«Bisogna morire molte volte per imparare a vivere» ripeteva don Alessandro Ruspoli, nono principe di Cerveteri e quattordicesimo conte di Vignanello, capo di una casata millenaria che fu per secoli colonna del potere papale, noto come Dado agli happy few che nel dopoguerra, dopo il buio della tragedia, colorirono di eccessi le cronache mondane tra vecchia Europa e Stati Uniti.
Dado è spirato ieri mattina a ottant'anni, consumato da un estenuante enfisema e da un tumore al fegato scoperto giorni fa. L'addio sarà in sintonia con l'uomo. Domani alle 12 funerali, da principe cattolico, nella basilica di San Lorenzo in Lucina. Alle 21 grande festa «per sostenere l'arte della danza» allo spazio Etoile, di fronte alla chiesa. L'invito firmato da Dado e da sua moglie Patricia con Anna Fendi è stato confermato ieri. L'ultimo desiderio dalla clinica: «Per favore, non cancellate nulla». E' la sua definitiva morte terrena dopo un'infinità di vite.
La prima è del Dado più noto alle masse, citato da "Totò, imperatore di Capri" col pappagallo sulla spalla. Ecco come andò, la parola allo stesso Dado che così lo raccontò a chi scrive: «Fu un equivoco. Stavo giocando a tennis e vidi per terra un corvo ferito, decisi di portarlo in albergo per curarlo, lo poggiai sulla spalla. Lungo Tragara incontrai un fotografo». Un flash e fu subito mito: «Finii sui giornali di mezzo mondo».
Era il 1950, dieci anni prima de "La dolce vita", e anche in quel Fellini c' è tanto di Dado. Giocò a tingersi i capelli a strisce (gialle, verdi, viola) quarant'anni prima dei punk. Ma ridurre Dado Ruspoli al corvo ferito e a Totò sarebbe l'ingenerosa amputazione di una personalità multiforme, curiosa degli ingegni quanto delle belle donne, solare ma venata di misticismo, controcorrente però rispettosa delle radici e delle istituzioni.
Da antico principe romano dava del tu a chi contava. A 17 anni provò la cocaina, per esempio, ma smise su suggerimento di un amico che si chiamava Jean Cocteau. Col tempo, e con quella sua ostinata curiosità intellettuale, diventò intimo di Salvador Dalí, Pablo Picasso, Curzio Malaparte, Jean Genet, Roman Polanski. A Parigi finanziò uno dei primi balletti di uno sconosciuto Roland Petit.
Frequentava abitualmente Leonor Fini, scandalosa pittrice bisessuale, e il raffinato Balthus. E poi Giancarlo Menotti, Federico Fellini, Marcello Mastroianni, Truman Capote, i Rolling Stones. Se affittava una casa in Costa Azzurra divideva le spese con Roger Vadim e Jane Fonda e alle loro spaghettate non mancavano mai Brigitte Bardot e Joan Collins.
Ancora Dado: «Ricordo Brigitte bellissima, mascherata da leopardo, ma sempre così sola "dentro", un male cupo che la perseguitava». Poi quel pianeta incantato si frantumò: «Piano piano vedemmo il mare popolato di barche piene di italiani ricchissimi, spesso autentici avventurieri, quindi urla, rumore, ostentazione. Era l' inizio della fine. Era cominciata l'era neovolgare».
Se Dado Ruspoli ha avuto una sua grandezza e certo l'ha avuta, è stato il suo essere l'opposto di ciò che nel jet set d'oggi certifica un successo: denaro, fama, spreco. Quando la fortuna avita scemò, col fratello Lillio vendette il piano nobile di palazzo Ruspoli dopo mezzo millennio di proprietà familiare, roba progettata dall'Ammannati e affrescata da Jacopo Zucchi.
Si ritirò nell'altana, con ironico e signorile distacco. Quarant'anni fa si perse per mesi tra il Nepal, la Thailandia del Nord, la Birmania. Sprofondò nell'oppio, sempre per quella sua vorace curiosità. Ne riemerse. Recitò anche, e benissimo, grazie a un talento nutrito di indicibile classe.
Al cinema lavorò per Marco Ferreri, era il vecchio amante della vecchia Ingrid Thulin ne "La casa del sorriso", storia d' amore tra anziani premiata a Berlino. In teatro fu un indimenticato Firs, maggiordomo cecoviano ne "Il giardino dei ciliegi", regia di Antonello Aglioti, negli anni dell'avanguardia romana.
La più recente vita di Dado svela l'affettuoso padre di due figli piccolissimi (Mathilde Melusina, 11 anni, e Teodoro, 7) avuti dall'ultima moglie Patricia, splendida ex modella francese più giovane di lui di trent'anni. Li guardava e mostrava i tatuaggi disegnatigli sul braccio dai Bonzi: «Una vita e una morte, poi un' altra vita e un' altra morte, è la regola».
Aveva preso a scrivere poesie, come suo padre don Francesco, noto letterato vernacolare. Fino a poche settimane fa ancora ammirava le mille, radiose bellezze che ogni giorno risplendono nel centro di Roma. Ormai respirava grazie a una bombola d'ossigeno che portava lievemente con sé. Se scrutava le ragazze e incrociavi il suo sguardo, sospirava: «Certe meraviglie ti rimettono al mondo». Poi toccava i tubicini di plastica nel naso. E rideva: «Si fa per dire». Verrà sepolto a Vignanello.
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