Alessandro "Dado" Ruspoli

Varie

Giampaolo Marseglia

da Napoli, domenica 2 agosto 2020 alle ore 10:46:35

«Bisogna morire molte volte per imparare a vivere» ripeteva don Alessandro Ruspoli, nono principe di Cerveteri e quattordicesimo conte di Vignanello, capo di una casata millenaria che fu per secoli colonna del potere papale, noto come Dado agli happy few che nel dopoguerra, dopo il buio della tragedia, colorirono di eccessi le cronache mondane tra vecchia Europa e Stati Uniti.

Dado è spirato ieri mattina a ottant'anni, consumato da un estenuante enfisema e da un tumore al fegato scoperto giorni fa. L'addio sarà in sintonia con l'uomo. Domani alle 12 funerali, da principe cattolico, nella basilica di San Lorenzo in Lucina. Alle 21 grande festa «per sostenere l'arte della danza» allo spazio Etoile, di fronte alla chiesa. L'invito firmato da Dado e da sua moglie Patricia con Anna Fendi è stato confermato ieri. L'ultimo desiderio dalla clinica: «Per favore, non cancellate nulla». E' la sua definitiva morte terrena dopo un'infinità di vite.

La prima è del Dado più noto alle masse, citato da "Totò, imperatore di Capri" col pappagallo sulla spalla. Ecco come andò, la parola allo stesso Dado che così lo raccontò a chi scrive: «Fu un equivoco. Stavo giocando a tennis e vidi per terra un corvo ferito, decisi di portarlo in albergo per curarlo, lo poggiai sulla spalla. Lungo Tragara incontrai un fotografo». Un flash e fu subito mito: «Finii sui giornali di mezzo mondo».

Era il 1950, dieci anni prima de "La dolce vita", e anche in quel Fellini c' è tanto di Dado. Giocò a tingersi i capelli a strisce (gialle, verdi, viola) quarant'anni prima dei punk. Ma ridurre Dado Ruspoli al corvo ferito e a Totò sarebbe l'ingenerosa amputazione di una personalità multiforme, curiosa degli ingegni quanto delle belle donne, solare ma venata di misticismo, controcorrente però rispettosa delle radici e delle istituzioni.

Da antico principe romano dava del tu a chi contava. A 17 anni provò la cocaina, per esempio, ma smise su suggerimento di un amico che si chiamava Jean Cocteau. Col tempo, e con quella sua ostinata curiosità intellettuale, diventò intimo di Salvador Dalí, Pablo Picasso, Curzio Malaparte, Jean Genet, Roman Polanski. A Parigi finanziò uno dei primi balletti di uno sconosciuto Roland Petit.

Frequentava abitualmente Leonor Fini, scandalosa pittrice bisessuale, e il raffinato Balthus. E poi Giancarlo Menotti, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Truman Capote, i Rolling Stones. Se affittava una casa in Costa Azzurra divideva le spese con Roger Vadim e Jane Fonda e alle loro spaghettate non mancavano mai Brigitte Bardot e Joan Collins.

Ancora Dado: «Ricordo Brigitte bellissima, mascherata da leopardo, ma sempre così sola "dentro", un male cupo che la perseguitava». Poi quel pianeta incantato si frantumò: «Piano piano vedemmo il mare popolato di barche piene di italiani ricchissimi, spesso autentici avventurieri, quindi urla, rumore, ostentazione. Era l' inizio della fine. Era cominciata l'era neovolgare».

Se Dado Ruspoli ha avuto una sua grandezza e certo l'ha avuta, è stato il suo essere l'opposto di ciò che nel jet set d'oggi certifica un successo: denaro, fama, spreco. Quando la fortuna avita scemò, col fratello Lillio vendette il piano nobile di palazzo Ruspoli dopo mezzo millennio di proprietà familiare, roba progettata dall'Ammannati e affrescata da Jacopo Zucchi.

Si ritirò nell'altana, con ironico e signorile distacco. Quarant'anni fa si perse per mesi tra il Nepal, la Thailandia del Nord, la Birmania. Sprofondò nell'oppio, sempre per quella sua vorace curiosità. Ne riemerse. Recitò anche, e benissimo, grazie a un talento nutrito di indicibile classe.

