La Marchesa Luisa Casati (2)

Seduzione - Muse

Giampaolo Marseglia

da Napoli, sabato 19 settembre 2020 alle ore 23:06:59

Nel biennio 1919-1920 Luisa Casati va nell'isola di Capri, che le piace così tanto da decidere di stabilirvisi per un po’. Roger Peyrefitte descrive così il suo arrivo:

“I capresi ostentavano di non stupirsi di nulla, ma non avevano mai assistito ad uno spettacolo simile. La marchesa, alta e snella, portava un cappello da astrologo dal quale ricadevano veli che la avviluppavano. Il viso era impiastrato come quello di un pierrot (…) Dalle orecchie dondolavano campanellini e il trucco le colava a rivoli sulle scarpe impolverate. Teneva fra le mani una sfera di cristallo, per rinfrescarle. Una domestica portava un arbusto di ferro battuto, carico di granate dipinte di vermiglio, con un’etichetta che diceva trattarsi di un regalo di D’Annunzio. Un negro teneva al guinzaglio due levrieri incipriati di cipria color malva e un leopardo; un heiduque sorvegliava le gabbie che contenevano un boa, alcuni pappagalli e un gufo. Un numero incalcolabile di valigie e bauli erano accatastati sulle carrozzelle.”




Il celebre medico Axel Munthe vive a Capri, nella Torre Materita, ma possiede anche una villa stupenda a San Michele, che affitta agli amici. Axel aveva conosciuto Luisa a Parigi, in maniera sconsiderata aveva acconsentito ad affittarle la sua casa, poi, spaventato dalla sua nomea, le aveva scritto un telegramma per declinare l’accordo.

Lei arriva di fronte a casa sua con la sua montagna di valigie. Nel corso della giornata Axel Munthe riceve prima il custode, poi la cameriera della Casati, infine il direttore dell’Hotel Paradiso, tutti fuori di sé per le sfuriate della Marchesa, che lo supplicano di farla soggiornare nella villa almeno per la notte. Il direttore in particolare, che aveva perso la suocera quel giorno, lo fa commuovere, e Munthe accorda il permesso richiesto, a patto che le valigie siano lasciate fuori dalla sua proprietà.

Quando il giorno dopo Munthe va a controllare, delle valigie nel cortile non c’è più nessuna traccia. Come un vampiro invitato ad entrare, la Marchesa gli ha squattato casa, supportata dai suoi avvocati che avevano ritenuto legalmente valido il primo accordo scritto e soprattutto il permesso dato dal Munthe la sera prima.

La Marchesa rimane per un bel pezzo. Incupisce la villa, concepita dal proprietario come un tempio classico pieno di sole, brezza e rumore marino. Inchioda la pelle di una pecora nera al muro di una sala destinata alle sedute spiritiche.




Tutti gli abitanti di Capri sono convinti che la Marchesa faccia celebrare delle messe nere a San Michele. Luisa alimenta le dicerie girando tutta vestita di nero con serpenti vivi a farle da gioielli. La Marchesa esce di casa solo per andare a fumare l’oppio alla villa del noto omosessuale Jacques d’Adelsward-Fersen. Lui possiede oppio della migliore qualità, e insieme ne fumano ingenti quantitativi nella saletta cinese. Condividono anche la passione per l’esoterismo.

Lo spiritismo è molto di moda fra l’élite a cavallo fra Diciannovesimo e Ventesimo secolo. La Marchesa Luisa Casati trasforma questa moda in una mania che la accompagnerà fino alla fine dei suoi giorni, essendo perfettamente funzionale alla sua immagine da vamp. Il trend dei grimori, dei simboli esoterici e della geometria sacra abbonda anche fra le fila dei minimal goth contemporanei, che hanno avuto in Luisa un’illustre precedente.

La Marchesa ospita assiduamente per mesi chiromanti e stregoni a casa sua ed ha un’enorme collezione di libri di magia, alcuni dei quali rilegati in pelle umana. Condivide l’hobby della magia con D’Annunzio, tanto che nel giugno del 1915 vanno insieme a mezzanotte sull’Appia Antica e cercano insieme di evocare gli spettri degli antichi guerrieri romani.

Mentre sta a Capri, per sbalordire i suoi ospiti la Marchesa fa costruire un sistema automatizzato di ventagli nascosti nella loggia di San Michele e una luna artificiale manovrata dai suoi servi in giardino, per far credere a tutti di possedere il potere di comandare gli elementi della natura.

Per un certo periodo a Luisa viene anche la fissa di conoscere Aleister Crowley, che nel 1920 aveva fondato l’abbazia dei Thelemiti a Cefalù. Ma poi desiste, forse perché Crowley faceva rituali più seri delle sue performance teatrali da salotto snob. I due si incontreranno a Londra, una ventina di anni dopo, e litigheranno furiosamente ad un cocktail di Lord Tredegal, il pari più ricco del regno.

Nel suo periodo parigino, Luisa chiama l’arcivescovo Dubois, che aveva tuonato contro le stravaganze dei ricchi, perché dice di avere bisogno di un esorcismo. Lui ha la polmonite, declina l’invito, ma lei, con la sua solita abilità di manipolatrice, gli fa sapere di essere in punto di morte e di aver bisogno dell’estrema unzione. Quindi l’arcivescovo è costretto ad andare, la benedice per un totale di cinque minuti, dopodichè se ne torna a casa a letto. Due giorni dopo muore, a causa delle complicazioni della polmonite.

