La Contessa Olghina di Robilant

Seduzione - Muse

Giampaolo Marseglia

da Napoli, lunedì 28 settembre 2020 alle ore 20:19:37

Olghina di Robilant

Lo Scià di Persia le inviava fasci di rose rosse. Re Faruk d’Egitto le regalò il suo panfilo e lei lo rifiutò. Poteva sposare Juan Carlos di Spagna. Ma alla fine ha sempre scelto la libertà. Pagandola cara.



Andare a casa di Olghina di Robilant, la dissipazione fatta persona, è come far visita a Norma Desmond di “Viale del tramonto”. Con la differenza che lei non è più Gloria Swanson e io non sono mai stato William Holden.

«Mi raccomando: venga da solo, niente fotografi», aveva ordinato spicciativa al telefono. «Ho le rughe». Un tentativo di togliersele passando il ritratto nello scanner è crudelmente abortito. «Guardi qua che roba», mostra la fronte calcinata al computer, «ho pasticciato con lo sfumino del programma di fotoritocco».

Non saprei dire se sia più donna o più giornalista, di sicuro a 69 anni compiuti la musa ispiratrice della Dolce Vita riesce ancora a trattare queste faccende da entrambi i punti di vista.

L’ombra di quella che fu la spregiudicata, la provocante, la splendida Olghina di Robilant sembra aver finalmente raggiunto la quiete. Ha frequentato tutti gli uomini che desiderava: Ernest Hemingway, Tennessee Williams, Truman Capote, re Umberto, Luchino Visconti, Federico Fellini, gli armatori Niarchos e Onassis, Burt Lancaster, Tony Curtis.

Ha sedotto tutti quelli che voleva: Juan Carlos di Borbone, Lorin Maazel, Warren Beatty, Tony Franciosa, Alain Delon («un maschio solare, la virilità assoluta»), Antonio Gades («ti lasciava sulle labbra un sapore di fragola e violetta»), Maurizio Arena, financo Bobby Solo.

Ha respinto i più insistenti nel corteggiarla, dallo Scià di Persia, che credeva di farla capitolare con fasci di rose rosse, a re Faruk d’Egitto, che vedendosi restituire un orologio granellato di diamanti e rubini cercò di farsi perdonare regalandole il suo panfilo: rifiutato anche quello. «Anni dopo ho incontrato l’ex sovrano vicino a Porta Pia mentre sorbiva un caffellatte. Era ancora indignato: “Quando un arabo ti fa un dono, devi accettarlo e basta, altrimenti lo offendi».

Ci fu lei, l’intemperante Olghina dai lunghi capelli biondi, all’origine del primo scandalo dell’Italia postbellica. A Roma correva l’anno 1958, mese di novembre, l’1 dedicato ai santi, il 2 ai morti, il 3 ai vivi, perché bisognava pur festeggiare degnamente la contessina veneziana nata in quel giorno, 24 anni prima, sul Canal Grande.

Al Rugantino, ristorante di Trastevere, si ritrovò attorno a lei la corte di perdigiorno che Ennio Flaiano aveva stroncato con una delle sue fulminanti battute: «Ragazzi, stasera vado via presto perché domattina devo alzarmi tardi». D’improvviso, Aiché Nanà, prorompente ballerina insignita in patria del titolo di miss Bosforo, fece scivolare la cerniera lampo del vestito e rimase con le sole mutandine di pizzo nero a dimenarsi su un tappeto di giacche da uomo. Irruppe la polizia e mise «in istato di fermo i partecipanti al turpe festino».

Tazio Secchiaroli, il principe dei paparazzi, portò le foto all’Espresso. Eugenio Scalfari, già allora molto sensibile alla deontologia («venderemo un sacco di copie, il che non fa male»), ne suggerì l’immediata pubblicazione al riluttante direttore Arrigo Benedetti. Titolo: «La turca desnuda».

Malgrado le pecette nere collocate nei punti strategici, il settimanale fu subito sequestrato. In compenso i comunisti poterono scagliarsi contro i ricchi smidollati, i liberali invocare accertamenti fiscali sugli amici della festeggiata, i cattolici indignarsi per la profanazione della Città Sacra.

