Olghina di Robilant
Lo Scià di Persia le inviava fasci di rose rosse. Re Faruk d’Egitto le regalò il suo panfilo e lei lo rifiutò. Poteva sposare Juan Carlos di Spagna. Ma alla fine ha sempre scelto la libertà. Pagandola cara.
Andare a casa di Olghina di Robilant, la dissipazione fatta persona, è come far visita a Norma Desmond di “Viale del tramonto”. Con la differenza che lei non è più Gloria Swanson e io non sono mai stato William Holden.
«Mi raccomando: venga da solo, niente fotografi», aveva ordinato spicciativa al telefono. «Ho le rughe». Un tentativo di togliersele passando il ritratto nello scanner è crudelmente abortito. «Guardi qua che roba», mostra la fronte calcinata al computer, «ho pasticciato con lo sfumino del programma di fotoritocco».
Non saprei dire se sia più donna o più giornalista, di sicuro a 69 anni compiuti la musa ispiratrice della Dolce Vita riesce ancora a trattare queste faccende da entrambi i punti di vista.
L’ombra di quella che fu la spregiudicata, la provocante, la splendida Olghina di Robilant sembra aver finalmente raggiunto la quiete. Ha frequentato tutti gli uomini che desiderava: Ernest Hemingway, Tennessee Williams, Truman Capote, re Umberto, Luchino Visconti, Federico Fellini, gli armatori Niarchos e Onassis, Burt Lancaster, Tony Curtis.
Ha sedotto tutti quelli che voleva: Juan Carlos di Borbone, Lorin Maazel, Warren Beatty, Tony Franciosa, Alain Delon («un maschio solare, la virilità assoluta»), Antonio Gades («ti lasciava sulle labbra un sapore di fragola e violetta»), Maurizio Arena, financo Bobby Solo.
Ha respinto i più insistenti nel corteggiarla, dallo Scià di Persia, che credeva di farla capitolare con fasci di rose rosse, a re Faruk d’Egitto, che vedendosi restituire un orologio granellato di diamanti e rubini cercò di farsi perdonare regalandole il suo panfilo: rifiutato anche quello. «Anni dopo ho incontrato l’ex sovrano vicino a Porta Pia mentre sorbiva un caffellatte. Era ancora indignato: “Quando un arabo ti fa un dono, devi accettarlo e basta, altrimenti lo offendi».
Ci fu lei, l’intemperante Olghina dai lunghi capelli biondi, all’origine del primo scandalo dell’Italia postbellica. A Roma correva l’anno 1958, mese di novembre, l’1 dedicato ai santi, il 2 ai morti, il 3 ai vivi, perché bisognava pur festeggiare degnamente la contessina veneziana nata in quel giorno, 24 anni prima, sul Canal Grande.
Al Rugantino, ristorante di Trastevere, si ritrovò attorno a lei la corte di perdigiorno che Ennio Flaiano aveva stroncato con una delle sue fulminanti battute: «Ragazzi, stasera vado via presto perché domattina devo alzarmi tardi». D’improvviso, Aiché Nanà, prorompente ballerina insignita in patria del titolo di miss Bosforo, fece scivolare la cerniera lampo del vestito e rimase con le sole mutandine di pizzo nero a dimenarsi su un tappeto di giacche da uomo. Irruppe la polizia e mise «in istato di fermo i partecipanti al turpe festino».
Tazio Secchiaroli, il principe dei paparazzi, portò le foto all’Espresso. Eugenio Scalfari, già allora molto sensibile alla deontologia («venderemo un sacco di copie, il che non fa male»), ne suggerì l’immediata pubblicazione al riluttante direttore Arrigo Benedetti. Titolo: «La turca desnuda».
Malgrado le pecette nere collocate nei punti strategici, il settimanale fu subito sequestrato. In compenso i comunisti poterono scagliarsi contro i ricchi smidollati, i liberali invocare accertamenti fiscali sugli amici della festeggiata, i cattolici indignarsi per la profanazione della Città Sacra.
