La Marchesa Luisa Casati (1)

Seduzione - Muse

Giampaolo Marseglia

da Napoli, venerdì 18 settembre 2020 alle ore 18:21:33

Divismo, moda, estetica camp, subculture, gusto, arte: in tutti questi ambiti e in molti altri ancora la Marchesa Luisa Casati è un personaggio fondamentale per l’iconografia contemporanea. Con le sue ciglia finte lunghe sei centimetri, l’altezza imponente, la magrezza sinuosa, la voce da contralto, i vestiti da Regina degli Inferi, la Marchesa è stata forse la prima vera diva contemporanea, fondatrice del culto dell’immagine di sé, con una carriera durata più di trent’anni.

Grazie alla potenza della sua immagine, Luisa Casati è stata forse anche la prima icona gay del Novecento. Proto-situazionista, è ricordata per le sue memorabili ed inimitabili feste. Ha girato tutto il mondo, ha avuto palazzi da Mille e una Notte a Roma, a Venezia, a Parigi. La sua vita è stata un’ininterrotta performance.




Di lei Catherine Barjanski ha detto: “Aveva un temperamento artistico, ma non essendo in grado di esprimerlo in nessuna branca dell’arte aveva fatto di se stessa un’opera d’arte. Non avendo alcuna vita interiore, né alcuna capacità di concentrazione, andava in cerca di idee selvagge per la vita esteriore.”

Luisa Casati in effetti aveva un talento troppo avanguardistico rispetto ai suoi tempi per l’immagine, nelle declinazioni più effimere dei suoi apparati. Se fosse vissuta un secolo dopo, Luisa Casati sarebbe potuta essere una grande designer di moda, una stylist, un’organizzatrice di eventi di prim’ordine, un’architetta d’interni, una performer.




La sua vita si può dividere in varie fasi, con gli inizi informi, i primi segni della divina metamorfosi, e i vari regni: il proto-regno di Roma, che rientra ancora nella fase embrionale, il regno di Venezia, il regno di Capri, il regno di Parigi, la disfatta e l’oscuro regno d’Albione.

Luisa nasce nell’anno 1881, sotto la stella dei privilegiati. Suo padre Alberto Amman è un imprenditore che commercia in stoffe e che fonda l’Associazione Cotoniera Italiana, nell’epoca in cui la rivoluzione industriale fa decollare il Nord Italia.




Grazie ai cotonifici di personaggi come l’Amman, a Milano nasce un’industria della moda competitiva con quella di Parigi. I genitori di Luisa fanno parte dell’élite nazionale, possiedono varie ville, a Pordenone e a Monza, dove va spesso in visita re Umberto. Inoltre hanno Villa Amalia sul lago di Como e degli appartamenti in via Brera a Milano.



Villa Amalia.


Della prima parte della vita di Luisa Amman sono rilevanti il precoce interesse per l’arte, le frequenti visite alla Pinacoteca di Brera, la timidezza estrema, l’esercizio del gioco infantile di provarsi i vestiti della madre – con la differenza che quelli di Lucia Amman sono di Worth e Doucet – l’amore per la divina Sarah Bernhardt, il confronto ad ogni sguardo fra la grande bellezza di sua sorella Francesca e la propria persona, più spigolosa, ossuta, nevrotica, meno tradizionalmente avvenente.

Quando Luisa ha tredici anni, nel 1894, la madre muore all’improvviso. Due anni dopo viene a mancare anche il padre, probabilmente per eccesso di lavoro dovuto alle sue manie di controllo. Luisa e Francesca diventano le ereditiere più ricche d’Italia, proprietarie di ville, appartamenti, dell’industria cotoniera e di un enorme quantitativo di titoli, buoni del tesoro e fondi.




A cavallo fra i due secoli, l’élite scopre lo sport, e le due orfane miliardarie elaborano il lutto giocando a tennis e praticando l’equitazione. Nel 1898 Luisa compie il suo primo gesto di iconoclastia rivoluzionaria: in anticipo di vent’anni rispetto alle flappers si taglia i capelli, si fa la frangia per sottolineare i suoi occhi enormi, facendosi quella pettinatura che, nonostante tinte mai viste (se non forse nei lupanari dell’antica Roma), non cambierà mai per tutta la vita.




A diciannove anni Luisa si sposa con il marchese Camillo Casati Stampa di Soncino. La vita matrimoniale di Luisa è fatta di continui spostamenti fra le varie residenze possedute dai Casati, su una Mercedes con autista.




A parte lo sport, un’altra occupazione considerata à la page per l’alta borghesia di inizio Novecento è l’occultismo: teosofia, Isidi svelate, misticismo, neoplatonismo, macchine per il moto perpetuo o per predire il futuro, vangeli secondo gli spiriti, metafonia, automatismi, trance, insomma tutti gli strascichi pseudoscientifici del Romanticismo confezionati in modo da svagare i figliolini viziati di Eliphas Lévi.

Luisa Casati viene paragonata dai suoi amici alla Trivulzio per i suoi occhi sporgenti da insetto, e questo personaggio la colpisce così tanto che chiama la sua unica figlia Cristina in suo onore. Un altro personaggio che le piace è Virginia Oldoini, la contessa di Castiglione: frequentatrice assidua di balli a cui va con vesti trasparenti, a vent’anni diventa spia e amante di Napoleone III. La grande cortigiana finisce i suoi giorni obesa, calva e sdentata nel suo appartamento delle Tuileries, in cui tutti gli specchi sono sempre coperti come nella dimora di un vampiro.