«A distanza di 45 anni non so ancora chi abbia invitato la spogliarellista Aiché Nanà alla mia festa di compleanno al Rugantino. L’unico che mi difese fu re Umberto. Mi tuffai nella Fontana di Trevi per scommessa: io pagai una multa, Fellini ne fece un film».








Il viale del tramonto di Olghina di Robilant è quello carducciano, noblesse oblige, delimitato dai cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar. Si svolta su una strada sterrata, in fondo alla quale t’aspetteresti di entrare dentro una pagina patinata di Ville & Casali.

Ma invece di una magione di mattoni rossi, con le botti di Sassicaia a riposare nelle cantine, ti ritrovi davanti un anonimo casermone di contadini, galleggiante sul fango, un cortiletto ingombro di bombole del gas, cucce schiodate e giocattoli stinti dal sole. «Di mio non ho più nulla, neanche la casa. Sto qui per gentile concessione dei marchesi Incisa della Rocchetta, che mi hanno offerto queste stanze in comodato gratuito. Mi restano cinque cani e le sigarette. Che dice, possono sequestrarmeli?».

Non credo.

«Meno male. Ho solo la pensione sociale. Mi aiuta una delle mie due figlie. Ciò che vede è tutto suo, compreso il computer che mi serve per spedire i miei pezzulli al sito Dagospia».

Avesse sposato Juan Carlos, oggi sarebbe regina di Spagna.

«Non se lo poteva permettere. Doveva sposare la donna che avevano stabilito di dargli. A differenza del figlio Felipe, non ha mai preso una decisione personale. Quel pover’uomo vive una vita sua solo quando va in moto: s’infila il casco e nessuno lo riconosce».

Quant’è durata?

«Un paio d’anni. Lui ne aveva 16, io 19. Mi sentivo la nave scuola».

Le ha lasciato una figlia...

«Non è figlia di Juan Carlos».

Sa almeno chi è il padre?

«Lo so, ma non lo dico».

A sua figlia l’ha detto?

«L’ho detto».

È stata contenta?

«No. Si vede che in fatto di uomini non abbiamo gli stessi gusti».

Pare che anche suo bisnonno, Carlo Felice di Robilant, fosse figlio naturale. Di re Carlo Alberto.

«Pare? È storia. Anche mio papà si chiamava Carlo Felice. Ufficiale di Marina, passò nell’Aeronautica e fu mandato a Tobruk col suo idrovolante».

E sua madre?

«Si chiamava Caroline Kent. Suo padre possedeva vaste tenute di cotone ad Asheville, North Carolina. Restò orfana. Erano cinque sorelle. La loro madre, per distrarle, le portò a Roma. Presero una suite all’hotel Byron di via Veneto. Fu lì che i miei genitori si conobbero.

Il vecchio Kent, prima di morire, aveva raccomandato alla moglie: “Piuttosto che a dei nobili europei, meglio che le nostre figlie vadano a dei poveracci americani”. Per cui i miei dovettero sposarsi clandestinamente a Venezia. Non c’è un invito di nozze o un posacenere che ricordi il loro matrimonio».

E a Venezia nacque lei.

«La mia nursery era nella camera di Palazzo Mocenigo in cui aveva soggiornato Lord Byron». A Palazzo Mocenigo era di casa Hemingway.

«Lo chiamavamo Papa. Lui e papà bevevano come due mascalzoni. Veniva spesso a trovarci anche a Cortina. Batteva a macchina stando in piedi, le pagine erano una vera schifezza, una riga su, una giù. Sul finire di un’estate mi regalò due racconti scritti per me, il primo su un leone che arriva a Venezia dall’Africa e s’ubriaca all’Harry’s Bar, il secondo su Ferdinando il toro che s’innamora dei fiori fino a perdere la sua potenza sessuale. Una parodia di sé stesso».

Perché dice così?

«Alle corride si nascondeva dietro il torero. Non aveva coraggio: io posso affermarlo perché ho toreato per davvero. Aveva un malanno a un rene. Si fermava a ogni cantone a far pipì. Con le donne non combinava un bel niente. Faceva solo finta. Portava in gondola la Adriana. Tutto lì».