Dopo questa vicenda Parigi viene investita da un tornado di pettegolezzi. Il nostro preferito narra che l’arcivescovo fosse morto sul colpo vedendosi venire in contro la Marchesa di bianco vestita, circondata da quattro servi nudi, con un giglio in grembo e un pappagallo bianco sulla spalla ad interpretare lo Spirito Santo, mentre ripeteva salmodiando in stato di trance: “Je suis la Vierge immaculée”.

Durante il suo ultimo periodo di vita in Inghilterra, Luisa Casati va a messa ma continua anche a fare costantemente le sedute spiritiche, che paga con i residui del suo vestito da contessa Castiglione. Consulta la tavoletta Ouija e spende i pochi soldi che riesce a racimolare per comprare costoso incenso di muschio indiano e sfere di cristallo.

Per buona parte della sua vita, Luisa Casati ha l’ossessione dei simulacri, che va a braccetto con il suo piacere necrofilo per le cose macabre. Ad esempio fa una cena surrealista, i cui invitati sono il suo fotografo cocainomane De Meyer e un manichino di cera a grandezza naturale, che a quanto pare conteneva le ceneri di un suo ex amante.

Oltre a quello della cena con De Meyer, Luisa si procura un manichino di cera iperreale di Maria Vetsera, l’amante adolescente di Rodolfo d’Asburgo, che era morta assieme al re in un omicidio-suicidio dettato dalla natura impossibile del loro amore, in un fatto di cronaca celeberrimo all’epoca. La copia in cera perfetta era stata fatta fare da un erotomane viennese poco dopo i fatti di Mayerling.

Poi la Casati si fa fare una statua di cera di se stessa, con enormi occhi di vetro verde e una parrucca rossa fatta con i suoi capelli. Lei e il suo doppio si mettono vestiti identici come se fossero sorelle gemelle. Una volta ad una cena Luisa fa impazzire un suo ospite perché rimane immobile per tutto il tempo di fianco alla sua gemella finta. D’Annunzio dedica un delirante racconto erotico a questa Real Doll con le fattezze della sua amante.




L’ultima grande follia di Luisa Casati è l’acquisto di un palazzo satellite di Versailles, il Palais Rose, precedentemente appartenuto al conte de Montesquiou, dove vivrà il suo ultimo periodo di vita inimitabile. La Marchesa lo svuota di tutti i ricchissimi ninnoli del precedente inquilino, lasciando come colori dominanti i soliti, la bicromia bianca e nera abbinata all’oro, con pellicce di leopardo e tigre a fare ovunque da tappeti. Si fa fare una pantera meccanica imbalsamata da un tassidermista, che ringhia, muove la testa e la coda e gli occhi verdi. L’Ermitage diventa il padiglione per i ritratti della padrona di casa, che nel 1923 sono più di centotrenta. Ci tiene anche tutti i volumi rilegati in oro di negromanzia.

Nel suo periodo parigino, Luisa frequenta l’esule Yussupov, che aveva elaborato l’assassinio di Rasputin ed era sfuggito alla Rivoluzione d’Ottobre portando con sé una fortuna. Yussupov aveva aperto negozi di abbigliamento nelle capitali europee e, nonostante il matrimonio con una nipote del defunto zar, era omosessuale ed amava il travestitismo.

In questo periodo Luisa Casati si stufa di René Lalique e diventa cliente di Cartier. Frequenta l’atelier di Elsa Schiapparelli in Place Vendome e i conti Beaumont, famosi per le loro incredibili feste annuali in Rue Masseran, che si tengono dall’inizio degli anni Venti fino al 1949. È lì, nel 1922, che Luisa sfoggia il vestito da Regina della Notte disegnato da Léon Bakst. L’abito viene realizzato da Worth, per la cifra di ventimila franchi.




A parte i balli dei Beaumont, in questo periodo la Marchesa inizia ad annoiarsi, a soffrire di solitudine. Il Palais Rose la fa vivere isolata, e quando organizza serate, ormai non ha più abbastanza persone da invitare. La frequentano principalmente dei rifugiati russi, a cui sembra di rivivere i fasti demodé di prima della rivoluzione. Luisa gira per le campagne in Rolls Royce oppure si svaga con oppio e assenzio. Ormai la belladonna le ha fatto diventare gli occhi rossi come i capelli.

Nel ‘23 va a trovare per la prima volta D’Annunzio al Vittoriale, il mausoleo dove si è rinchiuso dal 1919, mantenuto dagli assegni del Duce che fa di tutto per tenerselo fuori dai piedi. Luisa gli porta in dono un anello appartenuto a Lord Byron. Fra loro due si riaccende la passione di un tempo. Luisa gli fa recapitare una tartaruga dallo zoo di Hagenbeck ad Amburgo. Va in collera quando scopre che lui l’ha chiamata Carolina, un nome che reputa insulso, quindi lui la blandisce dicendo che il nome ufficiale è Cheli, mentre Carolina è la storpiatura popolare usata dai servi.

Nel 1924 Luisa divorzia ufficialmente, mantenendo però il cognome del marito che ormai era il marchio della sua notorietà.