Quando Luisa Casati ha ventidue anni il suo ruolo di moglie cattolica inizia ad andarle molto stretto. Lei è incomparabilmente più ricca rispetto al marito, quindi potenzialmente priva di vincoli. Camillo non interferisce con la sua vita, ma è la normalità fatta persona, il suo unico interesse è la caccia.

Nel 1903, durante una caccia alla volpe sul lago Maggiore, Gabriele D’Annunzio vede “una giovane amazzone sottile” che calma un cavallo imbizzarrito. Nonostante il suo aspetto, caratterizzato, come dice Gilbert Adair, dalla “calvizie totale, il fisico tarchiato e l’aspetto di un tacchino azzimato che lo faceva sembrare un uovo sodo in un portauovo di Fabergé”, il re dei dandies decadenti avrà su Luisa Casati l’effetto chimico di un catalizzatore, stimolandola intellettualmente ed esteticamente, dandole quell’autoconsapevolezza che le farà iniziare la metamorfosi che porta in potenza.

All’epoca non era solito che le donne della buona società avessero sfacciatamente degli amanti, mentre era universalmente accettato e tollerato il fatto che fossero i mariti delle coppie abbienti ad avere una o più mantenute oltre alla moglie ufficiale. Luisa rompe questa convenzione senza farsi nessun problema. Fra alti e bassi, lei e D’Annunzio staranno insieme fino alla morte di lui, continuando la loro relazione per decenni pur avendo nel frattempo altri amanti.




Come era solito fare con le sue donne, D’Annunzio battezza Luisa con un soprannome, Kore, quello della dea Persefone, la virginale fanciulla che viene rapita da Ade e che diventa la regina degli inferi. Luisa dimostra la sua indipendenza accettando il soprannome, ma solo dopo un paio di modifiche, che lo trasformano in Corè, più morbido e francese. Di lei D’Annunzio ricorda: “Ella possedeva un dono e una sapienza onnipotente sul cuore maschile: sapeva essere o parere inverosimile. È la sola donna che mi abbia mai sbalordito”.

In questa fase embrionale della propria autopoiesi, Luisa inizia a gettare le basi della sua futura fama, lavorando sui cardini della propria immagine, l’aspetto, la creazione di ambienti unici, l’organizzazione di feste degne dei principi rinascimentali. Come tutti i megalomani dotati di indole artistica, Luisa fa riverberare il suo ego su quanto la circonda, in un’emanazione che coinvolge i vestiti e i paramenti, l’arredo dei suoi palazzi e la regia di eventi spettacolari.

Nei primi anni del Novecento, smette di vestirsi Worth e Doucet, troppo Belle Époque. Inizia a mettersi pizzi veneziani ed abiti con lunghi strascichi, incrementa il proprio pallore naturale grazie ad una polvere bianca, imita il trucco della Belgioioso con gli occhi cerchiati di nero e si tinge i capelli in toni ramati. Allestisce feste e balli in costume, ad esempio quello ispirato a Madama Butterfly e al giapponismo, oppure il capodanno al teatro Eden di Milano del 1903, in cui gli spazi sono organizzati secondo il modello delle cantiche della Divina Commedia.

Nel 1906 Camillo Casati fa costruire una villa a Roma e Luisa la arreda in maniera inedita, molto irritante per le abitudini estetiche dei ricchi, che trovano deplorevole la mancanza di velluti rossi e mobili pesanti. Luisa Casati non piace molto ai suoi vicini di casa romani, perché è una nuova ricca, un’adultera e soprattutto frequenta artisti, come Arturo Martini e Marinetti, i cui adepti si riuniscono per un po’ a casa sua. Nella sua villa romana i giardinieri vengono istruiti per far sì che la fontana crei un mormorio musicale. Ogni cosa è bianca e nera, con pavimenti di ebano coperti da  pelli di orsi polari. Nella villa ci sono molti levrieri bianchi e neri con collari gioiello ed Angelina, un enorme mastino che obbedisce solo a Luisa. Anche la padrona di casa ormai si veste solo di bianco e nero, e porta al collo lunghissime collane di perle.




Quando conosce Boldini, un artista di fama internazionale che aveva già ritratto Lina Cavalieri e Robert de Montesquiou, è al ristorante e le si rompe la leggendaria collana di perle. Boldini si adopera ad aiutarla a raccoglierle e, all’età di sessantacinque anni, si innamora follemente di Luisa.

Nel 1908 le fa un celeberrimo ritratto, alle cui sedute di posa la Casati si presenta tutta in nero, come se stesse arrivando da un funerale di lusso: abito di raso di Poiret, manicotto di zibellino, fascia di violette in vita, guanti di seta bianca e cappello monumentale. L’abito viene giudicato dai contemporanei come sconveniente e diabolico, come anche lo sguardo aggressivo del soggetto.




Luisa Casati, ancora prima di Coco Chanel, utilizza il color nero per vestirsi tutti i giorni, sfidando la convenzione dell’appena trascorso secolo vittoriano che lo voleva esclusivamente come colore da portarsi durante i funerali e nel periodo del lutto rituale.