Adriana Ivancich, la ragazza che gli ispirò il personaggio di Renata in “Di là dal fiume e tra gli alberi?”

«L’unica donna che abbia veramente amato. Voleva sposarla: lo confidò a mia madre. “Tu sei pazzo”, lo rimproverò mamma, che diede manforte alla moglie del romanziere, Mary, per convincere Adriana a lasciarlo perdere».

Perché una contessa decise di fare la giornalista?

«Perché dovevo mangiare. Da piccola chiedevo la luna e mi davano la luna. Poi un giorno mi dissero: “La luna è finita”. In una generazione avevano sperperato il patrimonio di famiglia. A 16 anni mia madre mi mandò fuori di casa. Vagabondavo per l’Europa con l’autostop. A 21 arrivai a Roma. Mi presero come segretaria alla TWA. Fellini raccontava che mi licenziarono in tronco per aver spedito a Bombay due indiani che volevano visitare Pompei».

È vero?

«No. Cioè sì. È vero che i due passeggeri chiesero a me le informazioni sulla gita. Pompei... Bombay... Non è che l’inglese parlato dagli indiani sia molto chiaro. Io capii che volevano cambiare il biglietto aereo. Si accorsero dell’equivoco in volo. Ma non fui licenziata per questo. La TWA doveva tagliare il personale, il direttore della compagnia mi convocò: “Ho scelto lei. Una di Robilant non ha bisogno di lavorare”. Puro odio di classe».

E lei si buttò sui giornali.

«Ugo Zatterin, che dirigeva Telesera, mi assunse con Marcello Mancini, un collega che veniva da un quotidiano cattolico. Ci affidò la rubrica “Contessa azzurra”. Essendo un quotidiano del pomeriggio, finivamo di scriverla alle 6 del mattino, mettendoci dentro i pettegolezzi sui party della sera prima. Piacque molto a Pier Francesco Pingitore».

Il regista del Bagaglino?

«Allora era caporedattore del settimanale Lo Specchio. M’ingaggiò, assegnandomi la rubrica “Cronache bizantine”. Mio padre, monarchico ma antifascista, si vergognava a morte che lavorassi per un periodico reazionario. Io manco me ne rendevo conto. Ero di un’ignoranza abissale: nelle case patrizie non si parlava mai di politica, un argomento considerato volgare.

M’interessavano solo gli scoop mondani. Raccontavo i re in pantofole. E così pure i divi. Ero amica di Cole Porter, padrino di battesimo di mio cugino. Dalla nostra casa di Venezia passavano tutti: Errol Flynn, Alberto Sordi, Sophia Loren...».

È stata la Elsa Maxwell d’Italia.

«Per carità! Un donnino disgustoso e invadente, un pozzo di malignità oscene. Allungava le mani. Ci ha provato anche con me. Fece cadere tra le braccia di Onas- sis prima Maria Callas, che era la sua protetta, e poi Jacqueline Kennedy. Non ho mai perdonato a mia zia d’averle prestato per una festa mascherata il corno rosso del doge Mocenigo che tenevamo sotto una campana di vetro».

Anche lei non scherzava, in fatto di malignità: sullo Specchio trafisse l’attore Helmut Berger definendolo «la marchetta tedesca che ha stregato Visconti».

«Non credo d’averlo scritto. Al massimo l’avrò detto. Mai preso una querela per un articolo».

Poteva aspirare a Paris Match ed è finita al Gazzettino.

«Mi hanno assunto come collaboratrice cinque volte e cinque volte mi hanno fatto le scarpe».

Chi?

«Capi e redattori. Non sono veneziani. È tutta gente di terraferma. Arrivisti che credono d’aver conquistato la città e usurpano il posto dei veneziani veri. Siccome non se la possono prendere con i leoni, cioè i politici e gli industriali, strapazzano i gatti, gli aristocratici, che sono quattro. Ma anche i loro direttori glieli raccomando. In tre mi hanno fissato un appuntamento e poi non si sono fatti trovare».

