Denham "Denny" Fouts, le gigolò.

Varie

Giampaolo Marseglia

da Napoli, sabato 11 luglio 2020 alle ore 08:04:31

L’homme fatal

Denny Fouts, il mantenuto più famoso del Novecento, visse tra i lussi del mondo e morì giovanissimo a Roma dopo aver incantato un paio di regnanti e quasi tutti gli scrittori gay. Isherwood, che nel 1955 venne a omaggiarlo al cimitero acattolico, lo descrive come “Dorian Gray che riemerge dalla tomba”.


Il mantenuto più famoso del Novecento: è sepolto a Roma. Nel cimitero acattolico della Piramide Cestia, il più elegante della città, forse dell’occidente; alla vigilia di Natale, ragazze bionde con grandi sciarpe écru depositano roselline su piccole lapidi liberty con nomi di nonne tedesche circondate da basse siepi di bosso; qualcuno ha messo due bastoncini d’incenso su una lapide russa; il profumo si sparge nell’aria; un annuncio in tre lingue, sommesso, con sottofondo d’archi, indica che quasi è l’ora di chiusura: niente di vagamente comparabile con cimiteri popolari tipo Verano; ed è giusto così per Denham Fouts (1914-1948), che visse lussuosamente nel mondo e si spense a Roma, a trentaquattro anni, dopo aver fatto spasimare un paio di regnanti, tutti gli scrittori un po’ gay del mondo libero, e pure qualche ereditiera americana.

La leggenda di Denny Fouts vorrebbe che fosse sepolto al Père Lachaise, ma lui è qui. Qui, tra i resti mortali di famosi massoni, principesse russe dai cognomi improbabili, il figlio di Goethe, aristocratici siciliani dai predicati sospetti, e tanti di quelli che si sono persi, e ritrovati non a San Francisco, come da celebre massima wildiana, ma a Roma. Oscar Wilde sosteneva che l’Acattolico è il vero luogo divino di Roma, non San Pietro; e qui riposa, oltre a Gramsci e a Yeats e a Shelley, anche Denny, una delle incarnazioni più plausibili del mito della giovinezza perenne e un po’ mortifera alla Dorian Gray. La lapide sobria recita solamente: “Louis Denham Fouts; 16 dicembre 1948”; nessuno dei visitatori sommessi natalizi potrebbe sospettare che l’adolescente più amato del Secolo Breve si nasconda sotto questa piccola pianticella di melagrana, tra i famosi gatti di Piramide.

Era stato “il prostituto più caro del mondo” secondo Christopher Isherwood; “il miglior mantenuto del mondo” e “la persona più affascinante che io abbia mai visto” per Truman Capote, che lo cristallizza tra i protagonisti del suo “Preghiere esaudite”; “l’homme fatal” per Gore Vidal, che lo mette nel suo “Giudizio di Paride” e in altri racconti. Neanche Lola Montez, la escort irlandese che aveva fatto perdere un regno a Ludwig I di Baviera, ha generato tanta narrativa. Lui non faceva perdere regni, ma rendeva più piacevoli le vite terrene di tanti signori ammogliati, con corona o senza: Truman Capote, Christopher Isherwood e Gore Vidal, appunto, ma anche Somerset Maugham, Paul Bowles, Cyril Connolly; e poi re Paolo di Grecia, lord Mountbatten, Paolo di Yugoslavia, Jean Marais, lo Scià di Persia. Addirittura Hitler – ma qui siamo forse alla leggenda: “Se Denny avesse ceduto alle sue avances, forse non ci sarebbe stata la Seconda guerra mondiale”, secondo Capote, che pure inventava parecchio.

“Sono stato una puttana omosessuale di spettacolare successo”, dice il protagonista della novella di Isherwood “Paul”, che poi è chiaramente Denny. E “avevo un talento: il sesso. Ero davvero bravo in quello. Ogni tipo di persona impazziva per me, e questo mi eccitava – anche quando li trovavo totalmente non attraenti, cosa che accadeva spesso”. L’autore di “Addio a Berlino” venne nel 1955 a omaggiare il suo vecchio amico a Piramide; e nei suoi diari descrive Fouts come “Dorian Gray che riemerge dalla tomba”.