Luisa Casati è celebre per aver lavorato ossessivamente sulla propria immagine, servendosi di vestiti e trucchi stupefacenti, della creazione di fondali e situazioni incredibili all’interno delle quali presentarsi agli astanti, ma anche curando al massimo la duplicazione della propria immagine.

Per questo Luisa Casati ha sempre cercato la compagnia degli artisti, di diverse generazioni, scuole e tecniche. Spesso è stata una mecenate tirannica ed ossessiva, ma è riuscita ad ottenere il proprio scopo: si dice che Luisa Casati sia il soggetto femminile più rappresentato nell’arte occidentale dopo la Madonna.

Adolph de Meyer, assieme ad Edward Steichen, negli anni Venti diventa il fotografo più pagato al mondo. Luisa ama frequentarlo all’inizio degli anni Dieci, anche per la sua eccentricità: Adolph de Meyer e sua moglie Olga sono cocainomani ed assolutamente inseparabili, nonostante siano entrambi omosessuali. De Meyer le fa due ritratti che evidenziano i suoi occhi dalle pupille baudeleriane, la sua aura gotica e le sue chilometriche collane di perle. D’Annunzio terrà questa foto con dedica appesa sul letto fino alla morte.




Alberto Martini è considerato il pittore di corte per eccellenza della Marchesa. La ritrae in un’opera che ha come tema la metempsicosi, mentre diventa una farfalla, in un pastello alto quasi tre metri. Martini racconta che la sua modella e mecenate un giorno si vedeva Gorgone, il giorno dopo leonessa, il giorno dopo ancora fenice. Durante le sedute di posa si osserva attraverso i molti specchi.




L’opera va a finire alla Biennale di Venezia del 1914, pochi mesi prima dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, assieme alla scultura acuminata di Troubetzkoy che la raffigura mentre accarezza uno dei suoi levrieri.




Montenegro la ritrae in stile Beardsley con un melagrano in mano e un costume persiano di Poiret.




Lotte Pritzel realizza una bambola Casati in versione Madonna, discinta ed estatica, mentre porge una sfera di cristallo.Un altro artista che conosce in questo periodo è Alastair, nome d’arte del Barone Hans Henning Otto Harry Baron von Voigt.




I Futuristi escono con il loro Manifesto nel 1909, e fra loro e la Marchesa c’è molto feeling. Marinetti regala a Luisa Casati un suo ritratto fatto da Carlo Carrà con questa dedica “Do il mio ritratto dipinto da Carrà alla grande futurista marchesa Casati e ai suoi occhi lenti di giaguaro che digerisce al sole la gabbia d’acciaio divorata.” Luisa aveva dimostrato di essere una Futurista eccellente fin da quando aveva vent’anni all’inizio del Novecento, con la sua passione per la velocità, sia di cavalli che di automobili.

Dopo il ritratto in nero, Luisa tormenta Boldini per averne degli altri, ma lui, per quanto la ami follemente, non vuole diventare un suo pittore di corte. Nel 1911 lui ne inizia uno, che modifica in continuazione, in cui Luisa compare in un florilegio di piume di pavone, che rappresentano la sua natura narcisistica.




La Casati sopravvive iconicamente anche all’immane disastro della Grande Guerra, che spazza via la Belle Epoque e tutte le sue dive. Lo fa accompagnandosi e facendosi ritrarre da artisti all’avanguardia, imparentati col Fauvismo, come Kees Van Dongen, che le fa sei ritratti. Fra una cosa e l’altra diventano amanti, e lui la chiama “la strega nuda”.




In questo stesso periodo conosce Victor Adolf Mossa e si fa fare uno dei ritratti più mortiferi.




Nel 1919 Luisa Casati incontra Augustus John, destinato a farle uno dei suoi ritratti migliori e a diventare il suo amante. Augustus ha un appetito sessuale priapesco ed è un traveller ante litteram. Entusiasta dello stile di vita degli zingari, compra un carro e si mette a girare per le campagne inglesi. Della Casati, incontrata a una festa, nota subito il carisma e la perfidia nel descrivere le caratteristiche ridicole dei suoi amici.

 



Nel periodo di Capri, Romaine Brooks acconsente di malavoglia a farle un ritratto. Dopo l’iniziale apprezzamento della sua intelligenza, Romaine inizia ben presto ad odiarla, perché aveva monopolizzato il suo tempo, non solo con le sedute di posa, ma anche portandola in giro a fare shopping selvaggio. “La Casati vive in un mondo che è l’opposto esatto dell’amore, non riesce ad affrontare l’immateriale. Ha una mente infantile…”

La Brooks odia il ritratto, ma non se ne separa mai. Lo troveranno arrotolato sotto il suo letto di morte.




All’inizio degli anni Venti parte il sodalizio artistico con Man Ray, che dal 1921 si era stabilito a Parigi. Durante la loro seduta di posa salta la corrente, di conseguenza le pose si allungano ed esigono una prolungata immobilità. Man Ray ricorda che nonostante ciò Luisa si muoveva come “se stessi girando un film”. Le foto vengono mosse, Man Ray le reputa inutilizzabili, ma la Marchesa insiste per averne qualcuna. La foto in cui ha tre occhi diventa una delle sue rappresentazioni più famose e regala anche fama e gloria a Man Ray, con ricche commissioni presso Harper’s Bazaar e Vogue.