Che gente.

«Anche a Momento sera, quotidiano romano del pomeriggio dov’ero diventata redattore capo, ne ho conosciuti di pessimi. A uno ho dato del cretino. Salvatore D’Agata, che poi avrebbe fatto carriera in Rai, mi tartassava per partito preso, non ho mai capito perché. Ero incinta e mi costringeva a passare ore in corridoio con la nausea a far niente».

Chi è il giornalista più bravo?

«Giorgio Bocca».

Lo conosce?

«È mio consuocero. Prima di cominciare questo mestiere mi piaceva Montanelli. Un po’ banderuola, come tutti i toscani».

Il direttore d’orchestra Maazel l’ha paragonata a un leone. È davvero così selvaggia?

«Ho vissuto da selvatica, sì. Mi sono presa delle libertà che nessuna mia coetanea avrebbe osato prendersi a quel tempo. Ma non rimpiango nulla. Carpe diem. Non ho perso nessun treno, tranne quello del guadagno facile. Pensi se fossi arrivata alla mia età negandomi tutto quello che invece mi sono concessa, a cominciare dai bei tosi».

Ha avuto solo flirt o anche grandi amori?

«Gli uni e gli altri. Con Tony Franciosa ho avuto una storia lunga. Con Warren Beatty un accostamento. Con Lorin Maazel è andata avanti per un anno e mezzo.

Mi mandava le poesie. Una sera, prima di un concerto alla Fenice, mentre cenavamo con Igor Stravinskij e Arthur Rubinstein, si mise a canticchiare L’uccello di fuoco per me. Stravinskij saltò su: “Come ti permetti? Questa musica l’ho composta io”. Voleva essere lui a offrirmela.

Più tardi, a teatro, Lorin scandì rivolto verso il pubblico: “Dedico questo mio “Uccello di fuoco” a Olghina”. Sarei sprofondata sotto la poltrona». (Va a prendere una foto giovanile del maestro, corredata dalle note di Stravinskij riportate sul pentagramma e da questa dedica autografa: «Mentre il maestro dirigeva, l’uccello cantava». O Maazel non conosceva la lingua o era molto insistente).

Alla fine s’è ridotta a Bobby Solo. Come ha potuto?

«Io avevo 31 anni, lui 22. Era un sentimentalone tremendo. Non gli andava bene nessuna. Ma se gli scombinavi il ciuffo, diventava carino. Aveva un bel fisico. Una volta ha sfondato l’abbaino e mi è entrato in casa dal tetto. Credeva che fossi chiusa dentro con un altro».

C’è ancora qualche uomo che la fa impazzire?

«Tom Selleck. Ho registrato tutti i suoi film. Se George Clooney rifà davvero Magnum PI, come ha annunciato, lo picchio. Selleck ne vale tre di Clooney. E trovo molto attraente anche quello stupidotto che ha vinto all’Isola dei famosi, come si chiama?».

Walter Nudo.

«Xe un bel toso. Gli occhi non sono ancora morti».

Che cosa cercava negli uomini?

«Il sentimento. L’erotismo veniva dopo. Ho sempre scelto io. Mai avuto per casa orsi che mi sbuffano sul collo. C’erano lunghi preamboli prima di concludere. Si ballava. Non si faceva ginnastica come adesso. Cercavo personalità integre.

Gigi Rizzi era un playboy, però dolce, buono. Ci siamo rivisti dopo vent’anni e ci siamo messi a piangere come due vitelli. C’è stato molto dare e molto ricevere tra me e gli uomini. Detesto l’avarizia. Con un avaro non ti godi neppure un tramonto, perché è suo, non è nostro».

Come mai li mollava con tanta facilità?

«Arrivava sempre qualcun altro. Sono molto libera. Quando subentra il possesso, scappo. Sono single per vocazione. Non riesco a vivere in una famiglia. Dopo due giorni che sto a casa di mia figlia, divento matta».







Mi racconti del Rugantino. La verità.

