Yukio Mishima

Storia

Giampaolo Marseglia

da Napoli, martedì 29 settembre 2020 alle ore 20:43:39

Yukio Mishima, per tutto il corso della sua breve vita (14 gennaio 1920 - 25 novembre 1970), ha fortemente voluto che l’opera venisse declinata alla luce dell’azione, del gesto muscolare, addirittura della postura.

Era ossessionato dalla purezza, dalla cura del corpo, dal rapporto tra erotismo e morte (nel 1955 aveva conosciuto a Parigi Georges Bataille, e si trattò di un incontro per lui cruciale), dal culto del «sole della morte», dalla ricerca di un’ascesi possibile nel secolo che aveva abiurato all’assoluto. Dall’odio per la democrazia e per il materialismo.

Volle indossare i panni di un antico samurai e di un San Sebastiano. Già a vent’anni il suo motto era questo: «Vivere e morire per l’imperatore». Il valore intrinseco della lettera non poteva bastargli, era semmai la parte certo non secondaria di un insieme convulso, tempestoso, nevrotico.

«Il mio stile», affermava, «teneva il petto in fuori come un guerriero» oppure, ancora, in un testo finito di scrivere proprio nell’agosto del 1970, a circa tre mesi dalla morte, ricordava come «nell’attimo in cui la spada viene sguainata si concentra l’essenza della bellezza maschile. La mano sinistra preme con forza sulla guaina, la destra estrae la spada e il petto si protende mentre il braccio con un movimento ampio e possente vibra il colpo mortale all’avversario: quando questi movimenti fluiscono armoniosi come acqua, nello “iai” si manifesta la bellezza degli antichi guerrieri».

Il primo libro tradotto in italiano, La voce delle onde, venne dato alle stampe dall’editore Feltrinelli nel 1961. A seguire, e fino al giorno dello spettacolare suicidio, uscirono Il Padiglione d’oro (’62), Dopo il banchetto (’64), L’amore dell’abate di Shiga (un racconto incluso nel ’65 in un’antologia dedicava ai narratori giapponesi moderni), Il sapore della gloria (’67) e Confessioni di una maschera (’69), il romanzo che esattamente due decenni prima aveva segnato l’esordio dello scrittore ancora giovanissimo, appena ventiquattrenne.

Queste opere furono accolte dalla critica e dal pubblico dei lettori (parliamo dell’Italia) con una certa curiosità, mentre l’interesse e la partecipazione che suscitarono non si possono certo definire eclatanti.

Anche la stampa di estrema destra non si curava di assumerlo nel proprio pantheon culturale, pubblicato com’era sotto l’egida di un editore di sinistra.

Fu, dunque, dopo la clamorosa messa in scena del suicidio rituale che Mishima divenne di colpo tutt’altro che un esile mito. Quell’evento indusse molti alla lettura o alla rilettura dei romanzi e il fascino – chiamiamolo pure così – dell’autore si allargò a dismisura e in più direzioni.

Da un lato, finì presto per segnalare un solco profondo o, ancora meglio, una linea di demarcazione simbolica, vale a dire la fine di qualcosa di attinente alla letteratura stessa, più precisamente al romanzo e al suo destino futuro, come se quello di Mishima fosse un corpo mistico ed eucaristico: il sangue versato la mattina del 25 novembre a Tokio, quando – dopo avere arringato un migliaio di militari via via sempre più irridenti e sghignazzanti – si tolse la vita facendo harakiri insieme al camerata e amante Morita.

Dall’altro lato, in Italia e in tutta Europa, diventò fin da subito l’icona perfetta del sacrificio supremo gettato in faccia all’abominevole modernità in nome dei valori spirituali chiusi nel cuore di una tradizione umiliata e vilipesa.

Era, ancora una volta, il mito della bella morte ad affacciarsi con prepotenza sul palcoscenico del mondo. Era la nobiltà della sconfitta (secondo il titolo del celebre libro di Ivan Morris del 1975) a urlare contro il vento sordo e cieco della storia la rivolta ideale di chi non si rassegnava a smettere di cavalcare la tigre dell’eroismo.








Riflessioni sulla morte di Yukio Mishima


Nell’estate del 1980 a San Francisco, in California, trovai tra gli scaffali della libreria City Lights di Lawrence Ferlinghetti, poeta ed editore della beat generation americana, la prima edizione di Reflections on the death of Mishima di Henry Miller. Il libro, pubblicato nel 1972 dall’editore Capra Press di Santa Barbara, venne tradotto in italiano soltanto nel 2009 da Roberto Rossi Testa e pubblicato dalla casa editrice ES nella raccolta di saggi di Yukio Mishima La spada, per poi essere stampato come volume singolo nel 2016 dalle Edizioni Feltrinelli.

