Il cowboy. Dal jeans al texano.

Tessuti - Teoria e Storia dell'Abbigliamento classico

Emanuel Rosso

da Milano, venerdì 2 ottobre 2020 alle ore 20:52:09

Egregio Gran Maestro Giancarlo Maresca,

 

ringrazio di poter essere ospitato in questo importante spazio maschile. Grande appassionato di abbigliamento, seguo da tempo i vostri studi sul mondo classico maschile, impianto su cui è basata la mia vita. Vesto in sartoria da sempre, sventolo la cravatta, indosso <sempre> le calze. Cose che sembrano uno scherzo ma che oggi sono una vera bandiera di un popolo, quello elegante, o che almeno ci crede.

Il mondo classico segue diverse strade che prefigurano situazioni e luoghi. C'è il vestire da città, da vacanza, da campagna, da sport. Molti di questi ambiti hanno creato icone e capi ormai mondiali.

Ecco, mi chiedo, l'abbigliamento del cowboy americano, con i suoi pesanti jeans, i suoi stivali texani, la cintura texas, la camicia western, si può considerare "classico" ? La mia passione per la "tela genova" me lo fa chiedere da tempo. 

 

Grazie ancora per il tempo qui versato.

E. Rosso

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INVIO

Giancarlo Maresca

Egregio signor Rosso,

dalle piramidi a Marilyn Monroe, dia a qualsiasi cosa tempo e notorietà e invece di diventare più chiara si caricherà di mistero. Non fa eccezione il denim, che per diffusione e anzianità ha pochi rivali. Qui dovrebbe seguire subito una sua descrizione tecnica, ma per arrivarci dobbiamo prima capire di cosa stiamo parlando. Il primo problema è il nome. Si dice che venga dalla serge de Nimes, diffusa in Europa già dal XVII secolo, o addirittura dal XV, secondo altre fonti. Solo che questo tessuto era composto di lana e seta, di cotone nemmeno l’ombra. C’è anche chi sostiene che denim venga da serge de “nim”, altro panno francese della stessa epoca, ma la cosa non cambia perché il nim era di lana. Tra le due ipotesi sembra preferibile la prima, stante l’importanza di Nimes nella drapperia. Ricostruire cosa sia avvenuto è difficile. Non sempre riusciamo a risalire con certezza all’origine di parole nate negli ultimi decenni, figuriamoci quelle di quattro o cinque secoli fa. Per trovare una via d’uscita suggerisco di partire dal fatto che in Europa, almeno sino all’intensificazione delle piantagioni americane avvenuta nel XVIII secolo, il cotone era merce di importazione assai costosa.

 


Divenne accessibile solo grazie al lavoro degli schiavi e poi alla rivoluzionaria sgranatrice “gin”,  inventata nel 1792. Solo a quel punto è verosimile che l’industria tessile abbia sostituito il cotone alla lana nei prodotti di largo consumo, il cui uso e nome rimanevano immutati. Non è forse successo lo stesso col Solaro, nato con l’ordito in cotone e oggi è in pura lana? Passiamo ora al complesso rapporto tra denim e jeans. Ai tempi in cui la serge de Nimes si affermava e silenziosamente diventava denim, esisteva anche un tessuto prodotto a Chieri in Piemonte, commercializzato dalla Serenissima Repubblica di Genova e utilizzato dalla sua marina. Conosciuto come jean, cioè genovese, era un fustagno in cotone, lino, o cotone e lana, prodotto ed esportato fin dal XVI secolo. Dalla fine del XVIII il jean diventa esclusivamente in cotone pur conservando il nome, proprio come presumibilmente era avvenuto per il denim. E’ a questo punto che giungono entrambe in America, dove vengono utilizzati per l’abbigliamento maschile heavy duty, ovvero per lavori pesanti. Presto le colonie, da poco dichiaratesi indipendenti, cominciarono a produrne per affrancarsi anche in questo dall’Inghilterra, che nel frattempo ne era diventata il principale produttore. Nel clima dell’indipendentismo la faccenda doveva assumere un sapore patriottico, tanto è vero che nel 1789 il Presidente George Washington onorò di una sua visita una tessitura del Massachussetts in grado di produrre sia jean che denim. Poi gli americani, avendo a disposizione vaste piantagioni, ci presero tanto gusto che, nel 1864, un’azienda dell’East Coast pubblicizzava ben dieci diversi tipi di denim. Nello stesso anno il dizionario Webster lo definisce come “un grosso tessuto di cotone adatto per tute da lavoro e simili”. Con questa consacrazione ufficiale termina la leggenda e comincia la storia. L’età dell’oro - Dunque, al momento in cui sbarcavano nei costituendi Stati Uniti, il denim e il jean avevano già il nome e le qualità che conosciamo oggi. Nati in altre fibre, erano diventati interamente in cotone e si erano guadagnati spazio lì dove occorrevano durata e resistenza al lavaggio. Nonostante i due tessuti avessero ora la stessa composizione, costruzione e destinazione, restava tra essi una differenza sostanziale: il denim, forse ricordando l’origine di tessuto misto, aveva ordito colorato e trama bianca, mentre nel jean entrambe i filati erano dello stesso colore. 