Al cinema lavorò per Marco Ferreri, era il vecchio amante della vecchia Ingrid Thulin ne "La casa del sorriso", storia d' amore tra anziani premiata a Berlino. In teatro fu un indimenticato Firs, maggiordomo cecoviano ne "Il giardino dei ciliegi", regia di Antonello Aglioti, negli anni dell'avanguardia romana.

La più recente vita di Dado svela l'affettuoso padre di due figli piccolissimi (Mathilde Melusina, 11 anni, e Teodoro, 7) avuti dall'ultima moglie Patricia, splendida ex modella francese più giovane di lui di trent'anni. Li guardava e mostrava i tatuaggi disegnatigli sul braccio dai Bonzi: «Una vita e una morte, poi un' altra vita e un' altra morte, è la regola».

Aveva preso a scrivere poesie, come suo padre don Francesco, noto letterato vernacolare. Fino a poche settimane fa ancora ammirava le mille, radiose bellezze che ogni giorno risplendono nel centro di Roma. Ormai respirava grazie a una bombola d'ossigeno che portava lievemente con sé. Se scrutava le ragazze e incrociavi il suo sguardo, sospirava: «Certe meraviglie ti rimettono al mondo». Poi toccava i tubicini di plastica nel naso. E rideva: «Si fa per dire». Verrà sepolto a Vignanello.


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Giampaolo Marseglia

Indicato quale fonte di ispirazione per il personaggio di Marcello Mastroianni ne La Dolce Vita, Alessandro "Dado" Ruspoli è stato un illuminato principe delle feste che precorreva i tempi alla luce della sua aristocratica storia familiare, con una passione edonistica per il presente ed un chiaroveggente senso dello stile.

Titolato (tra l'altro) IX Principe di Cerveteri, IX Marchese di Riano, XIV Conte di Vignanello e Gran Maestro del Sacro Apostolico Ospizio, il suo cognome Ruspoli risale a più di 1.200 anni fa a un contemporaneo scozzese di Carlo Magno, una delle poche famiglie che il Vaticano classifica come "nobiltà nera" favorita dal papa.

Secondo il Financial Times, Handel ha composto cinquanta cantate e Brigitte Bardot ha rinunciato al diavolo nel "mistero inconoscibile" del Castello Ruspoli, sede di uno dei giardini rinascimentali più belli d'Italia. Un ritratto dello stesso Dado guarda dall’alto gli occupanti della camera da letto principale, con l’aria stanca, le gambe allungate, la sigaretta in mano.

Figlio di un'ereditiera industriale e di un poeta che aveva combattuto in entrambe le guerre mondiali, Alessandro divenne presto l'epicentro del turbinio dell'alta società e riempì il suo “black book” con la regalità artistica del momento.

Condividendo un appartamento nel sud della Francia con Roger Vadim e Jane Fonda, la sua cerchia comprendeva Orson Welles (che gli ha insegnato magia e ipnosi), Jean Cocteau (che lo ha aiutato a rinunciare alla cocaina), Federico Fellini (che ha basato il suo film più iconico su lui), Pablo Picasso, i Rolling Stones, Truman Capote, Willem de Kooning e Salvador Dali (che sosteneva che Ruspoli avesse "the biggest limousine in Europe", un chiaro eufemismo per tu-sai-cosa).

Il suo necrologio del Telegraph racconta che una volta Orson Welles gli chiese cosa gli sarebbe piaciuto vedere accadere. Guardandosi attorno nel locale, Ruspoli disse che nulla gli avrebbe fatto più piacere che la splendida donna al tavolo accanto lasciasse cadere il suo Bloody Mary sul davanti della sua camicia. Il bicchiere gli fece il favore.

Il senso dell'abbigliamento di Ruspoli era in anticipo di almeno un decennio. Come osserva il Guardian, quindici anni prima di Carnaby Street o del movimento hippy, Ruspoli si aggirava a piedi nudi o in pantaloni rosso brillante con mocassini abbinati. Venti anni prima del Punk, si tingeva i capelli a strisce colorate.

Un eccentrico ribelle, tranquillamente consapevole della propria immagine, veniva spesso visto (e notoriamente fotografato nel 1950 a Capri) con un corvo sulla spalla, come un pirata urbano (in seguito affermò che era ferito e che lo stava riportando al suo hotel per occuparsene).