Casualmente c’è qualcosa di cimiteriale anche nella presentazione di Paul-Denny: “La prima volta che posai gli occhi su Paul, quando entrò al ristorante, notai la sua andatura stranamente eretta, pareva quasi paralizzato dalla tensione. E’ sempre stato snello, ma allora pareva magro e vestiva come un adolescente. Sapendo che si stava ormai avvicinando ai trent’anni, questa ostentata giovinezza aveva un effetto un tantino sinistro, come qualcosa di miracolosamente conservato”. Oggi Denny all’Acattolico è anche in coabitazione: secondo gli angelici custodi del cimitero di Piramide, i suoi resti riposano ora nell’ossario comune, tra le membra di chissà quali expats, per quanto prestigiosi, non essendo stato pagato il rinnovo trentennale della concessione; il suo coinquilino forse inconsapevole si chiama Oddone Cappellino; accanto, un professore Antonio Martines, da Galatina, Puglia.

Louis Denham Fouts era nato il 9 maggio 1914 a Jacksonville, Florida, da una famiglia della buona borghesia del sud, e non, come nelle “Preghiere esaudite” di Capote, garzone nella panetteria del padre. Nell’opera capotiana il piccolo Fouts viene rimorchiato da un “grassoccio miliardario al volante di una Duisenberg decappottabile nuova di zecca e fabbricata su ordinazione”; è un magnate della crema abbronzante, che compra ciambelle nella bottega paterna e se lo porta via, verso l’Europa e i lussi.

In realtà il Bildungsroman di Fouts è più manniano e meno pasoliniano: secondo una biografia che prende a titolo la definizione capotiana – “Best kept boy in the world”, di Arthur Vanderbilt (Riverdale Avenue Books), il miglior mantenuto del mondo ha un nonno presidente di una ferrovia locale, e l’altro fondatore di una Atlantic National Bank. Il padre, laureato a Yale, è funzionario nella banca del suocero. Il giovane Denny non fa ciambelle, ma viene spedito prima a Washington poi a New York a lavorare nel supermercato di un parente; qui però si accorge subito che il suo potenziale non sarà valorizzato abbastanza nella grande distribuzione organizzata.

Un aspetto angelico, in grado di ossessionare uomini e donne, che si girano per strada. Soprattutto un’aura da puer aeternus in grado di turbare uomini e donne.

Per Gore Vidal, che come al solito se la tira, e come al solito ha ragione, la bellezza di Fouts non era eccessiva, eppure c’era qualcosa: un carisma adolescenziale e un gattamortismo esistenziale ne spiegano il successo planetario; e Capote, molto più ossessionato (se avesse continuato a lavorare alle sue “Preghiere esaudite”, Denny avrebbe avuto un ruolo principale nella saga proustiana che poi uccise il suo autore): “Era l’Amato, questo il solo ruolo che poteva interpretare”.

Il puer aeternus, o twink, a New York tra gli scaffali del suo supermercato chiede informazioni sulle vocazioni: da Glenway Wescott, letterato allora molto in voga, vuol sapere “cosa bisogna fare per fare i mantenuti”; lo scrittore sorride di questa ingenuità e gli dice innanzitutto di evitare assolutamente quell’espressione, per cominciare. “Pensa piuttosto a qualche materia che vorresti studiare, e poi chiedi a qualcuno di finanziarti”.

Non si sa se il giovane Fouts abbia seguito il consiglio, ma di sicuro da qui in poi comincia la sua ascesa; e da qui la versione capotiana e quella della biografia di Vanderbilt si ricongiungono: il primo sponsor è un barone tedesco, produttore di cosmetici, che viene rapidamente scaricato a Berlino, di dove il giovane Fouts parte in autostop per Venezia; lì, una provvidenziale limousine greca lo soccorrerà, fino a un porto e a uno yacht (ci sono molti yacht nella parabola di Denny). Il tycoon però dev’essere noioso, e Fouts scappa con un mozzo adolescente di bordo, dopo aver derubato il suo ospite, e col ricavato si stabiliranno in una suite al Quisisana di Capri.

Qui, abiti da sera e champagne, nella migliore oleografia caprese; ma i soldi finiscono in fretta e a un certo punto il direttore chiama i carabinieri; e proprio mentre è in corso l’arresto, si ode una voce: “Giù le mani da quel bel giovane. E’ mio!”. Secondo la leggenda e i biografi, dice proprio così lord Tredegar, figlio del primo visconte Tredegar e di una Carnegie, dunque immensa ricchezza, le migliori eccentricità britanniche e “il bambino più viziato d’Inghilterra” secondo Aldous Huxley, suo istitutore privato.