Quando ebbi tra le mani lo scritto di Miller provai un’intensa scarica di adrenalina che mi riportò alla mente l’istante in cui Yukio Mishima, da sempre posseduto dalla vertigine del suicidio, si diede la morte secondo il Seppuku, antico rituale dei samurai nipponici. A sconvolgermi non fu l’idea del togliersi la vita con le proprie mani, quanto la determinazione e la violenza che quel gesto, compiuto da un uomo che voleva consegnarsi alla storia, trasmetteva ai comuni mortali: un atto liberatorio totale che poneva Mishima contro l’intero universo vivente. La sua fine atroce, culminata con la decapitazione compiuta dal fedele Morita, rappresentava la più radicale liberazione dall’oppressione e dall’alienazione creativa che comporta il vivere prima e lo scrivere poi.

Il suicidio di Mishima però non incarnava un gesto apocalittico, semmai indicava la via per la conquista dell’immortalità e la testimonianza del coraggio di un uomo, scrittore e poeta, che volle sottrarre la vita al flusso del tempo, trasformando la morte in un’opera estetica più autentica di qualunque artistico inganno possibile: uccidersi era la sfida necessaria al sublime e definitivo istante folgorante, un ritorno all’elemento fatale come affermazione assoluta della volontà del proprio Io.

Henry Miller amava la vita anarchica condotta all’estremo delle conseguenze, spinta al rifiuto delle convenzioni morali, politiche ed economiche borghesi. Piuttosto che lasciarsi affascinare dalla civiltà dell’homo oeconomicus americano, Miller, negli Stati Uniti, scelse di ritirarsi nei pressi delle spiagge fredde e deserte di Big Sur a osservare il frangersi delle onde del mare e le grandi balene che d’inverno nuotano al largo delle acque antistanti quel lembo di terra californiana incontaminata. E fu proprio in quel luogo fuori dal tempo che iniziò a riflettere sulla morte di Mishima.

In nome della libertà di parola e di espressione, Miller aveva scelto di sperimentare il miracolo della vita eccedendo sempre, e a chi lo interrogava sui suoi eccessi replicava: «Sii ciò che sei, ma siilo al massimo». Forse per questo, dalla morte volontaria dell’intellettuale giapponese, Miller capì che non occorreva credere in qualcosa o sapere, ma anzitutto agire, e in Mishima non vide l’eroe che si innalza al di sopra della forza, né il fanatico, né l’agitatore politico, ma colse l’Assoluto che scorreva nel suo sangue, la forza dell’uomo orientale in grado di superare quelle situazioni limite che di solito condannano l’Essere allo scacco o al naufragio.

Mishima aveva superato l’impasse determinato dal bivio esistenziale costituito dal dover scegliere tra lo scrivere e l’agire politicamente per rinnovare il paese del Sol Levante: togliendosi la vita aveva abbracciato Thanatos per sempre, ma sacrificandosi in nome del suo ideale politico aveva sprigionato un atomo di libertà. Fu proprio questa indomita e titanica determinazione a colpire la sensibilità di Miller che ammise di aver pensato anche di suicidarsi ma si ritrovò come trattenuto misteriosamente sull’orlo di un precipizio fatale.

Di fatto Mishima ricorda il prototipo dell’uomo in rivolta di Albert Camus: Che cos’è l’uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì fin dal suo primo muoversi.

L’intellettuale nipponico fu capace di rifiutare un’esistenza meschina, anti-eroica e soprattutto anti-umana, dicendo però sì alla morte. Il suicidio, per Mishima, incarnava la sublime affermazione della libertà di poter scegliere tra l’essere uomo-macchina, o uomo-massa, senza eros e senza un vero e proprio carattere individuale, e il non essere. Alla banalità e alla normalità della vita quotidiana, egli preferì darsi la morte senza alcun timore, perché come ha scritto Miller: L’unico vero nemico dell’uomo è il timore e ogni atto dell’immaginazione (ogni eroismo) è ispirato dal desiderio e dall’incrollabile intenzione di vincere il timore.

Togliersi la vita, per Mishima, rappresentava l’epilogo motivato dell’esistenza di uno scrittore impegnato sino allo stremo delle forze, e la scrittura era il tramite per raggiungere l’immortalità. L’intellettuale giapponese inseguiva la vita eterna, che si perpetra in continuazione attraverso i suoi scritti, come se fosse una sorta di dono magico, una conquista di cui solo pochi uomini eletti possono godere veramente, poiché hanno raggiunto uno stato superiore dell’Essere al di là dell’umano. Mishima aveva raggiunto questa dimensione assoluta assumendo coscientemente i panni di chi pareggia l’eternità al tempo, e viceversa, liberandosi definitivamente da ogni contesa con la realtà e con la propria esistenza.