Ha combinato un debole per yoga e trascendentalismo (tre tatuaggi in ricordo di un viaggio in Laos) con un amore permanente per le arti come mecenate del balletto e delle compagnie musicali. Si dilettò persino nella recitazione ed ebbe una piccola parte ne Il padrino III.

"Non hai mai lavorato?" gli chiese una volta una persona impertinente. "No", ribatté lui, "non ne ho mai avuto il tempo".

Troppo impegnato con le donne, forse. Agli occhi del collega playboy Taki Theodoracopoulos, Ruspoli era "l'uomo più bello del suo tempo". Tra gli affari e i "circhi sessuali" surrealisti di Dalì, il principe, come un salice piegato dalla tempesta, si sposò tre volte.

Il suo primo matrimonio, con l'aristocratica Francesca dei Baroni Blanc, crollò sotto le sue numerose infedeltà (lo stesso anno in cui si separarono, lui fu arrestato in Asia per possesso di oppio); un secondo matrimonio con la pittrice Nancy de Charbonnières ebbe un destino simile.

Ma ebbe più fortuna con Patricia Genest, una ex modella di trent’anni più giovane di lui, per la quale promise di rinunciare alle sue abitudini mondane e con la quale ebbe due figli.

Pur avendo detto di rinunciare alle sue abitudini, il principe si godette la vita fino all'ultimo secondo. La notte in cui Dado è morto, aveva organizzato una festa "per sostenere l'arte della danza": impartì un'istruzione esplicita: "per favore, non cancellate nulla".

Un'altra festa per seicento persone è andata avanti per ore dopo il suo funerale, un balletto tributo a Bach e Vivaldi - chiaramente ciò che Dado avrebbe voluto. "Sono un albero ancora pieno di frutti", diceva, "quando tutt’intorno a me vedo tante viti appassite".

Ed Cripps, The Rake, novembre 2016.








da Napoli, domenica 2 agosto 2020 alle ore 10:54:20
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Giampaolo Marseglia

Stento a crederci. Che se ne sia andato Dado Ruspoli è una notizia quasi anacronistica. È sempre stato eterno nella sua giovinezza di spirito e nella sua vita priva di declini. Conoscere Dado Ruspoli, partecipare con lui a qualsiasi cosa, anche una cena o un caffè, significava ritrovarsi con l’animo risollevato, tornare a casa fischiettando e sentirsi invasi dalla sua contagiosa gioia di vivere.

Non avrei mai voluto scrivere parlando della sua dipartita, perché l’ho sempre citato come esempio di incrollabile sfida al tempo, alle imposizioni, alla noia, alle stupidaggini ed a tutto quanto potesse annuvolare il nostro cielo. Bellissimo da giovane, nel fisico e nella sua eleganza (eleganza che lui dava a qualsiasi straccio indossasse e non l’inverso) rimase poi sempre fedele a se stesso e ancora bello per l’incredibile vitalità dei suoi occhi, per la sua curiosità, per la voglia costante ed incrollabile di sapere e di conoscere.

Pochi anni fa se ne andò con moglie e figlioletta in Messico, ospite di un amico, ed io gli diedi l’incarico di fotografare quella sua vacanza su una spiaggia da favola dove si affollavano tartarughe per deporre uova e dove nascevano tartarughini, credo si chiamasse Careyes il posto.

Lui allora adoperò sperimentalmente una macchina fotografica digitale e al ritorno mi diede una quantità di foto a bassissima risoluzione, inservibili per un servizio giornalistico, con foto di tartarughe, palme, case buffe con palme piantate alla rovescia e dipinte da un’artista, solo qualche scatto di se stesso e del suo amico avvolti in toghe come due antichi romani. Tipico di Dado. Per lui erano di primario interesse quegli aspetti del viaggio e non quello che piace ai redattori di un giornale, ossia le persone e la mondanità.

Chi era Dado? Tutto e di tutto. Poetava, scriveva, dipingeva, stupiva, amava…, viaggiava, leggeva ed ascoltava. Era un grande ascoltatore. Si aveva l’impressione che ci fosse sempre un punto interrogativo quando diceva qualcosa. Per offrire il commento successivo e saperne di più. La sua fame di sapere era sfrenata golosità. Vita e ancora vita. Amava le donne dandosi senza riserve ed amava tutto quanto gli appariva una novità.