 


Allora come fece la parola jeans a diventare sinonimo di pantaloni in denim? La risposta la troviamo in antichi capi come i pantaloni di Garibaldi conservati al Vittoriano. Tale raro esemplare, come si vede dalla perdita uniforme del colore, è realizzato in un tessuto dalla tintura omogenea di trama e ordito e quindi in jean, non in denim. Direi allora che la marina genovese abbia dato il nome al jean, con grafia al singolare. Da esso i pantaloni a cinque tasche con rivetti presero il loro nome distintivo e lo conservarono anche quando il jean, a lungo usato in alternativa al denim, venne soppiantato da quest'ultimo. Del resto anche noi oggi chiamiamo jeans molti pantaloni che pur non essendo in denim sono confezionati nella foggia canonica. Possiamo dunque dire che come jeans si può definire qualsiasi capo con cuciture esterne doppie e cinque tasche, tutte con apertura in alto e meglio se rivettate. Quelli in denim sono propriamente i blue jeans. 

 


In realtà i jeans si chiamarono a lungo col nome con cui li aveva lanciati Levi Strauss, cioè waist overall, o solo overalls, ovvero ampio capo da indossare sopra altri indumenti. Con la grande depressione, la loro accessibilità, durata e facilità di manutenzione fu una mano santa. Da abito da lavoro divennero una necessità, la tenuta quotidiana e spesso unica di moltissimi americani che vagabondavano in cerca di lavoro. Alla fine di questa lunga stagione, in cui si erano caricati di ricordi poco piacevoli, si prese a vederli con rinnovato interesse quando il cinema li mostrò nel loro ambiente originario. Il western classico è prodigo di atmosfere epiche in cui certi caratteri umani sono tipicizzati a cominciare da capi distintivi. Tra gli archetipi introdotti dal genere ricordiamo tutti il medico ubriacone in bombetta, il crudele proprietario accaparratore in largo cappello a tesa piatta, il banchiere corrotto in cilindro, lo sceriffo cuor d’oro in gilet di cuoio.

 


Quello che ci riguarda è però il cow boy in Stetson e blue jeans, figura eroica che si staglia contro i paesaggi della Monument Valley proponendo un’idea di libertà, indipendenza, essenzialità e carattere. Ingredienti che gli americani amano ritenere una loro esclusiva, ma tutto sommato universali. Oltre a sete di giustizia e spazi aperti, nell’iconografia del cow boy c’è un altro ingrediente particolarmente importante, che ne farà un personaggio perfetto per i fumetti: non ha mai preso moglie, o compare già vedovo. I giovani, romantici e selvatici per natura, si identificano spontaneamente coi maledetti, i bohemien, insomma con chiunque per propria scelta si tiri fuori dai meccanismi comuni, a cominciare dal matrimonio. Ci misero poco a subire il fascino dell’eterno scapolo senza legami, tutto chitarra e mistero. Anche i teen agers volevano mettere i jeans, ma a quell’epoca dovevano ancora ubbidire a qualcuno. A scuola e nelle occasioni formali non potevano portarli per divieto, alle feste per vanità, non restava che la strada.

 


La fama già poco conveniente di indumento povero e senza radici si colorò di tinte trasgressive con il Marlon Brando di “Fronte del Porto” (1953) e il James Dean di  “Gioventù Bruciata”, pellicola del 1956 il cui titolo originale, decisamente significativo, era “Rebel without a cause”. In questi anni, tra genitori e figli si venne improvvisamente a formare un fossato dalla profondità mai vista prima.

 


Proprio per essere stati avversati dall’ultima generazione formalista, i blue jeans si caricarono di quella connotazione “contro” che ne fece il simbolo della controcultura sorta alla fine degli anni ’60.