Tredegar diventa il passe-partout per Fouts nel jet-set (non ancora chiamato così, scarseggiando i velivoli) internazionale; alle sue feste a Tredegar Park, nel Galles, sono ospiti fissi la marchesa Casati, Yeats, G. K. Chesterton, lord Alfred Douglas, che aveva da poco fatto carcerare il povero Oscar Wilde; e George Bernard Shaw. Denny viene incorporato nell’arredamento di Tredegar Park, tra i canguri ornamentali che il lord utilizza per intrattenere gli ospiti, e allevamenti di uccelli dei più strani; oltre all’immancabile pappagallo che il visconte tiene su una spalla.

Tredegar era amico dei nazisti e nel Dopoguerra sarà poi una spia al servizio dell’MI-5; “aveva il passaporto del Vaticano e una grossa valigetta con uno stemma più elaborato di quello della regina d’Inghilterra”, testimonia Gore Vidal nel classico “Truman Capote” di George Plimpton appena pubblicato in italiano da Garzanti; secondo la biografia di Vanderbilt, Tredegar si era convertito al cattolicesimo soprattutto per poter indossare certe marsine elaborate: aveva fatto montare un piccolo altare sulla sua Rolls Royce ed era partito per il Vaticano, dove era riuscito a farsi nominare cameriere segreto di cappa e spada di Benedetto XV e poi di Pio XI. “Era un omino simile a un uccello; forse perché sua madre, lady Tredegar, aveva costruito il nido d’uccello più grande del mondo, è ancora visibile a Tredegar Park” (sempre Vidal).

A una serata a Tredegar Park, Fouts conosce quello che sarà poi il suo protettore più araldico, il principe (poi re) Paolo di Grecia. Papà di Costantino e di Sofia di Spagna (molto contestata infatti per certe sue uscite antigay, da manifestanti esperti sulla sua genealogia), era esiliato a Londra e non si era ancora sposato con Federica di Hannover; sotto falso nome lavorava in una fabbrica di motori di aerei nella City. I due partono subito per una famosa crociera nell’Egeo, e Paolo, una volta re, resterà in contatto tutta la vita con Denny. “Ci siamo molto divertiti, prima che dovesse sposare Federica. Vivevamo insieme” (dice Fouts a Vidal). Secondo Capote si fanno fare un tatuaggio uguale a Vienna (“un piccolo emblema azzurro sopra il cuore”). E Vidal, ancora: “Una sera leggiamo sul Paris Herald che re Paolo ha la polmonite”, e Denny dice: devo scrivergli un telegramma. L’indirizzo è Palazzo Reale, Atene, naturalmente, e subito arriva la risposta, il re dice che è tutta un’esagerazione, e che bellezza sentirlo, e perché non si è fatto sentire prima, e tanti baci.

Attorno a Denny girano poi una serie di personaggi diversamente altolocati; lord Mountbatten, ultimo viceré d’India, zio di Filippo di Edimburgo, padrino del principe Carlo, poi fatto brillare dall’Ira nel 1979; Paolo di Yugoslavia, e lo Scià di Persia. Si contendono e scambiano il giovane Fouts in un giro molto allegro e internazionale di signori ammogliatissimi e moderni.

“Una Bloomsbury ma con le corone”, secondo Gore Vidal: “tutti allegramente bisessuali”; e “tutti si sposavano”. Anche alcune ereditiere aspirazionali vogliono provare a tutti i costi il toy boy ormai status symbol che piace alla gente che piace: sono gli anni in cui Doris Duke e Barbara Hutton pagano un milione di dollari per verificare di persona quanto si dice attorno alla dotazione XXL di Sua Eccellenza Porfirio Rubirosa, ambasciatore della Repubblica Dominicana, e unico in grado di competere in dimensioni con lo Scià di Persia (però che politiche estere divertenti, allora).