D’Annunzio trasmette a Luisa Casati la passione per Venezia, dove ha luogo il primo dei suoi grandi regni. Luisa decide di affittare Palazzo Venier dei Leoni, iniziato nel 1749 da una delle famiglie più antiche di Venezia e mai finito. Lo prende in affitto nel 1910, quando sembra una rovina. Chiama una squadra di eccellenti maestranze, esigendo un restauro completo degli interni, che mantenga però l’aspetto di rudere decadente all’esterno.



Palazzo dei Leoni


Mentre posa per Boldini, la Casati inizia a frequentare Cécile Sorel, un’attrice di teatro di grande successo, molto vanitosa, loquace, di cui sarà amica per vent’anni e che la descrive come la donna meglio vestita che abbia mai conosciuto.

Durante il periodo del regno veneziano, Luisa finisce di mettere a punto e raffina i tratti salienti del suo personaggio. Continua ad usare ciprie chiarissime che rendono il suo viso luminescente, si fa le labbra rosse e gli occhi bistrati con le palpebre dipinte con nero di china, su cui a volte incolla sottili strisce di velluto nero in accoppiata con lunghe ciglia finte, per avere più intensità.

La Casati si mette quotidianamente e per tutta la vita delle gocce di belladonna negli occhi, i cui flaconi marroni facevano parte dei complementi da toeletta di molte donne dell’epoca. La belladonna induce la midriasi, per avere pupille larghe ed occhi lucidi.

D’Annunzio, nel tratteggiare Isabella Inghirami, l’alter ego letterario della sua amante nel romanzo Forse che sì forse che no, scrive: “Ella amava rilevare col nero e col rosso la freschezza dei suoi venticinque anni; e sempre poneva il lutto alle palpebre e intorno alle iridi chiare, e talvolta insanguinava di un non natio cinabro la bocca. (…) Per ciò, pur così fragile e così elastica e così lasciva, ella s’apparentava con le grandi creature di Michelangelo. Le sue vesti vivevano con la sua carne come le ceneri vivono con la bragia”.




A Venezia, Luisa inizia a vestirsi da Mariano Fortuny, con i suoi innovativi, lussuosi e minimali abiti ispirati al Giappone, all’India, al mondo classico.



Dress (Tea Gown) Mariano Fortuny , 1930


La sua prima apparizione veneziana ha luogo in piazza San Marco: è avvolta in mantello rosso di Fortuny, con cappello di pelliccia nero e levrieri bicolor bardati di collari di turchesi, mentre un servo nero enorme le tiene sopra la testa un parasole di piume di pavone. Da allora iniziano a chiamarla “la Casati”. Quando Fortuny diventa troppo celebre e diffuso, la Casati si rivolge al costumista dei Balletti Russi, Léon Bakst, famoso per le sue creazioni rutilanti ed ispirate all’est barbarico.

Una volta Luisa arriva ad un ballo tutta vestita d’oro come la dea del sole, accompagnata da due servi dipinti d’oro e con un pavone al guinzaglio. Causa degli svenimenti a teatro perché si presenta con una coda di pavone intera intorno alla testa e del sangue di pollo appena sgozzato sul braccio destro.




Una volta si veste da Lady Macbeth, in nero integrale, con alla gola una mano di cera che stringe un pugnale. A un ballo del barone Maurice de Rothschild si presenta con corna di ariete autentiche e ricoperte d’oro alle tempie. Si trucca la faccia d’oro e indossa diademi di serpenti impagliati. Va in giro per Parigi con un piccolo coccodrillo al guinzaglio, un vestito nero di Vionnet, un cappello a cilindro di pelle di tigre e una benda nera sull’occhio.

Fra il 1912 e il 1914, assieme alla Rubinstein, Luisa è la miglior cliente di Poiret, che le fa un elmetto di piume nere con parrucca verde. Grazie a questo copricapo viene soprannominata Venere di Père-Lachaise.




Luisa incarna forse per la prima volta in carne ed ossa l’immagine della femme fatale, che fino ad allora era esistita solo in letteratura e nelle arti figurative. E’ un ibrido fra le bibliche fanciulle amanti della lama castratrice, Giuditta, Dalila e Salomè, la fata Morgana, le figure mitologiche di Circe e Calipso, fatali perché padrone della propria sessualità, la virago regicida Lady Macbeth e la Cleopatra di Shakespeare, la diabolica Matilda de Il Monaco di Matthew Lewis, le dame dagli occhi selvaggi di John Keats, la zingara dissoluta dell’opera di Bizet, l’orribile, malata di nervi, incadaverita, morbosa ed irresistibile Fosca nel romanzo incompiuto di Tarchetti, la vampira lesbica Carmilla, le ritornanti di Edgar Allan Poe, la furiosa Kathy di Wuthering Heights.

Luisa si fregia di questa affascinante eredità adottando un’estetica medusea, che viene esaltata dall’interesse per l’occultismo e dalle leggende sugli amanti suicidi. Fa anche uso di codici propri della comunità lesbica dell’epoca, come il bracciale sopra al gomito al braccio sinistro oppure intorno alla caviglia destra, per aumentare le dicerie sulla sua depravazione. Con D’Annunzio si dedica al sesso violento e le capita di indossare i lividi sul collo al posto dei gioielli.