Caro adorabile Dado! Capeggiò le cronache mondane degli anni 50 non tanto per protagonismo quanto per la sua personalità che faceva colpo ed istigava paparazzi, giornalisti e mondani. A Capri girava scalzo vestito come un pirata con pantaloni a mezza gamba e camicioni bianchi annodati davanti. Le turiste scattavano foto di quel personaggio, perché sembrava uscito da un film. Ma se poi gli si parlava arrivava la sorpresa: non era vulcanico, scandaloso, caciaroso ed esibizionista.

Era dolce, gentile, sensibile, garbato, involontariamente esibizionista perché fisicamente appariscente e davvero di una beltà straordinaria. Assolutamente diverso dai più. Unico. Carismatico. Non parlava mai male di nessuno. Non criticava. Non giudicava. Parlava dell’Oriente, di Budda e Confucio o di qualche poeta o filosofo orientale di sua recente scoperta. Consigliava libri, ascoltava musiche etniche per approfondire la sua conoscenza del mondo, frequentava artisti; pittori scultori, musicisti, registi, attori. Si lasciava ritrarre e decantare dai grandi artisti del suo tempo (Eleonor Fini, ma anche Gide e molti altri).

Durante un certo periodo si rese noto per la droga. Oppiomane. Lo confessava con candore. “Aiuta i viaggi della mia fantasia quando non viaggio di fatto…” sosteneva. E tutti glielo perdonavano, anche i magistrati. Un oceano lo divideva dal mondo dell’economia, della politica e dell’arrivismo. Non capiva semplicemente, e non accettava, i valori puramente pragmatici della vita. Costituivano un controsenso per lui che si affidava ad un fatalismo e ad una spiritualità senza frontiere. Dio, Allah, Budda, Odino, dei greci e romani ma anche idoli tribali, c’erano tutti nel suo bagaglio culturale-religioso.

Per alcuni decenni Dado ha ballato attraverso i suoi tempi, al ritmo di mambi, rumbe, tanghi e quant’altro. Faceva le ore piccole e stupiva per la sua resistenza e forza fisica. Incapace di offendere si lasciava però offendere senza alterarsi. Aveva risposte filosofiche per giustificare anche i suoi detrattori.

Ma sopra tutto e sotto tutto Dado era principalmente un gran signore. Nomade illustre, forte delle sue radici privilegiate di aristocratico romano, serbava della capitale lo spirito aperto e disponibile dell’impero che fu. Qualcuno lo fotografò e lo dipinse (non ricordo chi) come un’erma di imperatore romano. Era perfetto in quella versione. E naturalmente conosceva memoria i testi di Marco Aurelio. Lo sapeva citare ad hoc.

I soliti giornalisti gli chiedevano: “Perché non lavora?” e lui: “Non ho tempo per lavorare”. Ha usato i suoi beni materiali, li ha spesi e li ha goduti, ma non ha mai investito. Non ha perso alcunché in sbagliate fantasie economiche. Si riteneva privilegiato e non discuteva il privilegio. Lo sfruttava e basta, restando tranquillamente nei limiti del suo patrimonio. Non si è mai vantato, non si è mai seduto sulla sua corona. Era il primogenito dei Ruspoli ma nessuno lo sapeva, perché Dado non ne ha mai fatto questione lasciando al fratello minore Lillio lo scettro di quella pubblica immagine.

Ricordo infine di aver duettato con lui proprio per Roberto d’Agostino in un programma radiofonico. Anzi, accettai l’invito di Roberto perché sapevo della presenza di Dado. Ci divertimmo, allora, con risposte un po’ avventate, con teorie che ci accomunavano circa la nobiltà d’animo, che serve più di quella genealogica.

Non l’ho mai visto camminare lungo il viale del tramonto. Non esisteva per lui tale viale, ha messo al mondo due figli dopo i 70 anni, e penso non esista tuttora, anche se ha lasciato questa terra. Presumo sia andato a rallegrare l’animo di chi lo ha preceduto. Lasciandoci però privati della sua cara e dolcissima compagnia.

Mancherà a tanti. E comunque sia la sua personalità è storia del nostro costume. Possiedo un suo libro, ma non l’ho sottomano o ne avrei citato dei brani. Arrivederci Dado, ‘vaya con Dios’; non so dire altro, non ne sono all’altezza…

Olghina de Robilant, gennaio 2005.

da Napoli, domenica 2 agosto 2020 alle ore 11:07:03
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