Ma per Fouts sta arrivando l’utilizzatore finale più amato, quello senza corona ma che gli sarà accanto, sebbene spesso in assenza, per tutta la vita. Peter Watson, figlio dell’inventore inglese della margarina moderna, “non era solo un ricco finocchio, ma – alla sua maniera sommessa, intellettuale e sardonica – uno dei più begli uomini d’Inghilterra” (sempre Capote). Collezionista e mecenate, per dissipare onorevolmente la fortuna paterna Watson aveva scelto una delle vie più tradizionali, quella di finanziare un giornale sofisticato; era nata così Horizon, la rivista letteraria più importante dell’epoca, diretta da Cyril Connolly, e con Stephen Spender come editor; nella cui breve vita (1940-1949) pubblicarono tra gli altri Henry Miller, George Orwell, Virginia Woolf.

“L’ambiente di Watson fu costernato quando il loro amico, di solito piuttosto rigoroso, che aveva sin qui mostrato un normale interesse per semplici marinai, si infatuò del famigerato Denny Fouts, un ‘playboy esibizionista’, un drogato, un americano che parlava come se stesse continuamente masticando una libbra di granoturco dell’Alabama”, sempre secondo Capote; ma probabilmente non c’è niente di vero in queste parole (Isherwood ricorda una più plausibile “parlata peculiare, un misto di accento del sud e di pseudo-inglese di Oxford parlato dalle élite europee, probabilmente la gente con cui era stato a contatto negli ultimi anni”).

L’unica cosa assodata è la droga: cocainomane, oppiomane, eroinomane, Fouts aveva cominciato a drogarsi probabilmente tra i pappagalli di lord Tredegar, e negli ultimi anni di vita assomiglierà sempre più a un sontuoso adolescente vampiro, cercando continuamente un ago, un cucchiaio o una pipetta per l’oppio, uscendo di casa soltanto di notte, vivendo praticamente a letto.

In realtà, a essere costernato dall’arrivo del puer floridiano fu soltanto Cecil Beaton, il fotografo corteggiatore indefesso di Watson e da lui sempre tenuto a distanza e poi accannato definitivamente in favore del mangiatore di granturco. La storia d’amore tra Beaton e Watson è interamente raccontata in “Preghiere esaudite”, sebbene a chiave: lì Beaton, trasfigurato in un giovane aristocratico sospirante, viene imbarcato su una crociera di spasmi con Watson (quante crociere, all’epoca), che lo fa dormire con sé senza concedergli nessunissima prova d’amore, e da profumiera annoiata e perfida “non permettendogli mai né un bacio né una carezza”; il poveretto annota tutto nei suoi diari, e prima “lo amo”, e poi “è un bastardo! lo odio”, come su un Facebook o WhatsApp qualunque oggi.

“Watson era innamorato della crudeltà di Denny, perché riconosceva l’operato di un artista superiore” per Capote, mentre per Vidal è “un uomo interessante, alto, perverso. Uno di quei complicati gay inglesi che di solito finiscono negli alti gradi dell’esercito, perché non aveva bisogno di fare nulla. In realtà non vedeva Denny molto spesso, perché non sopportava le droghe eccetera. Quella vita era troppo per lui. Però continuava a pagargli l’appartamento e a dargli una mano”.

Fouts e Watson si stabiliscono a Parigi in questo famoso appartamentone a rue du Bac (al civico 33 secondo Capote, al 44 secondo gli altri biografi); lì, stabile come si conviene di prestigio, sei persone di servizio, e una collezione anche imponente tra cui De Chirico, Klee, Miró, un’enorme “Ragazza che legge” di Picasso che finirà nelle mani di Denny. Quando sono in buone, i Watson-Fouts si vedono spesso con Paul Bowles. Lo scrittore di “Tè nel deserto” nelle sue memorie ricorda come Denny si divertisse a tirare con l’arco dalla finestra, con frecce-molotov intinte d’alcol, fiammeggianti sui passanti.

Per il resto, un normale ménage come se ne conoscono tanti, del migliore Visconti-Berger: quando è arrabbiato Denny si butta con la Rolls Royce nella Senna, uscendone all’ultimo momento. Oppure parte per Atene, dove il monarca gli tiene prenotata una suite all’hotel Grande Bretagne, e Denny fa telefonare a palazzo reale, e si fa passare il re, e gli dice di mandargli giù “due valletti dei vostri, con quei famosi gonnellini, e portar giù della roba da fumare”.