Senza Luisa Casati non ci sarebbero state le vamp del cinema muto, e non lo pensiamo solo noi, ma anche il critico Philippe Julian: “La sfinge Art Nouveau spiegava le ali nere per diventare la donna vampiro dei film dell’orrore… questa malefica immagine della Casati in costumi sontuosi e inquietanti dominati da velluto e ricami neri, mantello e guanti neri con paillettes appariva sullo schermo … Con le loro facce pallidissime, gli occhi cerchiati di nero, queste figure emergevano dall’Orient Express o da un castello in Carpazia o da un palazzo di New York, seminando disperazione ovunque passassero col loro strascico. Bellezze imperturbabili avvolte in stole di pelli di scimmia, si toccavano le file di perle o gli orecchini di giada che scendevano fino alle spalle. Erano tutte giovani sorelle della Casati.”

Luisa, come i principi delle epoche passate con i loro serragli esotici, possiede molti animali stravaganti, soprattutto nel periodo veneziano, in cui a Palazzo dei Leoni ci sono scimmie di varie specie, leopardi su di giri che alle feste cercano di mordere tutti, pappagalli, gattopardi, tigri. Per lei questi animali non sono altro che un accessorio vivente, come i servi neri nerboruti, li considera degli oggetti animati da utilizzare con la finalità di stupire chi la guarda.

Le viene anche il pallino dei serpenti. Si fa fare scatole foderate di raso da gioiellieri famosi per potere portare sempre i suoi serpenti con sé. Quando, all’inizio degli anni Venti, il suo amato boa Anaxagarus ormai lungo svariati metri muore di polmonite, Luisa lo fa imbalsamare e continua a tenerlo nella sua teca. Nel 1925 va in America con una lussuosa nave da crociera, dove le scappa il suo nuovo pitone, seminando il panico fra i passeggeri. Luisa dovrà annegare la sua disperazione al bar del transatlantico, perché il suo nuovo pitone non verrà mai più trovato.




Luisa Casati usa molto la nudità. Gira per Venezia di notte con i suoi leopardi al guinzaglio avvolta solo in un mantello di pelliccia nera. Nel periodo di Capri, Sir Compton MacKenzie inizia a frequentarla e durante il primo incontro lei lo riceve sdraiata su una pelle di orso nero davanti al camino acceso, completamente nuda.

L’utilizzo dello shock visivo è un tratto molto in anticipo sui tempi, proprio dell’estetica postmoderna, che ama i picchi di adrenalina.

Catherine Barjanski si ricorda delle sue scarpe coi tacchi ricoperti di diamanti, e del fatto che nonostante le sue mise da Mille e una Notte Luisa Casati non sembrasse mai artificiosa. “Era così diversa dalle altre donne che sarebbe stato impossibile per lei indossare abiti normali”.

Nel 1919 Luisa ad Oxford gira con un bastone da passeggio alto come lei nel cui pomello tiene l’assenzio. Va in India e quando torna è convinta di essere stata una tigre in una vita precedente, pertanto cammina con una nuova andatura flessuosa portandosi dietro al guinzaglio un cucciolo di tigre. Infine si tinge i capelli di colore giallo verde con strisce nere dal parrucchiere parigino Antoine.

Nel 1923, nonostante la pressione dei debiti la costringa a vendere la sua casa di Roma ed a cedere il Palazzo dei Leoni, Luisa non abbandona la mania delle spese folli. Le torna l’ossessione per il suo idolo giovanile, la contessa di Castiglione. A Parigi fa incetta di oggetti che le sono appartenuti, ventagli, ritratti, sandali.

Si veste con i suoi ammennicoli per Le Bals du Grand Prix all’Opéra di Parigi, con il supporto del divino Erté, che all’epoca collabora con Paul Poiret e che le disegna un enorme vestito di crinolina nera intessuto di diamanti. L’abito deve essere indossato e sfoggiato accanto a quattro amici fra cui Erté stesso, travestiti altrettanto riccamente, che impersonano vari attanti della vita della Castiglione. Il bracciale, lo specchio e il medaglione d’onice che Luisa sfoggia in quest’occasione sono pezzi originali appartenuti alla Contessa.

Luisa diventa una leggenda internazionale grazie ai suoi balli in maschera, in stile rinascimentale, settecentesco, indù, persiano, con i suoi servi neri nudi che buttano incessantemente limatura di rame sui bracieri per produrre bagliori verdastri, che battono i gong o fanno da figuranti con la pelle ricoperta di foglia d’oro. Mitico rimane il ballo Longhi in Piazza San Marco, con carabinieri in alta tenuta in veste di buttafuori che trattengono la folla ai cordoni di sicurezza. Tutte le finestre delle case intorno vengono affittate a prezzi inauditi, e la gente sta appollaiata sui tetti per poter assistere allo spettacolo.

Per promuovere le sue feste ed invitare il bel mondo veneziano, Luisa fa più o meno così: “Entrò una donna che sembrava un cadavere. Indossava un abito di raso bianco avvolto intorno al corpo superbo come un sudario. Un bouquet di orchidee le nascondeva il seno. Aveva i capelli rossi e la carnagione livida come alabastro. Il viso era divorato da due occhi enormi, le cui pupille nere quasi sommergevano la bocca, dipinta di un rosso così vivo da sembrare sangue coagulato. Tra le braccia aveva un cucciolo di leopardo … non riuscivo a resistere all’attrazione provocata da quella strana donna. Puntò un piccolo monocolo tempestato di diamanti sugli altri invitati e li invitò ad un ballo in maschera”.

Tutta Europa vuole partecipare alle feste di Luisa Casati, ci vanno personaggi del calibro di Pablo Picasso. Lei vi compare su cocchi trainati da fiere, avvolta da serpenti, causando risse fra gli altri invitati. Finge di cadere morta vestita da Sarah Bernhardt.