Durante gli anni della guerra fa amicizia con Cecil Beaton, grande ritrattista del glamour hollywoodiano classico di Marlene Dietrich, Greta Garbo ed Audrey Hepburn, che farà alla Marchesa le sue ultime foto, all’età di settantatré anni. Ma ormai Luisa ha perso il controllo della propria immagine e, in un celebre scatto fatto di nascosto da Beaton, solleva una mano per schermare dall’obbiettivo il proprio volto invecchiato. Nonostante avessero concordato insieme di distruggerle, Cecil Beaton pubblicherà ugualmente le foto, causando un dissidio insanabile con la Marchesa, che lo metterà in cima alle sue liste di persone detestate, facendogli anche delle fatture di morte.






L’ultimo artista con cui la Marchesa farà amicizia, poco prima di morire negli anni Cinquanta, è Joseph Rous Paget-Fredericks, che le farà dei ritratti elegantissimi riferendosi alla sua immagine di decenni prima.




Durante la sua vita, Luisa Casati viaggia molto perché è alla costante ricerca di un pubblico, come una star in tournée. Fa decollare il mito di Saint Moritz. Terrorizza principi e riesce a far venire lì D’Annunzio, nonostante lui all’epoca abbia un’altra amante.

All’inizio del 1919, dopo la morte di sua sorella Francesca, Luisa fa un viaggio molto lungo, va in Polonia, a Lancut, poi in Francia, Ungheria, Scozia, a Londra. Viaggia anche attraverso territori esotici come l’India.

Senza Luisa Casati non ci sarebbero state le rockstar che terrorizzano i direttori degli alberghi di lusso. Luisa non distrugge le stanze dell’Hotel du Rin e del Ritz in stile The Who, ma in stile Casati, ri-arredandole con pellicce di leopardo e tigre, oggetti di giada ed alabastro e gabbie con uccelli meccanici, che sono una delle declinazioni della sua passione per i simulacri. Nel 1908 è già nota con il soprannome di “Medusa degli alberghi di lusso”.

Quando al Ritz c’è Olivier Dabescat che fa il direttore, Luisa arriva con un numero incalcolabile di valigie e bauli e un serraglio di animali, da nutrire ed accudire quando lei non c’è, che comprendono boa e leopardi. Vuole la colazione all’ora del tè e guai a non essere a disposizione di tutti i suoi capricci.




Uno dei suoi ultimi viaggi da favola è quello che fa in America a metà degli anni Venti, durante il quale va a trovare celebrità del calibro di William Randolph Hearst (il cittadino Kane di Quarto Potere) e John Barrymore. In America tutti la riveriscono e la seguono ovunque come se fosse una diva del muto.

Intorno alla metà degli anni Venti, tutti gli amici che Luisa Casati aveva frequentato nei suoi periodi d’oro fra Venezia e Parigi iniziano a morire. Il costumista Bakst muore nel 1924, Isadora Duncan nel 1927, Diaghilev dei Balletti Russi nel 1928. Nijinsky viene rinchiuso in manicomio. Il suo commercialista le fa sapere che i suoi conti stanno andando a tutta birra verso il tracollo. Anche Cheli, la tartaruga che Luisa aveva regalato a D’Annunzio, muore per un’indigestione di tuberose. D’Annunzio le fa fare una gittata d’oro su tutto il corpo, trasformandola in una statua. Un giardiniere muore al Palais Rose di Parigi e il suo corpo viene scoperto dopo che i pappagalli gli hanno beccato via gli occhi.




Ma la decadenza vera inizia quando Luisa inizia a vendere. Vende il suo ritratto di Boldini, le sue gazzelle d’oro che aveva dai tempi dei primi esperimenti d’arredamento con la villa di Roma, che vanno a Coco Chanel. Baratta gioielli inestimabili con cose che non valgono nulla solo perché le vuole e non ha i soldi per comprarle.

Poi i suoi creditori la denunciano e tutto quello che c’è al Palais Rose va all’asta. Luisa ha cinquant’anni, trecentomila franchi di debiti in Francia e venti miliardi di lire di debiti in Italia, corrispondenti più o meno a venticinque milioni di euro odierni.

Fra gli oggetti andati all’asta citiamo “duecento libri rilegati in cuoio marocchino con lo stemma dei Casati in oro, un set di torce di cristallo di Lalique, un abito di broccato persiano di Worth, sei paia di scarpe oro e argento fatte a mano da Hellstern in Place Vendome, una pelliccia di pantera, sei abiti da sera con lo strascico, un paio di guanti di pelle di tigre, un paio di ciabatte con fibbie di diamanti, un mantello di piume di struzzo rosa e un ventaglio, quindici costumi eleganti di cui uno di broccato e diamanti, tutti gli oggetti appartenuti alla contessa Castiglione, e tutte le opere d’arte che raffigurano la Marchesa.” Il Palais Rose viene ipotecato.

In un primo tempo, Luisa viene ospitata in vari Grand Hotel, mantenuta dai suoi amici ricchi. Nel ’36 è ospite del principe di Borbone e del suo amante nel loro palazzo all’isola della Giudecca, i cui custodi sono il suo vecchio gondoliere Basaldella e la moglie Italia, per il cui matrimonio la Marchesa si era adoperata moltissimo nel periodo d’oro veneziano, più di vent’anni prima.