Quando i nazisti arrivano a Parigi, Denny scappa in California, dove farà amicizia con Isherwood, che è lì a fare delle sceneggiature per Hollywood e a studiare buddismo. I due si conoscono a pranzo nel 1940, con Isherwood che dirà la famosa frase: sono a pranzo col prostituto più caro del mondo, e all’inizio lo odia, venendo disturbato dall’adolescente tossico nel suo tran tran di meditazione e verdure biologiche. Però poi naturalmente se ne innamora un po’, come in uno dei più classici plot – l’auto-segregato disturbato da un essere giovane portatore di casini e vitalità; per qualche mese sono inseparabili. Vivono insieme a Santa Monica, fanno yoga, mangiano verdurine, fanno lunghe passeggiate. Alla fine Isherwood ne tira fuori un racconto, e nei diari ammette che con il suo prostituto passa “uno dei periodi più belli della mia vita”: “Ho capito sempre più le sue qualità da geisha. Lui sa davvero come dare piacere, come rendere la vita di ogni giorno più decorativa, come godere delle piccole cose”.

Poi Denny si fa arrestare come obiettore di coscienza, finisce in un campo di prigionia per disertori americani; tornerà in Europa solo nel 1946. Torna a rue du Bac con un grande cane da pastore nero, Trotsky, preso in California, e Watson gli organizza una grande festa di bentornato, salvo poi sbroccare perché arrivano tutte le marchette di Parigi. Denny è ormai una specie di Ludwig nei giorni del disarmo: dorme tutto il giorno; sul suo letto, un ritratto del bonazzo mitologico Adone a grandezza reale del pittore russo Tchcelitchew; sul letto, le pagine dei quotidiani con le quotazioni di Borsa; vari telegrammi di Paolo di Grecia; al tramonto attacca la prima pipa di oppio e poi esce, va nei locali intorno alla Bastiglia; a volte in frac, altre, se non ha voglia di vestirsi, direttamente in pigiama. E ha sempre meno voglia di vestirsi. Spesso si addormenta nei locali. Comincia a circolare il soprannome: The Beautiful Sleeping Beauty. Una sera il gestore di un night, vedendolo in pigiama di seta al suo ristorante, lo crede artista e gli chiede come si chiama il suo spettacolo; risposta: “La vie”, la vita.

Questo lo racconta un altro amante del tempo, Michael Wishart, pittore all’epoca diciassettenne, un protetto (insieme a Lucian Freud) di Watson, che racconta tutto nel suo libro di memorie “High Diver” (1977). Wishart si innamora naturalmente subito, ma scopre presto di dover condividere Denny non solo con lo sponsor Watson, ma anche con Gérard, sedicenne marinaretto bretone. A Fouts del resto piacciono solo gli adolescenti: anche Watson lo conferma. “Sessualmente, è solo una cosa tecnica per lui. E’ fermo ai suoi sedici anni, e resiste a ogni tentativo di crescere”. E Vidal: “Con gli adolescenti dava il meglio di sé: ma del resto era uno di loro”. E Denny, tra reali e tycoon e produttori di margarina, alla fine vagheggiava solo mitologie narcisistiche in senso letterale, col rispecchiamento pubescente, e “quelle notti sotto le stelle in cui mi scopavo il mio bellissimo fratellino piccolo, a Jacksonville”.

Negli ultimi mesi parigini, nella discesa agli inferi oppiacea, arriva a Parigi Capote (ventiduenne). Nella finzione romanzesca di “Preghiere esaudite”, il narratore riceve da Denny un biglietto di prima classe sul Queen Elizabeth e una lettera: “Caro signor Jones, i suoi racconti sono splendidi. Come il ritratto di Cecil Beaton. La prego di venire qui come mio ospite”. Nella realtà, pare che Fouts avesse mandato una sola parola, “come”, “vieni”, e un assegno in bianco (dunque gli amici: appena andrà in banca, scoprirà che è scoperto, e se ne tornerà a New York). A colpire Denny era stata la quarta di copertina di “Altre voci, altre stanze”, l’opera prima di Capote, con una foto dell’autore in posa minorile-zozzetta, e non di Beaton.