Nel 1925, nell’ultima fase del suo periodo parigino, i famosi balli iniziano a perdere mordente, degenerano in orge, vengono sbeffeggiati dalla plebaglia che si arrampica sui muri perimetrali. Un giorno Luisa Casati prepara un ballo sontuoso incentrato sulla figura del conte di Cagliostro. L’uso della luce elettrica è vietato, tutti i domestici hanno splendide livree settecentesche e i baristi sono vestiti da diavoli.

Tutti gli invitati, arrivano con costumi incredibili, c’è la crema del bel mondo parigino dell’epoca. Sul più bello arriva però una tempesta che spazza via tutti gli allestimenti, e tutti fuggono con i costumi inzaccherati di fango. Il Bal du Cagliostro è un completo fallimento.




Robert de Montesquiou è stato uno degli illustri amici della Casati, la chiamava dea e spesso la accompagnava a fare shopping da Lalique. Di lei ha anche detto: “Medusa o tigre che sia, quando sorride par che morda”.



da: Ryersson - Yaccarino: "Infinita Varietà. Vita e leggenda della Marchesa Casati".

Corbaccio, 1999.



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INVIO

Giampaolo Marseglia

Luisa Casati, la favolosa marchesa nemica della mediocrità


Venezia, solstizio d’inverno. A Palazzo Fortuny è in corso una mostra che si rivela deliziosa, tutta dedicata a Luisa Amman Casati, dal titolo dantesco-sadiano La divina Marchesa – Arte e vita di Luisa Casati dalla Belle Époque agli Anni Folli.

È una giornata di sole quella che ci accoglie nella città fiera di ricchezze artistiche ineguagliabili, complice preziosa e tutrice unica di artisti di tutto il mondo. Mentre ci rechiamo a scoprire dipinti, foto, vestiti e storie della Marchesa fatale, pensiamo a Josif Brodskij, il tenerissimo, delicato poeta che ha scritto uno dei più bei libri mai comparsi su Venezia: Fondamenta degli incurabili.

Abbiamo la strana, dolce sensazione che il russo vagabondo eroe del verso ci stia accompagnando in questa avventura odierna di voluttà visiva e rievocativa, e pare proprio di sentire l’odore del tabacco che alita dalle sue labbra, mentre ci ricordiamo quanto ha scritto su questo gioiello di città.

Muoversi per Venezia a dicembre è molto più comodo che in estate o in primavera. Pochi turisti amano visitarla in questa stagione, rispetto alle fiumane di gente degli altri periodi. È una sorpresa, dunque, camminare spediti e in pochi minuti dal nostro albergo – situato in un piccolo campiello nascosto a due passi da San Marco – raggiungiamo il palazzo residenza di Mariano Fortuny i de Madrazo, artista catalano nato a Granada nel 1871, vissuto a Parigi fino al 1889 quando si trasferì a Venezia, dove visse fino alla sua morte, nel 1949.

Figlio d’arte sia per parte di madre che di padre, fu pittore, stilista, scenografo e designer, con una fama crescente, ma già ai suoi tempi super famoso, tanto da essere citato dall’autore della Recherche, che ne parla ne La prigioniera a proposito di una creazione sartoriale dello stesso, applicando una lettura dell’abito squisitamente proustiana.

Quale migliore ospitalità per una creatura così originale come Luisa Casati, che pare aspirasse, nelle sue ambizioni, a essere una vera e propria opera d’arte? La fanciulla, appena dodicenne, divenne l’orfana più ricca d’Italia, in quanto alla morte precoce del padre – un industriale del cotone di origine austriaca – nel 1896, che seguì di appena due anni la scomparsa improvvisa della madre, ereditò un patrimonio ingentissimo insieme alla sorella.

Affidate agli zii, fu deciso, come volevano i tempi e i costumi di allora, di maritarle bene e possibilmente con un cavaliere nobile, che fu appunto nel caso di Luisa il marchese Camillo Casati, che impalmò la diciannovenne ereditiera. Il matrimonio fu un vero disastro, in quanto, dopo la nascita della loro unica figlia Cristina, lui continuò a occuparsi prevalentemente di caccia (era un infaticabile conosciutissimo esperto dell’attività venatoria italiana), e lei poté finalmente cominciare a tessere la sua vita come un’opera d’arte. Divorziarono a Budapest nel 1924.

Uno dei primi idoli di Luisa è Cristina Trivulzio di Belgiojoso e, in virtù di questa passione per la giornalista e scrittrice italiana eroina del Risorgimento, ha battezzato con lo stesso nome la figlia. Nel frattempo si cominciano a forgiare per lei i primi appellativi mondani. Il giornale Tout-Paris la definisce la Venere del Père-Lachaise e lo scrittore de Musset (con cui ha avuto un flirt) la denomina la Venere anatomica per vendetta sentimentale, riferendosi alla sua incredibile magrezza. La marchesa fatale verrà in contatto, durante la sua lunga e avventurosa esistenza, con gran parte dell’intellighenzia europea.

Sarà immortalata da Gabriele D’Annunzio con il nome di Isabella Inghirami nel suo romanzo Forse che sì forse che no (1910). Con il Vate d’Italia, per il quale diventa Coré, stabilisce un lungo sodalizio sentimentale, pur rimanendo entrambi sostanzialmente liberi e aperti ad altri legami.