All’epoca Luisa aveva scritto innumerevoli lettere barocche alla famiglia di Italia Paoluzzi, di classe più altolocata rispetto al suo pretendente, per descrivere le virtù di Basaldella. Il gondoliere sarà una delle poche persone che andrà al suo funerale. Italia la tiene d’occhio perché gli amici del Borbone hanno il vizio della cocaina.




Intorno ai sessant’anni, Luisa Casati, completamente rovinata, va a vivere a Londra. Inizialmente viene accolta dalla sua vecchia fiamma Augustus John. Frequenta vecchi nobili in stile Viale del Tramonto e ha un devoto italiano, Vittorio Scarpa, che le fa da maggiordomo ed autista, anche se spesso lei non lo paga. Gira con una muta di cinque pechinesi e a Natale prepara per loro un albero decorato con dolcetti e ossi.

Luisa dimostra comunque meno dei suoi sessant’anni ed impedisce alla nipote Moorea di dire che sono parenti. I suoi amici ricchi le aprono un conto in banca perché abbia di che sopravvivere, versano tutti da una a cinque sterline la settimana, perché altrimenti lei spenderebbe tutto in cose inutili.

Ma Luisa non si lamenta mai, è sempre ottimista. Si dice che nei quasi vent’anni che ha vissuto a Londra la Casati abbia cambiato quindici case. Lord Arlington la invita sempre per i weekend fuori città, e sua figlia Mary Anna Marten la ricorda come favolosa: “Sarebbe scorretto pensare che fosse una donna volgare solo perché amava essere appariscente. Non c’era un briciolo di volgarità in lei. La Casati fu l’ultima del suo genere”.

A Londra la Casati sopravvive nutrendosi di whisky e champagne. Si droga non si sa bene di cosa, sicuramente alcol, forse anche oppio e cocaina. In ogni caso è simpatica finché ne dura l’effetto, poi diventa cattiva. Indossa sempre lo stesso vestito liso di velluto nero. Ha un’infermiera pagata dalla nipote che la assiste quotidianamente, che l’aiuta a tingersi i capelli di rosso e a mettersi le gocce di belladonna fino alla fine dei suoi giorni.

“Quando Luisa Casati camminava per le strade di Londra, ci voleva tutta la dignità degli inglesi, che erano abituati a non farsi impressionare da niente, per non rimanere a bocca aperta alla vista di questo fantasma vestito di un completo consunto di velluto, pelle e pezzi di pantera.”

L’ultima casa di Luisa Casati è un monolocale al numero 32 di Beaufort Gardens, dove quello che le resta dell’antico splendore è composto da una vecchia vasca da bagno, un divano di crine di cavallo, una maschera di Pericle sul caminetto ed una testa di leone impagliata. La Marchesa passa il tempo dedicandosi allo spiritismo, facendo dei collage su tre album rilegati, e stillando liste: persone famose che ha conosciuto, gente che odia e liste di artisti che l’hanno ritratta.

Nel 1957 Luisa smette di scrivere lettere perché è convinta di poter comunicare telepaticamente, crede che gli uccelli che volano intorno a casa sua siano gli spiriti dei morti, e che lei sia in grado di capirne il linguaggio. Quando i suoi pechinesi muoiono, li fa imbalsamare.

Luisa Casati segue i suoi amati cani all’età di settantasei anni, il primo giugno del 1957, dopo una seduta spiritica. La causa del decesso è emorragia cerebrale. Viene sepolta con un nuovo paio di ciglia finte, il suo vestito di velluto e leopardo che portava da dieci anni e uno dei suoi pechinesi imbalsamati acciambellato ai piedi.

Sulla lapide del Brompton Cemetery l’epitaffio, deciso dalla nipote Moorea, recita: “Age cannot wither her, nor custom stale her infinite variety”. È un verso preso dalla tragedia shakesperiana "Antonio e Cleopatra", la cui traduzione è: “L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere insipida la sua infinita varietà”.




In conclusione, Luisa Casati rimane un personaggio perlopiù indecifrabile. Indubbiamente era “intelligentissima”, come la definirono sia Depero che il pianista polacco Arthur Rubinstein, applicando il superlativo ad un aggettivo che gli uomini riferiscono con somma parsimonia alle donne.

Nel corso della sua vita, Luisa Casati ha scelto deliberatamente di essere un’icona, un personaggio di cui esiste solo la superficie, il contorno. A questo scopo, ha riservato una cura maniacale alla propria immagine, ma raramente si è espressa.

Inafferrabile, impenetrabile, silenziosa, metamorfica, la Marchesa non ha lasciato quasi nulla di scritto. Non ci sono diari di Luisa Casati, e poche sono le sue dichiarazioni, tra le quali è importante quella rilasciata al San Francisco Chronicle, durante il suo ultimo viaggio in America: “Essere diversi significa essere soli. Non amo ciò che è ordinario. Quindi sono sola”.


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Giampaolo Marseglia

Un sogno di maschere: Luisa Casati negli onirici ritratti di Alberto Martini


“Chi vive nel sogno è un essere superiore, chi vive nella realtà un essere infelice”. Sono le parole di Alberto Martini (Oderzo, 1876 - Milano, 1954), artista tra i protagonisti della Belle Époque, oltre che tra i nomi più sottovalutati dell’arte italiana di primo Novecento.