«A distanza di 45 anni non so ancora chi abbia invitato la spogliarellista Aiché Nanà alla mia festa di compleanno al Rugantino. L’unico che mi difese fu re Umberto. Mi tuffai nella Fontana di Trevi per scommessa: io pagai una multa, Fellini ne fece un film».
Il viale del tramonto di Olghina di Robilant è quello carducciano, noblesse oblige, delimitato dai cipressi che a Bolgheri alti e schietti van da San Guido in duplice filar. Si svolta su una strada sterrata, in fondo alla quale t’aspetteresti di entrare dentro una pagina patinata di Ville & Casali.
Ma invece di una magione di mattoni rossi, con le botti di Sassicaia a riposare nelle cantine, ti ritrovi davanti un anonimo casermone di contadini, galleggiante sul fango, un cortiletto ingombro di bombole del gas, cucce schiodate e giocattoli stinti dal sole. «Di mio non ho più nulla, neanche la casa. Sto qui per gentile concessione dei marchesi Incisa della Rocchetta, che mi hanno offerto queste stanze in comodato gratuito. Mi restano cinque cani e le sigarette. Che dice, possono sequestrarmeli?».
Non credo.
«Meno male. Ho solo la pensione sociale. Mi aiuta una delle mie due figlie. Ciò che vede è tutto suo, compreso il computer che mi serve per spedire i miei pezzulli al sito Dagospia».
Avesse sposato Juan Carlos, oggi sarebbe regina di Spagna.
«Non se lo poteva permettere. Doveva sposare la donna che avevano stabilito di dargli. A differenza del figlio Felipe, non ha mai preso una decisione personale. Quel pover’uomo vive una vita sua solo quando va in moto: s’infila il casco e nessuno lo riconosce».
Quant’è durata?
«Un paio d’anni. Lui ne aveva 16, io 19. Mi sentivo la nave scuola».
Le ha lasciato una figlia...
«Non è figlia di Juan Carlos».
Sa almeno chi è il padre?
«Lo so, ma non lo dico».
A sua figlia l’ha detto?
«L’ho detto».
È stata contenta?
«No. Si vede che in fatto di uomini non abbiamo gli stessi gusti».
Pare che anche suo bisnonno, Carlo Felice di Robilant, fosse figlio naturale. Di re Carlo Alberto.
«Pare? È storia. Anche mio papà si chiamava Carlo Felice. Ufficiale di Marina, passò nell’Aeronautica e fu mandato a Tobruk col suo idrovolante».
E sua madre?
«Si chiamava Caroline Kent. Suo padre possedeva vaste tenute di cotone ad Asheville, North Carolina. Restò orfana. Erano cinque sorelle. La loro madre, per distrarle, le portò a Roma. Presero una suite all’hotel Byron di via Veneto. Fu lì che i miei genitori si conobbero.
Il vecchio Kent, prima di morire, aveva raccomandato alla moglie: “Piuttosto che a dei nobili europei, meglio che le nostre figlie vadano a dei poveracci americani”. Per cui i miei dovettero sposarsi clandestinamente a Venezia. Non c’è un invito di nozze o un posacenere che ricordi il loro matrimonio».
E a Venezia nacque lei.
«La mia nursery era nella camera di Palazzo Mocenigo in cui aveva soggiornato Lord Byron». A Palazzo Mocenigo era di casa Hemingway.
«Lo chiamavamo Papa. Lui e papà bevevano come due mascalzoni. Veniva spesso a trovarci anche a Cortina. Batteva a macchina stando in piedi, le pagine erano una vera schifezza, una riga su, una giù. Sul finire di un’estate mi regalò due racconti scritti per me, il primo su un leone che arriva a Venezia dall’Africa e s’ubriaca all’Harry’s Bar, il secondo su Ferdinando il toro che s’innamora dei fiori fino a perdere la sua potenza sessuale. Una parodia di sé stesso».
Perché dice così?
