del Lazio e diversi “altri cantanti politici del folk”.



E poi arrivano gli anni ‘80


Gli anni ’80, un decennio di transizione, proiettato verso la rivoluzione tecnologica delle comunicazioni e la globalizzazione economica. Il punk era arrivato in città con qualche anno di ritardo, sulla scia sonora dei Sex Pistols, incanalando il rifiuto all’omologazione sociale e culturale, e nel caso di Napoli anche le polarizzazioni politiche ed estetiche rappresentate in città dalla cultura di sinistra, dal perbenismo cattolico, dai fascismi latenti. Dire anni ‘80 a Napoli significa anche dire terremoto, ultima delle catastrofi che ha inferito sul continuo tentativo della città di sopravvivere a se stessa.


Uno dei protagonisti di questo periodo che ho voluto incontrare è Salvatore Magnoni (oggi produttore di ottime bottiglie di vino rosso e olio sopraffino nelle sue campagne nel cuore del Cilento). Per circa vent’anni Salvatore è stato parte attiva della scena musicale cittadina, creando alcuni degli eventi e dei club che ne hanno segnato la vita notturna. Sempre indaffarato dietro il banco di un negozio di dischi (da Tattoo Records passando per Flying e poi tra gli inventori della Fonoteca, dove si noleggiavano i CD), o nel ventre di un club a suonare musica e organizzare serate. Già nel 1982 Salvatore e l’amico Salvio Cusano esordiscono con un programma su una nuova radio libera, Radio Marte.


Propongono musiche che cercano di prendere una distanza dal “Neapolitan Power” quella mistura mistura di rock, funky, jazz e blues, incorniciato in una matrice mediterranea rappresentata da una rivisitazione della tradizione musicale popolare. Era anche un tentativo di distaccarsi dalla deriva commerciale della disco music e del pop proposti nelle discoteche. In generale il rapporto degli artisti napoletani con la loro città si confronta ciclicamente con tentativi di rielaborazione della napoletanità, nella continua ricerca di una centralità culturale, di un ritrovato splendore che i fatti della storia hanno di volta in volta negato; o al contrario nel bisogno di evadere questa identità vista come un peso che impedisce di deterritorializzare l’identità sonora.


In questo modo, ad esempio, nascono le correnti culturali che cercano di riagganciare la città ad un flusso cosmopolita, non identitario, di allontanarsi dall’influenza forte della politica nella cultura, per trovare nella musica spazi di evoluzione creativa, di incontro al di là delle ideologie e degli steccati sociali. I segnali di questa necessità sono favoriti e accompagnati dalla cultura punk, da una tendenza che spesso porterà Napoli a intrattenere contatti diretti con le città di riferimento di questo movimento, in particolare con Londra e il suo carico di nuova musica, per importare artisti, dischi, mode. Di questi tempi in città si ascolta il pop italiano e la disco music nelle discoteche, esistono ancora i puristi del rock progressivo degli anni ’70, gli orfani della psichedelica post hippie, e il jazz, che in città è da sempre molto seguito e suonato. Nel programma radiofonico di Salvio e Salvatore, chiamato Speed of Life, ci sono i primi tentativi di proporre attraverso la radio suoni diversi, programmando musiche di Wall of Voodoo, Echo & Bunnymen, The Clash, Psychedelic Furs, Iggy Pop. Questo sempre all’inizio degli anni ’80, quando in città si vedevano i primi locali punk come lo ZX di via Atri in pieno Centro Storico, il Trilogy sulla collina del Vomero (dove troviamo in consolle Gigi D’Aria, il primo dj alternativo della scena), il Pulsar di via Costantinopoli, il Caffè della luna nel quartiere di Chiaia. Nello stesso tempo, Salvatore Magnoni assieme a Salvio Cusano ed altri amici, cercano un club per proporre i nuovi generi di musicali aperti alla ricerca e, con una buona dose di spontaneità organizzativa, l’11 giugno 1984 aprono il Diamond Dogs. Sono ragazzi di diversa estrazione sociale provenienti da diversi quartieri della città come il Vomero, Piscinola, Soccavo, e da alcune aree della provincia, Racconta Salvatore:


C’erano discussioni fra noi. C’era l’ala più radicale dalle scelte estreme, e c’era la voglia di pop, così come ci furono i mercoledì di Nicola Catalano, Atrocity Exhibition, rumori industriali per pochi, e i sabati con la dance di Patrizio Squeglia. Fra noi c’era il tardo sessantotto e i postumi del settantasette. C’era la classe operaia, la piccola borghesia, l’artigiano di provincia, la middle class del Vomero e il jet set di Chiaia. I riferimenti culturali tracciavano una mappa ampia, nella geografia mutevole della sinistra dei primi anni ottanta, tirata da una parte dai puristi delle feste dell’unità, dei cantautori e del progressive, dall’altra dal politicamente scorretto della nuova onda, dove riviste come Il Male e Frigidaire mischiavano le carte. Nel Diamond Dogs coesistevano queste spinte, gli occhialini tondi di Luca e gli anfibi neri di Tonino “Piccolone”, i capelli lunghi e biondi di Stefania e quelli corti, squadrati, di Sandra.”