Artista eclettico, eccentrico, sorprendente, misterioso, aveva scritto questa frase, nella sua autobiografia, anzitutto per riferirsi a se stesso, dal momento che nel suo racconto leggiamo qualcosa come “la mia vita è un sogno a occhi aperti”. Ma con tutta probabilità si riferiva anche ai personaggi, fuori dagli schemi come lui, di cui amava circondarsi.

Tra questi figurava Luisa Casati Stampa (nata Luisa Adele Rosa Maria Amman; Milano, 1881 - Londra, 1957), la femme fatale per eccellenza, la donna simbolo del decadentismo, la “divina marchesa”, com’ebbe a chiamarla Gabriele d’Annunzio (Pescara, 1863 - Gardone Riviera, 1938), col quale ebbe una relazione.

Nata da una famiglia di ricchi industriali lombardi, di temperamento timido e introverso, si ritrovò orfana di entrambi i genitori a soli quindici anni, e si chiuse ancor di più in sé stessa, preferendo la compagnia dei suoi disegni e delle sue fantasticherie sulla magia e sull’esoterismo cui aveva cominciato a interessarsi sin da ragazzina.

Poi, a diciannove anni, il matrimonio con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino, di appena due anni più grande di lei, aristocratico, col quale cominciò a frequentare l’alta società della Milano del suo tempo. E fu proprio durante questi incontri che cominciò a mutare il proprio carattere e ad avvicinarsi agli artisti e ai letterati che frequentavano i salotti della Milano d’inizio Novecento.

Alberto Martini fu uno degli artisti ai quali Luisa Casati si legò di più. Lo incontrò con tutta probabilità nel 1904: da una decina d’anni, il pittore e incisore veneto aveva avviato una fortunata carriera d’illustratore, e si era dedicato soprattutto all’illustrazione di grandi capolavori della letteratura (si ricordano in particolare i suoi disegni per la Commedia di Dante, cominciati nel 1901).

Aveva già esposto, per ben quattro volte, alla Biennale di Venezia, i suoi disegni erano stati portati in diverse mostre in giro per l’Europa, e nel 1904 era reduce dal successo che una sua mostra aveva ottenuto a Londra. Fu allora che l’artista decise di trasferirsi a Milano.

E probabilmente Luisa Casati aveva sentito parlare di lui per tramite di Gabriele d’Annunzio, che aveva conosciuto in quello stesso periodo, forse durante una delle regolari battute di caccia che il marchese Casati Stampa dava nelle sue tenute attorno Gallarate.

D’Annunzio e Martini erano accomunati dalla stessa passione per l’erotismo, per l’insolito, per la letteratura, e il poeta, appena conosciute le sue opere, non ebbe difficoltà a capire il loro valore. Per lui, l’artista veneto era l’“Alberto Martini de’ Misteri”, com’ebbe a chiamarlo in una lettera inviata a Vittorio Pica.

E non solo: c’è anche una certa dimensione magica che accomuna i due artisti e che vede al centro proprio la divina marchesa. “Se in D’Annunzio”, ebbe a scrivere il critico letterario Ferruccio Ulivi, “un coté magico-esoterico-surrealista era accuratamente gestito al margine di un’abbacinante impresa letterario spettacolare, la Casati, che gli fu amica, ne fu in qualche modo la controfigura profana”.

Ed è forse per questa ragione che Luisa Casati divenne la musa perfetta per Alberto Martini. In un suo articolo per La Tribuna, D’Annunzio aveva scritto che “soltanto alla musica è oggi dato esprimere i sogni che nascono nelle profondità della malinconia moderna, i pensieri indefiniti, i desiderii senza limiti, le ansie senza causa, le disperazioni inconsolabili, tutti i turbamenti più oscuri e più angosciosi che noi abbiamo ereditato dagli Obermann, dai René, dai Jocelyn, dai Guérin, dagli Amiel e che trasmetteremo ai nostri successori”. Questa evocatività potrebbe descrivere pienamente anche l’arte di Alberto Martini e la vita stessa di Luisa Casati.

In quegli anni, Martini stava attraversando una fase della sua produzione che Giovanni Papini avrebbe reso con la coppia d’aggettivi “erotico-fantastica”. Gli stessi che potrebbero descrivere il primo ritratto che l’artista eseguì delle marchesa.

Era il 1906, e da qualche tempo Luisa Casati soggiornava a Venezia, dove si sarebbe poi trasferita nel 1910, quando acquistò Palazzo Venier dei Leoni, la stessa residenza che poi fu di Peggy Guggenheim e che oggi accoglie il museo che ospita la raccolta della grande collezionista statunitense.

La passione per Venezia le era stata trasmessa da Gabriele d’Annunzio, e la città divenne prestò una sorta di palcoscenico in cui la marchesa amava esibirsi. Soprattutto di notte, soprattutto in piazza San Marco. L’ambientazione che Martini scelse per la sua splendida litografia, che ci restituisce un ritratto esatto di come la marchesa voleva apparire.