«Alle corride si nascondeva dietro il torero. Non aveva coraggio: io posso affermarlo perché ho toreato per davvero. Aveva un malanno a un rene. Si fermava a ogni cantone a far pipì. Con le donne non combinava un bel niente. Faceva solo finta. Portava in gondola la Adriana. Tutto lì».
Adriana Ivancich, la ragazza che gli ispirò il personaggio di Renata in “Di là dal fiume e tra gli alberi?”
«L’unica donna che abbia veramente amato. Voleva sposarla: lo confidò a mia madre. “Tu sei pazzo”, lo rimproverò mamma, che diede manforte alla moglie del romanziere, Mary, per convincere Adriana a lasciarlo perdere».
Perché una contessa decise di fare la giornalista?
«Perché dovevo mangiare. Da piccola chiedevo la luna e mi davano la luna. Poi un giorno mi dissero: “La luna è finita”. In una generazione avevano sperperato il patrimonio di famiglia. A 16 anni mia madre mi mandò fuori di casa. Vagabondavo per l’Europa con l’autostop. A 21 arrivai a Roma. Mi presero come segretaria alla TWA. Fellini raccontava che mi licenziarono in tronco per aver spedito a Bombay due indiani che volevano visitare Pompei».
È vero?
«No. Cioè sì. È vero che i due passeggeri chiesero a me le informazioni sulla gita. Pompei... Bombay... Non è che l’inglese parlato dagli indiani sia molto chiaro. Io capii che volevano cambiare il biglietto aereo. Si accorsero dell’equivoco in volo. Ma non fui licenziata per questo. La TWA doveva tagliare il personale, il direttore della compagnia mi convocò: “Ho scelto lei. Una di Robilant non ha bisogno di lavorare”. Puro odio di classe».
E lei si buttò sui giornali.
«Ugo Zatterin, che dirigeva Telesera, mi assunse con Marcello Mancini, un collega che veniva da un quotidiano cattolico. Ci affidò la rubrica “Contessa azzurra”. Essendo un quotidiano del pomeriggio, finivamo di scriverla alle 6 del mattino, mettendoci dentro i pettegolezzi sui party della sera prima. Piacque molto a Pier Francesco Pingitore».
Il regista del Bagaglino?
«Allora era caporedattore del settimanale Lo Specchio. M’ingaggiò, assegnandomi la rubrica “Cronache bizantine”. Mio padre, monarchico ma antifascista, si vergognava a morte che lavorassi per un periodico reazionario. Io manco me ne rendevo conto. Ero di un’ignoranza abissale: nelle case patrizie non si parlava mai di politica, un argomento considerato volgare.
M’interessavano solo gli scoop mondani. Raccontavo i re in pantofole. E così pure i divi. Ero amica di Cole Porter, padrino di battesimo di mio cugino. Dalla nostra casa di Venezia passavano tutti: Errol Flynn, Alberto Sordi, Sophia Loren...».
È stata la Elsa Maxwell d’Italia.
«Per carità! Un donnino disgustoso e invadente, un pozzo di malignità oscene. Allungava le mani. Ci ha provato anche con me. Fece cadere tra le braccia di Onas- sis prima Maria Callas, che era la sua protetta, e poi Jacqueline Kennedy. Non ho mai perdonato a mia zia d’averle prestato per una festa mascherata il corno rosso del doge Mocenigo che tenevamo sotto una campana di vetro».
Anche lei non scherzava, in fatto di malignità: sullo Specchio trafisse l’attore Helmut Berger definendolo «la marchetta tedesca che ha stregato Visconti».
«Non credo d’averlo scritto. Al massimo l’avrò detto. Mai preso una querela per un articolo».
Poteva aspirare a Paris Match ed è finita al Gazzettino.
«Mi hanno assunto come collaboratrice cinque volte e cinque volte mi hanno fatto le scarpe».
Chi?
«Capi e redattori. Non sono veneziani. È tutta gente di terraferma. Arrivisti che credono d’aver conquistato la città e usurpano il posto dei veneziani veri. Siccome non se la possono prendere con i leoni, cioè i politici e gli industriali, strapazzano i gatti, gli aristocratici, che sono quattro. Ma anche i loro direttori glieli raccomando. In tre mi hanno fissato un appuntamento e poi non si sono fatti trovare».