Nella finzione, Capote-Narratore e Denny diventano amanti, vivono insieme alcuni mesi a Parigi, e Denny accetta di sottoporsi a un rehab e avalla addirittura progetti di ripartenza coniugale per gli Stati Uniti, con lo strano proposito di acquistare una pompa di benzina, e l’autocandidatura a casalinga provetta in grado di preparare tanti mangiarini “mentre tu scriverai racconti” (mah). Nella realtà, Capote rimane solo alcuni giorni a intervistare Denny, sufficienti per far scattare fondamentali proiezioni: sono entrambi del sud, ma Denny oltre a essere nato ricco e senza complessi, vive della sua bellezza fisica, osannato da reali e scrittori, mentre Capote per farsi amare dallo stesso jet set deve fare l’istrione accaventiquattro, e “se non avessi fatto lo scrittore sarebbe piaciuto anche a me fare il mantenuto. Ma nessuno me l’ha mai concesso, se non per una settimana al massimo”.

Il finale è univoco, e appartiene più ai referti di polizia che alla letteratura. Denny viene trovato morto il 16 dicembre 1948 in una pensione Foggetti in via Marche, Roma. Gli ultimi mesi a Parigi erano stati insostenibili, con Watson impoverito dalla guerra e stufo degli sbrocchi dell’amato, che smette di pagare la pigione; inoltre c’erano stati problemi tra droga e minori e condòmini scontenti. Dunque, pare su consiglio di Gore Vidal, Denny era partito per Roma (la droga costa poco e sui pischelli la questura chiude un occhio).

A dare la notizia della morte è Bernard Perlin, artista e illustratore, che abitava nella stessa pensione e nei giorni precedenti era stato a visitare Denny, trovandolo a letto, cadaverico, immobile, col suo amante dell’epoca, Tony Watson-Gandy, asso dell’aviazione britannica, che gli toglieva la sigaretta di bocca per gettare di volta in volta la cenere. La pensione Foggetti (nella biografia di Vanderbilt, “Foggette”, così come la Piramide è di “Caio Sestio”) era una modesta struttura su nel Quartiere Ludovisi, tra via Veneto e le mura Aureliane, oggi zona di ristoranti che si chiamano tutti per nome (Andrea, Giovanni), di vecchie macellerie e pasticcerie e signorilità internazionali mai più riprese dopo la cosiddetta Dolce Vita.

Un palazzetto a cinque piani umbertino col suo bugnato color crema, un portone di legno ben tenuto, le sue maniglie d’ottone lucidate. Era una “casa di prim’ordine”, come indica una cartolina pubblicitaria d’epoca che si è fortunosamente reperita.

“Quartiere Ludovisi, posizione incantevole, con veduta sulla Villa Borghese, il più alto ed il migliore posto di Roma, aria saluberrima”, sempre secondo il marketing anni Quaranta. Si fa un sopralluogo, quella che era un tempo la pensione Foggetti è oggi un hotel “a gestione famigliare”, ben tenuto; nessuno ha memoria dell’adolescente che qui morì nel 1948. Il vecchio proprietario ricorda di aver rilevato l’albergo negli anni Settanta, e che anticamente, a cavallo della guerra, era luogo di prostituzione per ufficiali tedeschi, con cinque camere e una scritta, “Zimmer”.

Dopo una vita di sfolgoranti lussi Denny verrà trovato riverso qui, nel bagno di una di queste cinque camere crepuscolari. L’autopsia scoprirà poi una malformazione cardiaca, che avrebbe potuto procurare la morte in qualunque momento. Capote sostiene beffardamente che sia stata l’improvvida disintossicazione a causare il collasso. Per Vidal, Denny “fu seppellito il giorno di Natale nel cimitero protestante di Roma. Vicino a Shelley; in buona compagnia, in definitiva”. Il giorno dopo il funerale, il 20 dicembre 1948, l’ultimo compagno, Tony Watson-Gandy, fa i bagagli e riparte per l’Inghilterra insieme al cane Trotsky. L’antico sponsor, Peter Watson, impoverito e amareggiato, scriveva mesi prima: “Quant’è terribile invecchiare: l’esperienza non dà nulla, perdi solo vecchi amici e non ne guadagni di nuovi. Non resta che essere giovani, e coltivare un elegante egotismo”.

Michele Masneri, Gennaio 2015.