«È un giallo irrisolto. Fu il mio amico Peter Howard Vanderbilt, un miliardario gay americano che mi mandava le orchidee dalle Bahamas, a insistere per offrirmi la festa di compleanno. C’erano tutti, anche Anita Ekberg. D’improvviso entrò in scena questo pappagallo di tutti i colori». Intende dire Aiché Nanà?

«Era stripteaser in un locale di infima categoria. Pittata fino alla punta di piedi, ballava facendo scivolare la spallina per i fotografi. La affrontai a muso duro: scusi, ma lei chi l’ha invitata? “Lo so io”, mi rispose. Il proprietario del locale non era stato, Peter non era stato.

Lo scandalo fece il giro del mondo. La rottura con i miei diventò definitiva. L’unico a intercedere fu re Umberto, che da Cascais mi mandò Falcone Lucifero, il ministro della Real Casa, a chiedermi se poteva fare qualcosa per me».

Ma lei è monarchica?

«No. Però, vedendo che cosa produce la democrazia, provo un senso di compassione per i sovrani oberati di doveri e privi di diritti. Io sarei per una monarchia di sinistra. Come si può fare? Comunque re Umberto era un uomo di un’umiltà straordinaria, un prete».

Stima anche suo figlio Vittorio Emanuele, Marina Doria e il principino Emanuele Filiberto?

«Loro sono soltanto grotteschi».

Aiché Nanà ha raccontato che quella notte eravate tutti ubriachi.

«Fesserie».

Non era brilla neppure la sera che si tuffò nella Fontana di Trevi?

«Manco per sogno. Uscivo da un ristorante dopo aver cenato con Franco Rossellini e Guidarino Guidi, l’aiuto regista di Fellini. Faceva un freddo becco. Siccome Guidi era uno spilorcio leggendario, lo provocai: scommetti diecimila lire che faccio il bagno nella fontana? Ero sicurissima che non avrebbe mai rischiato un centesimo. E invece lui mise i bigliettoni sul muretto: “Dai, buttati!”.

Che dovevo fare? Mi tuffai. Guidi raccontò la scena a Fellini, che la ripeté tale e quale ne “La Dolce vita” con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. M’avessero almeno pagato i diritti... Invece le diecimila lire servirono a saldare la multa “per inquinamento di acque pubbliche”».

Una persecuzione.

«Certo non la peggiore. A un certo punto dovetti nascondermi in un paesino vicino a Saint Tropez. Ero al nono mese di gravidanza. Ebbi una perdita e svenni per strada. Fortuna volle che passasse di lì il barone Jean Rothschild.

Qualche giorno dopo raggiunsi Parigi in treno. Morivo di fame. Telefonai a mia zia Olga, che allertò Rubinstein per farmi ricoverare in una clinica. Ma io una sera me ne andai al cinema. Si ruppero le acque mentre guardavo il film. Non sapevo niente di queste cose, credevo d’essermi fatta la pipì addosso. La mattina dopo mi ritrovai in ospedale col celebre pianista e sua moglie al capezzale. S’erano messi in testa di adottare la bambina che stava per nascere».

E lei?

«Non ci pensavo nemmeno a lasciargliela, ma scherziamo? Solo che poi, quando la piccola ebbe un anno, mia madre me la fece portar via dai carabinieri, dicendo che ero matta. Quando la riebbi, al termine di un lungo processo, aveva già 6 anni».

Mi tolga un’ultima curiosità. Perché detesta tanto la principessa Alessandra Borghese, poveretta?

«Lei, Sibilla della Gherardesca, Lina Sotis... Perché non bisogna scrivere libri di bon ton. Ognuno ha diritto di avere la sua educazione. Io rispetto il contadino che a tavola mi augura “buon appetito”. E anche il re del Marocco che a tavola rutta: è il suo ton».

Stefano Lorenzetto, gennaio 2004.


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Giampaolo Marseglia

C’è stato un periodo della nostra storia recente che tutti hanno sentito nominare e che è stato battezzato dall’immaginario collettivo “dolce vita”.