Che gente.
«Anche a Momento sera, quotidiano romano del pomeriggio dov’ero diventata redattore capo, ne ho conosciuti di pessimi. A uno ho dato del cretino. Salvatore D’Agata, che poi avrebbe fatto carriera in Rai, mi tartassava per partito preso, non ho mai capito perché. Ero incinta e mi costringeva a passare ore in corridoio con la nausea a far niente».
Chi è il giornalista più bravo?
«Giorgio Bocca».
Lo conosce?
«È mio consuocero. Prima di cominciare questo mestiere mi piaceva Montanelli. Un po’ banderuola, come tutti i toscani».
Il direttore d’orchestra Maazel l’ha paragonata a un leone. È davvero così selvaggia?
«Ho vissuto da selvatica, sì. Mi sono presa delle libertà che nessuna mia coetanea avrebbe osato prendersi a quel tempo. Ma non rimpiango nulla. Carpe diem. Non ho perso nessun treno, tranne quello del guadagno facile. Pensi se fossi arrivata alla mia età negandomi tutto quello che invece mi sono concessa, a cominciare dai bei tosi».
Ha avuto solo flirt o anche grandi amori?
«Gli uni e gli altri. Con Tony Franciosa ho avuto una storia lunga. Con Warren Beatty un accostamento. Con Lorin Maazel è andata avanti per un anno e mezzo.
Mi mandava le poesie. Una sera, prima di un concerto alla Fenice, mentre cenavamo con Igor Stravinskij e Arthur Rubinstein, si mise a canticchiare L’uccello di fuoco per me. Stravinskij saltò su: “Come ti permetti? Questa musica l’ho composta io”. Voleva essere lui a offrirmela.
Più tardi, a teatro, Lorin scandì rivolto verso il pubblico: “Dedico questo mio “Uccello di fuoco” a Olghina”. Sarei sprofondata sotto la poltrona». (Va a prendere una foto giovanile del maestro, corredata dalle note di Stravinskij riportate sul pentagramma e da questa dedica autografa: «Mentre il maestro dirigeva, l’uccello cantava». O Maazel non conosceva la lingua o era molto insistente).
Alla fine s’è ridotta a Bobby Solo. Come ha potuto?
«Io avevo 31 anni, lui 22. Era un sentimentalone tremendo. Non gli andava bene nessuna. Ma se gli scombinavi il ciuffo, diventava carino. Aveva un bel fisico. Una volta ha sfondato l’abbaino e mi è entrato in casa dal tetto. Credeva che fossi chiusa dentro con un altro».
C’è ancora qualche uomo che la fa impazzire?
«Tom Selleck. Ho registrato tutti i suoi film. Se George Clooney rifà davvero Magnum PI, come ha annunciato, lo picchio. Selleck ne vale tre di Clooney. E trovo molto attraente anche quello stupidotto che ha vinto all’Isola dei famosi, come si chiama?».
Walter Nudo.
«Xe un bel toso. Gli occhi non sono ancora morti».
Che cosa cercava negli uomini?
«Il sentimento. L’erotismo veniva dopo. Ho sempre scelto io. Mai avuto per casa orsi che mi sbuffano sul collo. C’erano lunghi preamboli prima di concludere. Si ballava. Non si faceva ginnastica come adesso. Cercavo personalità integre.
Gigi Rizzi era un playboy, però dolce, buono. Ci siamo rivisti dopo vent’anni e ci siamo messi a piangere come due vitelli. C’è stato molto dare e molto ricevere tra me e gli uomini. Detesto l’avarizia. Con un avaro non ti godi neppure un tramonto, perché è suo, non è nostro».
Come mai li mollava con tanta facilità?
«Arrivava sempre qualcun altro. Sono molto libera. Quando subentra il possesso, scappo. Sono single per vocazione. Non riesco a vivere in una famiglia. Dopo due giorni che sto a casa di mia figlia, divento matta».