In Italia - I jeans degli anni spensierati del rock and roll, quelli portati dalle truppe americane insieme al chewing gum, erano però unstressed e shrink to fit, come a dire venduti ancora rustici e destinati a ritirarsi. Non trattati, né prelavati, si compravano di una taglia più grande e si buttavano nella vasca da bagno. Una volta asciutti, diventavano rigidi al punto da potersi reggere in piedi da soli. Li si indossava in quelle condizioni per un po’, ripetendo l’operazione un paio di volte. Alla fine, un vigoroso lavaggio in lavatrice completava la fase di aggiustamento. Il denim di questo periodo, dunque, garantiva restringimento e perdita di colore, fattori che ne alimentavano l’individualità da un lato e l’incomprensibilità dall’altro.

 


Con l’età politicizzata del pop e dei figli dei fiori, il denim viene ammorbidito e i jeans, tagliati con maggior attenzione estetica, diventano una sorta push up per il sedere. Fu così che conquistarono anche le ragazze, adulandole lì dove sono più sensibili. Per fare carriera, il grezzo materiale da pioniere imparò le buone maniere Ancora pochi anni e sarebbe stato completamente addomesticato.

 


Vista dall’Italia, la vicenda si riassume nella parabola tra “Blue jeans rock” del 1959, in cui Adriano Celentano urlava: "Ci volete proibire, volete punirci perché portiamo i Jeans, senza mai considerar questa nostra età" e il 1982, quando Nino D’Angelo sussurrava “’Nu jeans e ‘na maglietta, ‘na faccia acqua e sapone, m’je fatto ‘nnammurà cu ‘sta semplicità”. Il totem dalla cattiva reputazione diventava un attributo della purezza virginale. Non per questo scompare, anzi si diffonde ulteriormente, solo che il suo aspetto non è più universale e assume connotazioni tribali. I paninari lo avranno col risvolto, i coatti senza, i pariolini attillato, i rapper gli abbasseranno il cavallo e così via. Dopo quasi un secolo passato a sudare tra gli indumenti da lavoro, negli anni ’50 i blue jeans erano assurti a bandiera dello spirito “on the road”, cioè di un solitario e simbolico cammino.

 


Negli anni ‘70 furono l’arma del movimento pacifista e con gli ’80 diventano streetwear, ovvero capi di basso costo tipici di un preciso quartiere ed ambiente. Sembrano avviati a trovarsi un posticino di riguardo nel “dailywear”, restando uno dei capi quotidiani per eccellenza. Negli anni ’90, però, gli stilisti fiutano un’occasione per rilanciarli come capi esclusivi da vendere a peso d’oro.

 


Aiutati da giganti come Gianni Agnelli e nani come Carlo Conti, li sdoganeranno per la sera e in combinazioni impegnative. Le grandi case storiche perdono di appeal in favore delle griffe e così, dopo aver toccato il vertice dell’anticonformismo, i jeans diventano glamour. Finiti a servire il consumismo, si riducono a un segmento del lusso da quattro soldi, così in voga sino a poco tempo fa. I blue jeans con le clip d’oro massiccio (Billionaire) sono una credibile immagine dell’inferno, più in basso non c’è nulla, tanto è vero che i denim selvatici da curare prima dell’uso  hanno ricominciato a trovare estimatori.

Il denim classico – Dovevo dire cosa fosse e sono finito a fare il giro del mondo. E’ ovvio che con tante avventure ci siano stati tanti denim, ma una definizione deve scegliere un paradigma che sia di riferimento per tutti.

 


Allora non possono esserci dubbi, il posto di pietra di paragone tocca al tessuto con cui è stato prodotto il blue jeans a più alta densità simbolica e nel momento di massima concentrazione energetica: il Levi’s 501 dagli anni ’50 sino al 1971, anno in cui la targhetta rossa cucita alla tasca posteriore destra perde la E maiuscola in favore di una minuscola.

 


I 501 antecedenti a quella data sono infatti detti “Big E” ed hanno un elevato valore venale e storico, specialmente quelli con due X a indicare la superiore qualità del denim. Questa sigla era sparita sino a quando la Levi's ha affiancato alla normale produzione la linea LVC (Levi's Vintage Collection), realizzata col tessuto XX prodotto dai pochi telai a navetta ed a  mezza altezza che i giapponesi, prendendosi una rivincita che l’America ha tardato a comprendere, si sono portati via per quattro ceci. Non tutti sanno che il risvolto dei jeans serviva anche ad esibire la cimosa (selvedge), che nei 501 Big E corre lungo l’interno della gamba e dietro i lembi delle tasche posteriori e del quinto taschino. Lo stesso stabilimento produceva per Levi's, Wrangler e Lee, sicché i denim venivano distinti da un filo di colore diverso, che nel caso dei Levi’s era rosso. Ora è la giapponese Evisu a usare ancora i telai dei vecchi mills americani, che tessevano in mezza altezza e con la cimosa. In Italia si trovano solo capi “distressed”, cioè già lavati e ristretti. I cultori del genere pensano però solo in termini di “raw denim”, che è quello che il canone classico. Gli altri prodotti aspettino almeno un mezzo secolo e potranno reclamare le loro ragioni, sarò ben lieto di poterle ascoltare. 