Per “dolce vita” si intendono quegli anni che vanno dalla fine dei ‘50 ai primi anni ’60.  Un periodo favoloso, soprattutto per la Capitale, ribattezzata Hollywood sul Tevere, con il boom economico che fa immaginare raggiungibile ogni sogno, il mito dell’America che ci arriva soprattutto grazie ai film, gli attori e le attrici che scorrazzano per via  Veneto e sorseggiano aperitivi al Caffè de Paris, e l’idea condivisa anche da chi sta solo a guardare che niente di male possa più accadere dopo la fine della guerra.

Ebbene, molti fanno iniziare quel periodo spumeggiante, travolgente e pieno di pazza superficialità con un evento particolare, una cena di compleanno tenutasi nel ristorante Rugantino, in Trastevere, allora uno dei locali più famosi della città. Era il 5 novembre del 1958, e la contessina Olghina di Robilant festeggiava il suo 24esimo compleanno quando, all’improvviso, accadde qualcosa che, sostiene la diretta interessata, provocherà uno scandalo mondiale e che le rovinerà la vita per molti anni a seguire.

Ma per capire tutta la storia, dobbiamo prima conoscere Olghina de Robilant, contessa, giornalista, scrittrice e blogger, una delle nobildonne più in vista nell’Italia modaiola di quell’epoca, che come nessuna seppe osservare e descrivere i vezzi e i vizzi degli italiani, nuovi e vecchi Paperoni arrivisti e danarosi, nobili o plebei “ripuliti”, tutti docili schiavi della “dolce vita”...

Olga Nicolis di Robilant e di Cereaglio nasce a Venezia il 3 novembre del 1934, secondogenita del Conte Carlo Nicolis di Robilant – a sua volta primogenito di Edmondo Nicolis di Robilant e di Valentina Mocenigo – e di Caroline Kent, americana di Ashville, Nord Carolina.

Quella di sposare un’americana è una sorta di tradizione acquisita nell’ultimo secolo, che vede i rampolli della nobiltà europea imparentarsi con belle e giovani miliardarie americane, capaci a fronte di un titolo di rinvigorire il sangue e le fortune di famiglie che affondano le loro origini nei secoli passati. Tanto la pratica ebbe successo che dalla metà dell’ottocento circa fino agli anni ’50, l’America esportò oltre quarantadue principesse, sessantaquattro baronesse, e ben più di centoventisei contesse.

Olghina e suo fratello maggiore Federico – nato nel 1930 e morto nel 1968 –  appartenenti dunque a una di queste famiglie “miste”, crescono nella residenza paterna di Palazzo Mocenigo, a Venezia, ma nel settembre del 1943, in piena Seconda guerra mondiale, si trasferiscono a Roma.

Il conte Carlo, da un certo punto del conflitto in poi, è passato con la Resistenza ed è stato ufficiale dell’aeronautica militare con l’incarico di collegamento con gli alleati.  Per questo, alla fine della guerra, compie un lungo viaggio negli States, portando con sé la famiglia e, al rientro, nel 1946, si ferma in Portogallo presso la sorella Olga, marchesa di Cadaval.

Lì lascia per qualche tempo Olghina che così a Sintra, nella villa “Bela Vista”, conosce informalmente la famiglia reale italiana in esilio, e soprattutto Umberto II di Savoia, che rivedrà poi di nuovo durante altri viaggi presso la zia. 

Con l’adolescenza, Olghina viene mandata a frequentare le scuole più prestigiose d’Europa, a cominciare dal collegio svizzero La Combe, oggi integrato con il collegio Le Rosey, e in seguito il collegio Riante Rive, a Losanna, dove consegue la maturità.

Amante del bello, con un innegabile talento artistico, al rientro in Italia Olghina ottiene di seguire i corsi del’Accademia d’Arte di Venezia, sotto la guida del maestro Bruno Saetti. Appena sedicenne, però, nel 1950, vengono a mancare sia sua nonna paterna, Valentina, che la cugina di primo grado, anche lei di nome Olga, figlia primogenita della contessa di Cadaval.

Suo padre Carlo, che nel frattempo si è separato dalla moglie, decide così di partire per il Portogallo e di stabilire a Sintra anche la sua residenza. Olghina lo segue, e resta in Portogallo per tutti gli anni ’50, sebbene viaggi spesso per raggiungere Roma dove, dal 1956, ottiene saltuariamente delle parti in pellicole cinematografiche.