Il Diamod Dogs è il classico genere di locale che possiamo trovare nelle aree della città storica anche oggi, ricavato in spazi ipogei in genere formati da sequenze di piccole stanze, cantine e sotterranei di palazzi antichi, o nel caso del Diamond Dogs stesso, da un utilizzo creativo delle cisterne dell’antico acquedotto greco/romano in disuso e cave di tufo, che caratterizzano il poroso sottosuolo della città. Sono spazi nascosti, di rado visibili dalla strada, spesso celati all’interno di cortili, dove passando da piccole porte e scendendo rampe di scale si poteva accedere in questi mondi nascosti.


Ricorda ancora Salvatore: “la postazione del dj era inizialmente sul mezzanino, poi l’anno dopo sotto, dietro un frontale di furgone. Tutto il locale è scavato nel tufo. Sotto la postazione del dj abbiamo messo il bar, che poi sarebbe un bancone frigo che non riesce a raffreddare le bevande, che sono poche e finiscono subito, e qualche sacco di carta per alimenti con centinaia di panini da riempire. Non c’è attacco di acqua, corrente, nessun cocktail, nessun bicchiere di vetro. Lattine e bottiglie di birra, una micidiale affettatrice a mano per formaggi e prosciutti. Igiene da nave pirata. Le pareti non sono intonacate. Le abbiamo coperte di calce che costava di meno, ma ben presto l’alto tasso di umidità presente nelle grotte miscelato con il calore dei corpi fa liquefare la calce che si sposta sugli abiti di chiunque sfiori le pareti. Pareti sulle quali ognuno di noi ha disegnato delle cose, corpi danzanti, stelle cadenti. Sono affreschi primitivi, raccontano i nostri desideri, la voglia di incontri. Anche questi disegni dureranno poco, il tempo di scivolare via, come sogni al mattino”.


Salvatore ricorda una certa difficoltà della sinistra di leggere il contemporaneo, di riuscire a codificare stili e generi nel loro reale contesto culturale. Questo ha portato una parte dei giovani di sinistra, sia negli anni ‘80 che dopo, nei primi ‘90, a considerare con sospetto e distanza le rivoluzioni del punk, della new wave e più tardi nei confronti della musica elettronica e della techno. Non solo per diversità estetiche, ma di posizionamento politico e di modalità di aggregazione. La musica per la sinistra doveva essere musica di denuncia diretta, di impegno sociale esplicito, non poteva parlare d’amore, non poteva essere semplicemente strumentale, disimpegnata, troppo edonista, o peggio nichilista. Questo limite culturale è uno dei principali motivi che spinge la nascita di spazi come il Diamond Dogs, uno dei locali underground di Napoli che ancora riverbera storie e ricordi, di sicuro un punto di svolta nella storia del Clubbing partenopeo, capace di condensare le molteplici tensioni di superamento di tali limiti culturali socialmente sedimentati. Il Diamond Dogs è quindi uno spazio inquietante specialmente dal punto di vista politico della sinistra, si tratta di uno spazio topograficamente anomalo, non codificabile, un’eterotopia che mette in discussione i riferimenti tradizionali del conflitto sociale, quantomeno nel contesto italiano e nello specifico napoletano.


Il Diamond Dogs dura fino al 1988, e nel frattempo crea anche un gemellaggio con uno dei primi centri sociali aperti all’epoca, Segnali di Accellerazione, localizzato in provincia nella città di Acerra. Questo gemellaggio porterà uno scambio molto proficuo con la periferia, un flusso di stimoli e relazioni che segnò la strada anche per futuri centri sociali cittadini e nuovi locali periferici. Purtroppo in questo magma di creatività e confusione fa la sua comparsa l’eroina, la droga che minerà dall’interno la spinta creativa e le possibili evoluzioni di quanto stava accadendo e che prenderà in questi anni il sopravvento per diventare un problema sociale molto serio. All’inizio degli anni ottanta l’eroina era molto più diffusa nella provincia, la criminalità aveva centri di distribuzione specialmente nell’area vesuviana, Ercolano, oltre ad essere la sede del più importante mercatino di vestiti usati della regione, dove generazioni di alternativi hanno inventato i loro guardaroba, era, ed è stata per lungo tempo anche un importante piazza di spaccio. In questi anni, prima del dilagare dell’eroina, le droghe più diffuse erano hashish, l’erba, le anfetamine e gli acidi. L’ecstasy sarebbe apparsa in città alla fine degli anni ottanta, con l’arrivo della musica house e del clubbing contemporaneo.


Sempre nel Diamond Dogs in questi anni possiamo incontrare i gruppi napoletani che fanno parte di una nuova corrente estetica locale: la Vesuwave, la new wave del Vesuvio. Erano artisti che guardavano alla musica oltremanica per emancipare il suono partenopeo ormai paludato nelle dinamiche del Neapolitan Power. Tra i gruppi della Vesuwave che si esibiscono al Diamond Dogs troviamo Bisca, Les Bandards Foux, Rhythmotion, i primi Almamegretta, Cibo, Terrapin, Contropotere. Dal resto d’Italia arrivano i Detonazione, i Diaframma, i Liquid eyes, i Not Moving. Passano nel locale diversi gruppi importati da Londra, i Christian Death, Jazzbutcher, Living in Texas, i Playn Jayn e nel novembre dell’84 i ragazzi del Diamond Dogs portano a Napoli Nick Cave, in uno speciale concerto tenuto al teatro Ausonia.



Danilo Capasso, 2020.


da Napoli, venerdì 22 dicembre 2023 alle ore 00:28:43
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