Elegante, misteriosa, seducente, indipendente, quasi inquietante. La vediamo mentre incede, in un vestito attillato che accentua le sue forme sottilissime (e studiate: la sua vistosa magrezza, che s’univa a un’altezza fuori dal comune, era considerata un difetto secondo i canoni di bellezza del tempo, e poco appropriata per una donna: anche la sua fisicità incarna dunque la sua libertà), con un ossuto pechinese, di notte, in una Venezia spettrale.

Solitaria, cammina sulla riva degli Schiavoni in direzione San Marco, con sullo sfondo l’isola di San Giorgio, alcune gondole sul bacino di San Marco, e in lontananza una zattera con le vele consunte, che par quasi condotta da fantasmi. “Molto alta, molto magra, con la faccia divorata dagli occhi enormi bistrati”, scrive ancora Ulivi, “era arrivata a personificare in tutto e per tutto un repertorio decadente tra ‘nero’ e stregato, da Khnopff a von Stuck, da van Dongen a Klimt”. Anche per la straordinarietà della sua figura, gli artisti avrebbero fatto di tutto per ritrarla, e non si contano i pittori e gli scultori che la elessero a loro modella.




Il primo ritratto eseguito da Martini è una specie di dichiarazione, rende con eccezionale efficacia l’immagine che Luisa Casati voleva dare di sé. Ed è interessante notare come l’artista non eseguì solo ritratti in immagine della marchesa: ebbe modo di parlare di lei anche nei suoi scritti.

In un passaggio, per esempio, ne scrive in questi termini: “la marchesa viveva in parte come schiava del suo mondo dei sogni. Aveva due vizi: il suo palazzo e i suoi circoli aristocratici. Le servivano come palcoscenico dove ognuno poteva essere attore, ma quando entrava lei, tutti diventavano automaticamente spettatori o elementi aggiuntivi”.

L’elemento che divide Martini da molti altri artisti che eseguirono ritratti di Luisa Casati (celebre su tutti è quello con i suoi cani realizzato da Giovanni Boldini) consiste nel fatto che il pittore di Oderzo era dotato d’un immaginario onirico fuori dal comune.

E dal momento che anche la marchesa era “schiava del suo mondo dei sogni”, forse nessun altro artista ha saputo meglio penetrare questo mondo.

Nella realtà, i sogni della marchesa prendevano la forma di travestimenti, di costumi eccentrici, di animali esotici, di festini in maschera, di passeggiate nel pieno della notte in una Venezia silenziosa, una delle quali sarebbe stata descritta da un’insospettabile Margherita Sarfatti: “Due notti prima, dopo il festino persiano della marchesa Luisa Casati, piazza San Marco tacita, tra rosea e grigia nelle luci dell’alba, si era desta a un prodigioso sogno di maschere; in testa a tutti la marchesa, col pappagallo sul pugno, nell’acconciatura di principessa fiabesca ideata dal Bakst per quella inventrice di squisitezze. Mai Carpaccio, mai Paolo Veronese o Gentile Bellini avevan raffigurato più splendida comitiva nelle calli e per i canali già iridati di millenni grandezze”.

Il temperamento decadente di Alberto Martini volle serbare memoria di questa femminilità eccentrica e fuori dall’ordinario, e negli anni che precedettero la prima guerra mondiale, l’artista eseguì alcuni ritratti della marchesa che la ritraevano col corpo che subiva mutazioni, con lei che si trasforma in una farfalla e vola sopra ai canali di Venezia, come accade in Un lent réveil après bien de métempsychoses (titolo preso a prestito da una lirica di Verlaine) o in Diamante - Farfalla della notte.

Esattamente come la farfalla, la marchesa voleva incarnare le sembianze di un essere dalla natura ibrida, e come la farfalla, Luisa Casati sapeva essere leggiadra, femminile, frivola. Ma c’era anche una riflessione sulla caducità dell’esistenza, data anche la vita effimera della farfalla: è quel confine tra la vita e la morte che anima l’estetica decadente.

Questi ritratti avrebbero mosso l’attenzione del summenzionato Vittorio Pica: “evocando su di un pittoresco sfondo di Venezia notturna, la persona alta e snella ed il volto intensamente espressivo della marchesa Luisa Casati, ha fatto di lei, cedendo ad un capriccio della sua fantasia in continua ebollizione, una strana e misteriosa creatura di racconto di fate, a metà donna ed a metà farfalla, la quale richiama nella mente di colui che la contempli un po’ a lungo quel verso di Paul Verlaine di così sottile suggestione, che parla di un lent réveil après bien de métempsycoses”.

E Martini conosceva bene Verlaine e i simbolisti francesi, dal momento che proprio negli anni Dieci realizzò alcune opere ispirate ai loro componimenti. La seduzione e la fragilità della farfalla sono elementi che compaiono anche in Verlaine, ma a quella dimensione totalmente onirica del poeta francese, Martini sostituisce un’immagine sostenuta da una fisicità viva e presente, che si scorge sotto la veste lacera in forma di gambe lunghe e piedi che indossano scarpe col tacco e braccia che mostrano gioielli appariscenti. “Un ritratto”, ha scritto Dario Cecchi, “che incominciava senz’altro a stabilire un’aura di leggenda intorno al personaggio Casati”.








Una leggenda che Martini, ancor oggi, continua ad alimentare coi suoi stessi scritti. Persino la firma di un contratto diventava una specie di performance. “Posava da grande artista, e da gran dama, per i maggiori artisti del mondo”, ebbe a scrivere Martini.