Di lei s’innamorano i futuristi, tanto che può essere considerata anche un’icona del nuovo movimento creato da Marinetti e ne diventa perfino la maggiore collezionista italiana, acquistando opere di Balla, Boccioni, Russolo, Carrà, Depero. Il fondatore del Futurismo le donò addirittura un quadro che lo rappresentava, dipinto da Carlo Carrà, dichiarandola all’istante donna futurista con questa dedica: Do il mio ritratto / dipinto da Carrà / alla grande futurista / Marchesa Casati / ai suoi occhi lenti / di giaguaro che digerisce al sole / la gabbia d’acciaio divorata / Marinetti.

Un altro futurista, Giacomo Balla, cesellerà per lei la scultura dal titolo La marchesa Casati con il cuore di mica e gli occhi di legno. Nota per i visitatori: entrambe le opere sono presenti in mostra. Persino Man Ray rimase stregato dalla donna e sembra che la foto che le scattò, fosse nata da un errore che poi si è rivelato un piccolo capolavoro donando a Luisa quattro occhi.

E davvero i suoi occhi erano quanto di più emozionante si potesse captare dalla sua persona. Il trucco circolare da lei inventato, con gradazioni scure, dal viola al blu intensi, non faceva altro che enfatizzare e rendere misteriosi e magici i bianchissimi bulbi oculari. Tenebrosa, tenera, tenace, terrificante a volte, la nobildonna sembra muoversi continuamente con la polvere da sparo accesa sotto i piedi. Inquieta, abita Roma e Capri, Parigi e Venezia, viaggiando in continuazione, con uno spasimo che soltanto un evento mondano può calmare almeno per un po’.

Solerte organizzatrice di feste e di eventi a tema, riesce a interpretare e a calzare i panni dei personaggi più incredibili, vestendosi come Elisabetta d’Austria (c’è una foto in mostra, notevolissima, di Man Ray sul travestimento con due cavalli bianchi dipinti alle spalle); come Luce, sì proprio come la luce del giorno, abito che ha ispirato il costumista Adrian, per vestire la bellissima attrice Hedy Lamarr nel film Ziegfeld Girl (1941), di Robert Z. Leonard e di Busby Berkeley; giungendo senza paura a impersonare San Sebastiano.

Animali a frotte popolano ogni suo party: ghepardi, pavoni, pitoni, tartarughe, pappagalli, levrieri. Vi preghiamo di soffermarvi sul bellissimo quadro di Giovanni Boldini, dove Luisa è ritratta ricoperta di piume di pavone e non perdetevi neanche il dipinto, sempre di Boldini, dove campeggiano i colori nero e viola di lei con i levrieri.




Abbiamo anche delle divertenti fotografie – opera di Mariano Fortuny – di lei, Boldini e un ospite vestito da antico califfo, mentre lei sfoggia una veste e un cappello degni dei racconti delle Mille e una notte. Per le sue favolose feste la marchesa divina riuscì in un’impresa che hanno eguagliato soltanto i Pink Floyd nel 1989 (questi ultimi con effetti però sciagurati, provocando un’invasione di duecentomila spettatori, con risultati devastanti per l’ambiente): affittò per una notte l’intera piazza San Marco, organizzandovi una festa all’aperto all’insegna del tango – per poche centinaia di intimi – nel 1913, in barba a Papa Pio X, che aveva proibito questa danza a Roma.

Per l’occasione lei è vestita da Arlecchino. Va da sé che, parimenti al suo Ariel-D’Annunzio, dilapiderà il proprio ingentissimo patrimonio in neanche troppi anni e non si farà scrupolo di chiedere soldi ad amici e conoscenti, vecchi amanti e perfino antichi nemici come Axel Munthe, al quale aveva messo a soqquadro totale, quasi disfacendola, la bella casa di Capri quando era sua ospite, lui assente.

Ma quante belle storie sono nate da lei con lei e per lei! Una, per la penna di D’Annunzio, nel descriverla come la Contessa di Castiglione, la bella delle belle, dice così: Ella portava la sua giovinezza come un’immortalità. Ed è stato sempre D’Annunzio a definirla la distruttrice della mediocrità. In fondo sono due esteti, si piacciono e si caricano a vicenda di energie esplosive e creative.

Mentre il Vate fa debiti a destra e a manca (con la complicità arrendevole di Mussolini, che lo tollera giusto perché è un poeta disponibile a fiancheggiare e a testimoniare artisticamente il fascismo), pur di ottenere gioielli e abiti e scarpe da lui disegnati, con dei pagherò che a un certo punto lo costringeranno all’esilio francese, Luisa sperpera senza battere ciglio, anche alla conquista di gioielli costosissimi, strani, inventando un kitsch ricco e un camp aristocratico.

Una gustosissima esposizione è offerta nelle sale della mostra, dove si possono notare tra i tanti i pezzi unici di Cartier (due collane “serpente” in oro, diamanti e turchese), un bracciale “medusa”, un bracciale di Buccellati (anche D’Annunzio si serviva di quest’orafo).

A proposito della prodigalità della marchesa, la leggenda vuole che, per una traversata veneziana, fosse stata capace di donare un braccialetto di perle al gondoliere, incapace di toccare il vile denaro, che probabilmente non portava mai con sé.