Mi racconti del Rugantino. La verità.
«È un giallo irrisolto. Fu il mio amico Peter Howard Vanderbilt, un miliardario gay americano che mi mandava le orchidee dalle Bahamas, a insistere per offrirmi la festa di compleanno. C’erano tutti, anche Anita Ekberg. D’improvviso entrò in scena questo pappagallo di tutti i colori». Intende dire Aiché Nanà?
«Era stripteaser in un locale di infima categoria. Pittata fino alla punta di piedi, ballava facendo scivolare la spallina per i fotografi. La affrontai a muso duro: scusi, ma lei chi l’ha invitata? “Lo so io”, mi rispose. Il proprietario del locale non era stato, Peter non era stato.
Lo scandalo fece il giro del mondo. La rottura con i miei diventò definitiva. L’unico a intercedere fu re Umberto, che da Cascais mi mandò Falcone Lucifero, il ministro della Real Casa, a chiedermi se poteva fare qualcosa per me».
Ma lei è monarchica?
«No. Però, vedendo che cosa produce la democrazia, provo un senso di compassione per i sovrani oberati di doveri e privi di diritti. Io sarei per una monarchia di sinistra. Come si può fare? Comunque re Umberto era un uomo di un’umiltà straordinaria, un prete».
Stima anche suo figlio Vittorio Emanuele, Marina Doria e il principino Emanuele Filiberto?
«Loro sono soltanto grotteschi».
Aiché Nanà ha raccontato che quella notte eravate tutti ubriachi.
«Fesserie».
Non era brilla neppure la sera che si tuffò nella Fontana di Trevi?
«Manco per sogno. Uscivo da un ristorante dopo aver cenato con Franco Rossellini e Guidarino Guidi, l’aiuto regista di Fellini. Faceva un freddo becco. Siccome Guidi era uno spilorcio leggendario, lo provocai: scommetti diecimila lire che faccio il bagno nella fontana? Ero sicurissima che non avrebbe mai rischiato un centesimo. E invece lui mise i bigliettoni sul muretto: “Dai, buttati!”.
Che dovevo fare? Mi tuffai. Guidi raccontò la scena a Fellini, che la ripeté tale e quale ne “La Dolce vita” con Anita Ekberg e Marcello Mastroianni. M’avessero almeno pagato i diritti... Invece le diecimila lire servirono a saldare la multa “per inquinamento di acque pubbliche”».
Una persecuzione.
«Certo non la peggiore. A un certo punto dovetti nascondermi in un paesino vicino a Saint Tropez. Ero al nono mese di gravidanza. Ebbi una perdita e svenni per strada. Fortuna volle che passasse di lì il barone Jean Rothschild.
Qualche giorno dopo raggiunsi Parigi in treno. Morivo di fame. Telefonai a mia zia Olga, che allertò Rubinstein per farmi ricoverare in una clinica. Ma io una sera me ne andai al cinema. Si ruppero le acque mentre guardavo il film. Non sapevo niente di queste cose, credevo d’essermi fatta la pipì addosso. La mattina dopo mi ritrovai in ospedale col celebre pianista e sua moglie al capezzale. S’erano messi in testa di adottare la bambina che stava per nascere».
E lei?
«Non ci pensavo nemmeno a lasciargliela, ma scherziamo? Solo che poi, quando la piccola ebbe un anno, mia madre me la fece portar via dai carabinieri, dicendo che ero matta. Quando la riebbi, al termine di un lungo processo, aveva già 6 anni».
Mi tolga un’ultima curiosità. Perché detesta tanto la principessa Alessandra Borghese, poveretta?
«Lei, Sibilla della Gherardesca, Lina Sotis... Perché non bisogna scrivere libri di bon ton. Ognuno ha diritto di avere la sua educazione. Io rispetto il contadino che a tavola mi augura “buon appetito”. E anche il re del Marocco che a tavola rutta: è il suo ton».
Stefano Lorenzetto, gennaio 2004.