Se Hegel sosteneva che l’uomo fosse un vuoto niente e Marx scriveva che l’individuo determinato non è altro che un essere appartenente a una specie, e quindi come tale è mortale, Mishima li ha contraddetti entrambi: egli ha saputo vincere il niente esistenziale e il nulla che avanza nella mentalità dell’uomo moderno, contrapponendo il linguaggio della carne a quello involuto delle parole e delle immagini. Grazie a questa sublime contraddizione, con la morte che ha il misterioso potere di compendiare una lunga vita nell’esplosione di un fuoco d’artificio, egli ha vinto anche la caducità del corpo, raggiungendo e superando la barriera che separa la vita dalla sua fine con la conquista dell’eternità.

Con il Seppuku Mishima ha dimostrato che sì, l’uomo è creato e si crea come individuo unico nel suo genere, ma resta pur sempre cosciente della propria morte, la accetta spesso liberamente e se la dà talvolta, con cognizione di causa, volontariamente. Allora la morte viene a perdere quell’aspetto negativo che ha sempre caratterizzato, per temporalità e per finitezza, il progetto dell’uomo in sé, diventando la strada da percorrere per raggiungere la vita eterna e la libertà assoluta, proprio come scrisse Hegel: Per la facoltà della morte il Soggetto si dimostra come libero e assolutamente elevato al di sopra di qualsiasi costrizione.

Al pari del surrealista Jacques Rigaut, anch’egli morto suicida, Mishima coltivava il sogno della fine a sua immagine e dava al morire una valenza estetica tale da dimostrare la sovranità smisurata dell’uomo sulla materia e nei confronti della morte stessa. Mishima ha rifiutato la vita annullata dal compromesso con il progresso e con la modernità, pur restando però vulnerabile al fascino della ricchezza, del modus vivendi hollywoodiano, della popolarità acquisibile attraverso i canali radiofonici e televisivi, fino a trasformare un gesto intimo e privato come togliersi la vita in un avvenimento popolare, morendo davanti alle telecamere in diretta televisiva.

Il suicidio di Mishima, compiuto alla presenza dei giornalisti il 25 novembre 1970 dopo aver pronunciato un proclama della Tate no Kai (la Società dello Scudo, il suo esercito personale) e trasmesso in televisione, non era una fuga da compiere, il sottrarsi all’imperio di qualsiasi condizione data o imposta dall’esistenza, bensì la denuncia al mondo intero della sconfitta della giapponesità del suo popolo, del tramonto dei valori dell’antica tradizione del Sol Levante, messo di fronte al dilagare dei dis-valori dell’Occidente americanizzato. La televisione, i fotografi e i mass media facevano parte del tentativo di Mishima di infrangere il muro tra sé e il resto dell’umanità e, al contempo, la morte volontaria, fotogenica e telegenica insieme, esaltava i contorni estetici di un uomo da sempre affascinato dalla bellezza della morte, desiderata come una fine spettacolare, e per questo provata e riprovata nella sua mise en scène a teatro e durante le riprese del film Patriottismo del 1966.

Il gesto fatale di Mishima riporta alla mente la tragica fine di Vladimir Majakovskij, poeta futurista che ha lasciato che uno sparo mettesse punto alla sua vita, finendo suicida o suicidato dai militari di Stalin. Come Mishima, Majakovskij fa parte di quella generazione che ha dissipato i suoi poeti ma che ha glorificato l’istinto. «La barca dell’amore si è spezzata contro il quotidiano», scrisse il futurista russo che, al pari di Mishima, dimostrò di saper dominare la vita senza temere il tuffo fatale nell’oscurità eterna. Morendo, Mishima e Majakovskij diedero il magistrale esempio a un’umanità disarmata, incapace di contrastare la caducità e la decadenza della civiltà moderna.

Illuminato da uno speciale Satori e travolto da un’irriverenza cosmica geniale, attraverso il gesto di Mishima, Miller cercò di comprendere quale sapore avesse la morte, ovvero il morire inteso come fiera affermazione dell’Essere di chi preferisce togliersi la vita piuttosto che soccombere di fronte all’inquietudine esistenziale. Mishima e Majakovskij restano dunque uomini, scrittori e poeti travolti dall’antinomia Io – non Io: intellettuali che hanno avuto il coraggio di scegliere tra essere e non essere e per questo individui superiori, che hanno istintivamente risposto all’oscuro richiamo della morte liberando l’anima dalla prigione della vita.

Guido Andrea Pautasso, gennaio 2020.







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Giampaolo Marseglia



La macabra scena degli uffici del ministero della Difesa dove si è consumato il suicidio rituale di Mishima e del suo allievo più caro: le due teste mozzate. Dopo l’harakiri, il taglio profondo del ventre un assistente mozza di netto la testa del suicida per evitare che il volto sia contratto dal dolore 

“[…]Dobbiamo morire per restituire al Giappone il suo vero volto! È bene avere così cara la vita da lasciare morire lo spirito? Che esercito è mai questo che non ha valori più nobili della vita? Ora testimonieremo l’esistenza di un valore superiore all’attaccamento alla vita. Questo valore non è la libertà! Non è la democrazia! È il Giappone! È il Giappone, il Paese della storia e delle tradizioni che amiamo.”