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Giampaolo Marseglia

Denham Fouts ce l’abbiamo ancora noi. Alcuni siti, più o meno autorevoli, ne davano la sepoltura a Pere Lachaise, altri pensavano che le spoglie fossero state riportate nella terra d’origine, gli Stati Uniti. Niente di tutto questo: Denny è ancora sepolto a Roma, nella quiete assediata dal caos urbano del Campo Cestio. Stavolta wikipedia non sbaglia, nemmeno quella sorta di cimitero virtuale per più o meno famosi che è il sito find a grave. Entrambi, però, fallano sull’esatta ubicazione: non è nella zona prima fila 11 ma nella zona prima- fila 13-area 10. Quasi un colpo di fortuna averla trovata: alla fine del falsopiano di fronte all’ingresso principale, in una giornata d’ agosto bruciante, attirato dal piccolo ma vispo melograno che ne orna la lapide.

Lapide condivisa con un poeta morto nel 96, curiosa prassi che mi incuriosisce. Mi chiariscono questo mistero le due eleganti e bellissime signore inglesi addette alle “informations”: la lapide con il nominativo deve rimanere ma i resti di Denham sono stati traslocati nella promiscuità dell’ossario del cimitero, causa riassegnazione del loculo. Mi mostrano un registro scritto fitto fitto, che di ogni tomba racchiude la storia burocratica: scorro rapido con lo sguardo il tomo, mi compaiono davanti i nomi di Labriola, Corso, Munthe, Gramsci e…e poi mi fermo, bloccato dal nome Louis Denham Fouts, la data di nascita, quella di morte, l’età (solo 35, 35 anni per una vita intera) e una scritta rossa quasi illeggibile alla fine della linea del registro: ossario, appunto.

Chi è, o meglio, chi era Louis Denham Fouts? Isherwood lo definì “la marchetta più costosa del mondo”, per Capote era il mantenuto migliore del mondo”. Marchetta, mantenuto, wikipedia azzarda un “male prostiute and socialite”. Eppure queste poco nobili descrizioni, impossibili da cesellare nella lapide di un cimitero che accoglie poeti con il nome scritto sull’acqua (Keats), era qualcosa di più: era una Musa.

Louis Denham Fouts appare nella vita e negli scritti dei grandi scrittori della sua epoca come una leggenda. In Down there on a visit (Ritorno all’inferno, ultima e più o meno disponibile edizione italiana è la Garzanti 1992) Isherwood lo trasforma in Paul, “il celebre e favoloso Paul”, impegnato a tracannare l’ennesimo sazerac (scambiando l’assenzio per anisette) stravaccato nel divano Chesterfield di un bar di Beverly Hills. Isherwood da un primo, sommario, resoconto delle sue imprese. Capote, nel suo roman à clef incompiuto -il pettegolo e acido “Preghiere Esaudite”- ce ne darà la biografia.

Nato nella sperduta Jacksonville, florida, a sedici anni Louis fuggi verso “il rischio-qualcuno potrebbe dire la rovina (..)” a bordo della decappottabile del suo primo cliente miliardario. Da lì in poi Fouts divenne un apolide, con il biglietto illimitato pagato dal desiderio e dall’attrazione. Come un semi-Dio ubiquo, lo si poteva vedere passeggiare a Parigi sottobraccio di Cocteau e di Marais, fuggire a Tunisi, ubriacrsi a Venezia, fingere di fiutare cocaina a Saint Moritz- o era a Losanna? Su questo Capote e Isherwood divergono – bloccato a Cap Ferrat, a bordo dello yacht del futuro re Paolo di Grecia (si, proprio lui, il padre della regina Sofia).

Vivendo in un’epoca dove l’idea di Bellezza è stata fustigata e ridicolizzata dall’appiattimento del video, è difficile comprendere l’attrazione che Fouts riusciva ad esercitare con il suo fascino sinestestico. Capote scrisse che “vederlo attraversare una stanza era un’esperienza”. L’homme fatal – come Gore Vidal lo appellò in un suo racconto- moltiplicava il Desiderio col suo delizioso odore, la sua pelle pulita nonostante gli eccessi e il suo essere così costoso!

I suoi abusi, alla fine, la ebbero vinta sul suo fascino. Come in un trittico di Bacon. Louis Denham Fouts morì di overdose nell’anonima stanza da bagno della pensione Foggetti a Roma. Scampò alla vecchiaia ma non all’oblio: anche per una leggenda arriva il momento di dividere una lapide.

Andrea Silvestri, febbraio 2014.








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