Acquistò, vicino Parigi, la casa appartenuta al poeta dandy Robert de Montesquieu, detta Palais Rose, dove si svolsero ricevimenti e incontri memorabili. A Venezia, la sua dimora fu Ca’ Venier dei Leoni, quella che diventò poi la casa e quindi l’attuale museo di Peggy Guggenheim.

La figlia Cristina, con la quale non ebbe grandi slanci affettivi (e chissà mai perché), fece anche lei parte del mito, in quanto sposò in seconde nozze Wogan Philipps, l’unico membro del partito comunista della Gran Bretagna a sedere alla Camera dei Lord! Cristina morì piuttosto giovane e sembra che il marito abbia fatto sparire carte e testimonianze del rapporto tra la moglie e sua madre, che non partecipò al funerale della figlia.

Un’altra storia legata sempre alla nobildonna, riguarda il suo maggiordomo-tuttofare di pelle nera che Luisa decise un giorno di dipingere personalmente con pittura d’oro, rischiandone l’asfissia se non fosse stato salvato dal dottor Axel Munthe, che provvide immediatamente a lavare la tintura della quale era stato ricoperto.

Come ben sanno i medici e i cultori di 007, se viene dipinta in toto la pelle di un umano, questi può morire soffocato, perché la pelle rappresenta anche un importante organo respiratorio. Sembra proprio che Ian Fleming, il creatore dell’agente segreto più famoso del mondo, avesse appreso questa follia da uno dei tanti fidanzati di Luisa Casati, il noto pittore inglese Augustus Edwin John, che fu poi compagno fisso della madre di Fleming. Questi utilizzò l’episodio crudele nel suo libro Goldfinger, in cui il cattivo fa dipingere d’oro, uccidendola così, una bondgirl che ha aiutato 007.

E sarete catturati presto dal ritratto che le fece proprio Augustus Edwin John e che è stato scelto giustamente per la copertina del catalogo e per i manifesti pubblicitari di questa mostra fantastica.

Ci muoviamo nelle stanze di Palazzo Fortuny, le cui pareti sono state affrescate dal pittore, facendo spesso avanti e indietro non paghi delle visioni e delle meraviglie, e riconosciamo che non poteva esserci luogo migliore per ospitare quest’avvenimento epocale.

D’altronde Luisa conosceva bene Mariano, che più volte aveva disegnato e fatto confezionare vestiti e paramenti pregiati per la marchesa. Lungo il percorso incontriamo tante opere che ci ammaliano, come il busto di lei fatto da Sarah Lipska; un piccolo bronzo della Casati con levriero di Paolo Troubetzkoy; una curiosa ceramica policroma con vetri tagliati a brillante di Renato Bertelli.

Contiamo ben tre dipinti, dodici opere su carta, due disegni per abiti, tutti di Alberto Martini tra cui non sappiamo quale prediligere (La Casati come Euterpe? Felina? La marchesa Casati come Cesare Borgia o come arciere selvaggio? Gelosia? …è deciso: una delle nostre preferite è Ritratto della Marchesa Casati nell’atelier del pittore a Parigi).

Troverete, al piano superiore, chiuso e apparentemente negletto, ma consultabile, un album fotografico che suggeriremmo di non trascurare, perché contiene delle interessanti foto di Luisa e forse due tra le sue più belle, che la consegnano alla storia e alla leggenda nella sezione Ritratto di fidanzamento.

Lungo il percorso sono esposte opere di Fortunato Depero, futurista buon amico di Luisa, tre su carta tra cui un ritratto di lei a matita e inchiostro blu e due stampe fotografiche relative una a costumi per il balletto I selvaggi e un’altra denominata Il canto dell’usignolo. Un altro importante futurista, Giacomo Balla, è coinvolto nella vita della marchesa e tra le varie sue opere in mostra, spicca un originalissimo La marchesa Casati con levriero e pappagallo, dove conviene soffermarsi un pochino per cogliere i particolari e la pura genialità dell’artista.

L’adorabile Jean Cocteau ha scritto di lei l’impressione più acuta e memorabile: Aveva saputo crearsi un tipo all’estremo. Non si trattava più di piacere o non piacere, e tantomeno di stupire. Si trattava di sbalordire.

È con vero rammarico psicofuturista che segnaliamo la testimonianza dell’insulto che le fece quel monello di Cecil Beaton, uno dei grandi fotografi del ‘900 nonché scenografo e costumista (vincitore di ben tre premi Oscar per costumi e scenografie dei film Gigi e My Fair Lady), “rubandole” tre antipatici scatti.

E questa affermazione sarà onestamente condivisa da chiunque vedrà le foto esposte alla mostra, in quanto lei non è in posa, si nasconde, e si capisce facilmente che non aveva nessuna intenzione di farsi riprendere. Pare lui che avesse tirato fuori la macchina fotografica manifestando l’intenzione di fotografare esclusivamente Spider, il pechinese inseparabile dalla marchesa, ma poi sparò i lampi “contro” di lei. Beaton poi parlerà in modo sarcastico della marchesa nel suo libro Lo specchio della moda, uscito nel 1955. I due eventi sommati, nel breve arco di un anno, scatenarono le ire di Luisa, che lasciò per iscritto una maledizione nei suoi confronti!