Queste sono le ultime parole del “discorso al Giappone” tenuto da Yukio Mishima prima di morire, di fronte a qualche migliaia, fra soldati di fanteria e giornalisti di radio e televisione, dal balcone dell’ufficio del Ministero della Difesa.


Il suicidio come gesto di lotta

Lo scrittore giapponese ha occupato l’ufficio del generale Mashita con quattro dei suoi compagni più fidati e si appresta a compiere l’estrema rimostranza contro l’occidentalizzazione del Giappone (nello specifico, Mishima si scaglia contro il Trattato di San Francisco).

I suoi adepti fanno tutti parte del Tate no Kai (Società degli scudi) e fra di loro c’è un nervosissimo Masakatsu Morita. Il 25 novembre, nell’immaginario di Yukio, è un addio già scritto e da tempo deciso. La data, oltre che in alcune lettere agli amici più cari, compare sull’ultimo foglio del suo ultimo romanzo, già concluso in marzo, consegnato al suo editore il giorno precedente come una sorta di testamento letterario.


Un gesto estremo di libertà

Per la sua dipartita, Mishima sceglie l’unica morte consona ad un poeta-samurai: il seppuku. Rito suicida tradizionale Giapponese, figlio originario della spada e del sangue di Minamoto no Yorimasa, che nel 1180, dopo aver perso la battaglia di Uji, si trafigge con la propria katana per non cadere nella prigionia e nella vergogna, il seppuku diventa per tradizione la “morte onorevole” che il guerriero si concede per mantenere la sua anima libera dalla vergogna.

Il suicida pratica infatti un profondo e grave taglio all’altezza del ventre (hara), luogo dove, secondo la cultura nipponica, risiede l’anima che, grazie al taglio praticato, può volare via pura e incontaminata da dolore e vergogna. La cultura, gli usi, i costumi e le tradizioni del Giappone consistono nel nucleo pulsante dell’arte di Mishima; la loro preservazione e gloria diventano per Yukio un ideale (a)politico, perseguito con tenacia lungo tutta la sua giovane e vigorosa esistenza.


Un intellettuale della Tradizione

Yukio Mishima, nel giorno della sua morte, è uno scrittore, drammaturgo e poeta giapponese di fama internazionale che conta solo quarantacinque inverni. La pubblicazione di Kamen no Kokuhaku (Confessioni di una maschera) nel 1949 gli aveva spalancato i cancelli della gloria e della fama in ambito letterario: da allora il nome di Yukio Mishima diventa il simbolo di un Giappone che al contrario del significato del proprio nome (Nippon) sta tramontando e si sta globalizzando sempre di più.

Yukio è per molti anni icona di un patriottismo romantico ormai passato e nostalgico, di cui possono essere testimoni Foscolo, D’Annunzio e forse Panagulis. Visto come un nazionalista dagli intellettuali di sinistra e come un anarchico dai pensatori di destra, vive la sua lotta ideologica in estrema solitudine, senza bandiere, slogan o partiti, ma dando spazio alle tradizioni più antiche del Giappone nelle sue opere letterarie e di teatro (i cinque No moderni ne sono un ottimo esempio).


L’errore del suo allievo più caro

Come in vita, così in morte. Il suo estremo gesto suicida diventa così un ultimo pretesto per omaggiare la cultura nipponica e la figura dell’imperatore, non nella sua accezione politica bensì per il ruolo simbolico che ricopre all’interno della cultura del Giappone. Qualcosa però va storto e il kaishakunin (il nervoso Morita), colui che è responsabile di decapitare il suicida nel momento del seppuku, affinché il volto non gli sia macchiato da smorfie di agonia, sbaglia il colpo di grazia per ben due volte. Deve intervenire Hiroyasu Koga per porre fine al rito, guadagnandosi così il titolo di più recente kaishakunin della storia giapponese. 

Morita, che secondo alcuni critici e biografi, era l’amante omosessuale di Yukio non sopporta l’errore commesso e, travolto dall’onda di vergogna, si trafigge anch’egli. I restanti tre si consegnano alle forze dell’ordine e vengono condannati a quattro anni di prigionia per aver occupato illegalmente il ministero.

Il corpo di Yukio giace glorioso in avanti, come vuole la tradizione, e vicino a lui fa capolino il suo biglietto d’addio che recita: "La vita umana è breve, ma io vorrei vivere per sempre".

Ugo Maria Tassinari, novembre 2018.

da Napoli, sabato 3 ottobre 2020 alle ore 00:33:48
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