E’ bella, elegante, nobile, un vero sogno che tutti si contendono. In più è arguta, colta, intelligente, ironica e divertente e così lavora occasionalmente anche per il giornalismo, scrivendo articoli salaci che mettono alla berlina nomi illustri dell’epoca, e non solo.

Nel 1958, Olghina si trasferisce definitivamente a Roma, dove diventa pubblicista e continua la sua carriera. Il 5 novembre di quell’anno, festeggia il compleanno al Rugantino. Si tratta di una festa del bel mondo, con tantissimi ospiti importanti dai nomi altisonanti, e tutto procede bene tra balli e champagne quando una delle ospiti – o presunta tale – la ballerina turca Aichè Nanà non inizia uno spogliarello che va avanti  fino alla fine tra gli sguardi lascivi degli ospiti e i flash dei fotografi tra i quali il noto Tazio Secchiaroli, che sancirà con quelle foto la sua fama.

Lo scandalo esplose violentissimo e in breve tempo è sulle prime pagine di tutti i giornali con titoli che vanno da “L’orgia dell’aristocrazia romana”, a “La diciottenne turca si spoglia al Rugantino per la nobiltà”. Tutti gli occhi si puntano sulla povera Olghina, che in realtà non c’entra nulla e la giovane nobile ne è quasi sopraffatta.  Racconta lei stessa:

“In realtà, quella sera si trattava di una cena privata organizzata da Peter Howard Vanderbilt per il mio compleanno, il quale aveva requisito (pagandolo) l’intero locale insieme alla “Rome New Orleans jazz band” di Carletto Loffredo.

Feci personalmente gli inviti insieme a Guidarino Guidi, assistente di Federico Fellini, il quale stava girando “La Dolce vita”, e continua: “I fotografi non erano invitati, bensì infiltrati al seguito di Anita Ekberg, probabilmente per pubblicizzare il film di Fellini […]La turca Aichè Nanà e il suo compagno, signor Pastore, non erano invitati bensì imbucati; molto probabilmente su istigazione di qualche non invitato o di qualche burlone, forse addirittura pagati per portare scompiglio e scandalo.”

Insomma, la reputazione di Olghina viene in buona parte rovinata da quella storia che oggi farebbe sorride in un convento, ma che allora è uno scandalo insopportabile che fa il giro del mondo, tanto che la contessina decide di lasciare momentaneamente l’Italia.

Incinta di 4 mesi, Olghina  si trasferisce in Francia dove mette al mondo la sua prima figlia, Paola.  Solo dopo il fiocco rosa rientrerà a Roma dove inizierà a collaborare con parecchi quotidiani e settimanali, a volte in modo anonimo, con l’alias “La contessa azzurra”. Nel 1960 inizia una collaborazione fruttuosa con il settimanale Lo Specchio. In seguito lavora a People Magazine, Esquire e Momento sera.  

Olghina si sposa nel 1966 con il pittore Antonello Aglioti e nel 1972 nasce Valentina, sua seconda figlia. Il matrimonio finisce poco dopo, e Olghina inizia una collaborazione al Giornale d’Italia, dove continua a raccontare il gossip soprattutto del bel mondo e della nobiltà mentre scrive libri di non poco successo compresi alcuni di letteratura rosa.

Nel 1991 uscirà il libro autobiografico "Sangue Blu", sempre per Mondadori, e negli anni successivi due libri con la casa editrice Mursia: "Nobiltà" e "Snob". Dal 2001 al 2006 ha collaborato con il sito internet Dagospia, curando la rubrica L'occhio di Olghina. Da anni non vive più a Roma ma in Toscana, e dal 2006 cura il suo blog personale Olgopinions.  Ancora oggi alcuni suoi articoli fanno sensazione e, non raramente, influenzano la moda. Normale, del resto, per la donna che con la sua festa di compleanno ha dato il via alla “dolce vita”.        

Anna Paratore, giugno 2017.


da Napoli, lunedì 28 settembre 2020 alle ore 20:24:44
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