“In un’ala del suo palazzo parigino aveva una galleria di ritratti bellissimi. Dal 1912 al 1934 le feci dodici ritratti, e li voleva sempre più grandi; arrivai così all’altezza di tre metri e mezzo. Dovevo lavorare su due scale unite da una pensilina. Vi si arrampicavano con me anche i suoi pappagalli e volava in cima all’antenna dove dovevo tenermi in equilibrio, un grosso uccello del Gran Canyon. Intorno, una fila di grandissime poltrone argento e oro, e pelli di leone per gli ospiti aristocratici e per gli artisti. Lo spettacolo era divertente ed acrobatico!

Il vernissage dei tre grandi ritratti, fu un ballo magnifico che le costò un milione. Del 1912. Gli invitati stranieri vennero dall’Inghilterra, dalla Germania, dall’Italia e dall’America. Ogni anno dovevo andare a Parigi, e se non andavo passava ad invitarmi a Milano.

Una volta addirittura con l’avvocato, per stendere regolare contratto, con scadenze e anticipo e spese di viaggio per me e per mia moglie, né ci fu verso di cambiar sistema. Il contratto fu firmato dalle parti, in doppio esemplare, in una sala caldissima.

La marchesa entrò e ristette in piedi, ieratica come una maestà bizantina, in un costume oro e rosa pallido, i suoi colori prediletti, costellato di gemme, perle e croci brillantate. Gli occhi immobili come di smalto. Nel centro del salone, un basso divano coperto da un lugubre drappo di velluto nero e sopra disteso un morto ignudo. Quando entrai mi sembrò un cadavere, ma ero preparato a tutto. Era un morto divino, un Cristo deposto scolpito in avorio antico, vivamente illuminato. [...] Così la grande artista aveva trasformato il banale appartamento del grande albergo in un mistero teatrale”.

Alcuni dei ritratti menzionati da Martini sono quanto di più bizzarro una nobildonna potesse allora desiderare da un artista. In uno di questi, la marchesa si fece ritrarre in costume da Cesare Borgia, in un salone del suo palazzo di Parigi. Ed è una delle enormi tele di più di tre metri cui Martini allude nel suo scritto.

C’è poi il ritratto “come arciere selvaggio” in cui indossa i panni di un pellerossa. In un altro ancora appare vestita come la contessa di Castiglione. Erano i costumi che si faceva realizzare per le feste, spendendo cifre assurde. E poi c’è un disegno che la raffigura in piedi su di una riva a Venezia, con al guinzaglio il ghepardo che era solita portarsi appresso durante le sue sortite.

C’è poi la famosa stampa nella quale la marchesa è raffigurata nell’atelier parigino di Martini, avvolta da una pesante sciarpa che le lascia scoperti soltanto gli occhi. Alle spalle della marchesa vediamo un altro suo ritratto, che la raffigura in forma di Medusa: la mitologica gorgone era uno dei personaggi più frequentati dall’immaginario simbolista, e i suoi rimandi simbolici ben si attagliavano alla personalità ammaliatrice della divina marchesa.

Nei ritratti come Medusa, Martini si concentrò sullo sguardo penetrante di Luisa Casati, uno sguardo capace d’impietrire e che divenne un tratto costante dei ritratti di tutti gli artisti che si trovarono a doverla dipingere o disegnare. E lei ne era ben consapevole, dato anche il trucco che utilizzava e che esaltava i suoi occhi grandi e sbarrati.








Non sempre i rapporti tra Alberto Martini e Luisa Casati andarono bene. Del fatto che lei considerasse la sua stessa esistenza un’opera d’arte, possiamo avvederci anche da un aneddoto che ci riporta nella Parigi degli anni Dieci.

“Alcuni amici”, ricordava l’artista, “tra i quali i dirigenti di una grande galleria d’arte, volevano fare un’esposizione dei ritratti che avevo dipinto per la marchesa Casati. Inutilmente si adoperarono un anno per ottenerli. La marchesa non volle, protestando che la mia non è arte da bottega e che mai avrebbe permesso una tale popolaresca esibizione. In tal caso perdetti una fortuna, ché la curiosità era grandissima. Ma la fortuna che vale di fronte alla dignità dell’arte, soggiunse!”.

Ci si potrebbe dunque domandare per quale motivo la marchesa Casati si prestasse a farsi ritrarre nelle pose e nei costumi più arditi, oppure, usando le parole di Dario Cecchi, vien da chiedersi perché corresse il rischio di “concedersi alle più che indiscrete farneticazioni di un artista ed esporsi al ludibrio della gente”, dato che spesso molti la raffiguravano seminuda o in atteggiamenti comunque ritenuti del tutto sconvenienti per una nobildonna.

Forse semplicemente i suoi ritratti sono da interpretare alla lettera: “sia che fosse Cesare Borgia mentre brandiva il coltello”, ha scritto Chiara Toti, “o la contessa di Castiglione, una delle donne da lei maggiormente ammirate, essa non faceva altro che seguire il molteplice manifestarsi della sua personalità”.


Federico Giannini e Ilaria Baratta (febbraio 2020).

da Napoli, sabato 19 settembre 2020 alle ore 23:46:41
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