Artisti come Tennessee Williams e Jack Kerouac la ricordarono, il primo nel dramma teatrale The milk train doesn’t stop here anymore e il secondo nella raccolta di poesie San Francisco Blues, dove ne parla così: La Marchesa Casati / È una bambola viva / Appuntata al mio muro / Dei bassi di Frisco / Ha gli occhi immensi / La pelle lucente / Vene azzurre / E rossi capelli selvaggi / Spalle dolci e sottili / Amala / Amala / Canta il mare / Blue-malinconico / Gemendo / Sullo sfondo di / Augustus John de John. / (traduzione di M. Bocchiola). Ma sono ancora tanti gli scrittori che in un modo o nell’altro presero spunto per le loro opere dalla vita di Luisa.

Maurice Druon è stato l’autore del libro La Volupté d’être, con una protagonista molto simile alla nostra Marchesa. Anche un paio di registi (e che registi!) trassero ispirazione dal suo personaggio per i film La scogliera dei desideri del 1968, girato da Joseph Losey, con Richard Burton ed Elizabeth Taylor e Vincente Minnelli che in Nina – a matter of time (1976) disegnò, grazie alla complicità di Ingrid Bergman, il ritratto di un’anziana signora molto somigliante alla settantenne Luisa Casati nel suo ritiro finale londinese, un po’ come la vediamo nelle foto importune e forse inopportune di Cecil Beaton.

Eccellenti stilisti (Galliano, Lagerfeld) si sono ispirati a lei per le creazioni di moda, di cui è possibile visionare le passerelle e le indossatrici in un rilassante video all’ingresso della mostra all’insegna di lusso, eleganza e voluttà.

Non mancate l’appuntamento con l’importante pittore Federico Armando Beltrán Masses, di cui nella mostra è presente La nuit d’Eve, che dipinse Luisa, seduta stante (è proprio il caso di dirlo) in un rimarchevole ritratto, quando bussò al suo studio una notte a Parigi, con in mano una sfera di cristallo e un diadema che raccoglieva i suoi capelli e alle spalle un veliero. Ci sembra quasi di vederla dal vivo, con occhio psicoanalitico, sdraiata sul divano per una seduta freudiana!

Siamo andati allora a cercare notizie ulteriori sul pittore e abbiamo scoperto che critici londinesi e parigini avevano sottolineato la passione psicologica dell’artista. Infatti, nel 1931, la Paris Revue de Psychothérapie et de Psychologie Appliquée ha pubblicato un denso e lungo articolo intitolato L’Oeuvre Psychologique de Beltran-Masses a firma del medico psicoanalista Pierre Vachet.

Il mitico Erté, al secolo Romain de Tirtoff, uno dei maggiori rappresentanti dell’Art Déco, nonché ricercatissimo costumista di film americani (uno per tutti Restless Sex del 1920), disegnò per lei l’abito da Contessa Castiglione e forse ideò la lettera “L” del suo pregevolissimo e singolare alfabeto animato da donne e animali, pensando proprio a lei, Luisa e il leopardo, amalgamati.

Troverete anche una sezione dedicata a Gabriele D’Annunzio, con dipinti dello stesso, fatti da Ercole Sibellato e Romaine Brooks, Astolfo De Maria, nonché l’enorme guscio di una tartaruga che Luisa donò al Vate e che morì in seguito a un’eccessiva ingestione di tuberose. D’Annunzio ricamò sulla faccenda e la corazza della testuggine fu sistemata in una sala da pranzo denominata da allora in poi la Stanza delle Cheli come un memento mortis per i commensali e in ricordo perenne di Coré.

Per uscire bisogna ripercorrere all’incontrario la mostra e vediamo velocemente tutte le stazioni che abbiamo incontrato finora. La foto che preferiamo di Luisa è proprio quella che all’ingresso (o all’uscita) della mostra troneggia ingigantita di Anne-Karin Furunes, elaborata con una tecnica di tela dipinta e perforata, irradiata dietro da una luce, quasi a scoprire una sorella ancora più lunare di Louise Brooks quando interpreta la Lulu.

Nell’epistolario con D’Annunzio intitolato Infiniti auguri alla nomade, che l’editrice Archinto si è premurata di ristampare con velocità proprio nel novembre 2014 non ricaviamo grosse notizie, se non la testimonianza di un’amicizia sentimentale durata lungamente e qualche meravigliosa frase a effetto, come quella apposta dal poeta alla foto di lei fatta da Adolf de Meyer, che dice: La carne non è se non uno spirito promesso alla Morte (6 agosto 1913) e un’infinità di altre notizie per lo più brevi su promesse di incontri e saluti vari dalle varie parti dell’Europa da parte dell’uno e dell’altra e disquisizioni su denaro, gioielli e case. Niente di particolarmente poetico.

Le ha dedicato una storia a fumetti Vanna Vinci (La musa egoista, Rizzoli Lizard, 2013) che si può leggere non troppo comodamente (date le dimensioni) ma assai velocemente e piacevolmente. Ora che abbiamo completato il nostro ricordo di questa visita veneziana alla Marchesa, ci accorgiamo che proprio oggi ricorre la sua data di nascita. Sulla sua tomba la nipote ha deciso, con elegante appropriatezza di fare incidere dei versi di Shakespeare scritti per Cleopatra in Antonio e Cleopatra: L’età non può appassirla, né l’abitudine rendere stantia la sua varietà infinita. Allora buon compleanno Luisa Casati, nobile inimitabile italica artistica iperbole.


Amedeo Caruso, gennaio 2015.



da Napoli, venerdì 18 settembre 2020 alle ore 20:48:20
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