Ecco dunque la definizione: Il denim classico ha un peso intorno alle 14,5 once (circa 450 grammi al metro ad altezza intera) ed è in puro cotone cardato a filo non ritorto, con trama in greggio e ordito blu indaco tinto in filo. L’armatura è a saia da tre, cioè con un punto di legatura dell’ordito per ogni tre passaggi perpendicolari alla trama. Al dritto l’ordito affiora tre volte più frequentemente, ecco perché da quel lato il tessuto si presenta blu scuro mentre il rovescio, dove prevalgono le trame, dovrebbe apparire quasi bianco. Il finissaggio è minimo e non prevede il “preshrunk”, il restringimento preventivo, né il lavaggio. Tali caratteristiche non sono certo quelle dei comuni tessuti di recente produzione, che comunque ottengono spesso validi effetti e risultano infinitamente più pratici del raw denim. 

 


Il denim contemporaneo – Basta ingrandire di poco un denim contemporaneo per notare che spesso l’ordito presenta in mescola intima fiocchi tinti e greggi, per stemperare il colore e dargli una marezzatura sin dall’inizio. Il risultato non è sempre disprezzabile, ma bisogna sapere che il processo va contro la regola d’arte dell’età classica. Anche il prelavaggio, se lascia comunque abbastanza colore da consentire l’usura personalizzata che è nel codice genetico del denim, ha innegabili ragioni. La storia farà giustizia a suo modo, lasciando ai fatti l’esecuzione delle sue sentenze.

 


Quando sarà il momento, altri critici e storici dell’abbigliamento potranno ricostruire una formula aggiornata e certamente valida. Nell’originaria versione rigida, il denim era usato solo per i blue jeans, i giubbotti e le tute. Diventato più stabile, morbido e leggero, si è reso disponibile per usi una volta impensabili. Sono frequenti gli ordini di pantaloni su misura di taglio tradizionale e qualcuno azzarda anche il completo, che presenta però una contraddizione. Il denim, per i suoi trascorsi on the road, non ama la piega, segnale decisamente cittadino. Dare il filo a un paio di pantaloni in denim è estraneo alla sensibilità classica, portare un abito senza dare la piega ai pantaloni non è da meno. L’abito in denim può essere un gesto pop, una decontestualizzazione a scopo provocatorio, una ripresa della ribellione portata a un confronto ravvicinato con l’avversario di sempre, o al contrario la conciliazione che ai tempi del conflitto generazionale globale non fu possibile. Qualunque cosa sia, chi si avventura in questo corto circuito dovrebbe saperlo, altrimenti resterà fulminato.

Conclusioni – Vanno infine menzionati i capi in cui il denim è evocato solo con le tinte, comunque sufficienti a fornire di noi un’immagine serena, positiva, giovanile e dinamica. Tra questi spiccano le camicie, alcune delle quali sono tornate al misto o puro lino della Chieri rinascimentale. Al di là dei conformismi, decisamente fuori luogo quando si tratta di jeans, il comfort e le buone prestazioni estetiche di questi indumenti ci insegna che lo spirito del denim è nell’irregolarità cromatica che lo rende umano, nel sottrarsi ai ruoli in cui i doveri siano sociali e non etici, più che nella conservazione a oltranza di una ricetta tecnica che dopotutto è già cambiata tante volte. In senso generale, un buon capo in denim è quello che rispetta tale natura, valorizzando il patrimonio mitico del tessuto senza sprecarlo in civetterie. Sul piano specifico, l'abbinamento tra jeans e stivali messicani rientra a pieno titolo nel palinsesto classico. E' però una soluzione estetica così forte e caratterizzata da richiedere un legame col mondo che l'ha generata. Per indossarla senza cadere nel ridicolo bisogna avere le carte in regola: non è necessario essere un vaccaro o un campione del rodeo, ma almeno aver frequentato il Mojave o intrattenere un qualche legame con la monta western.

 

Un capo cattivo è quello in cui il denim viene umiliato da simbologie estranee alla sua esperienza libertaria, come le soluzioni monogrammate, o l’eccessiva piaggeria verso fogge scomode, che rinnegano la sua indole di compagno leale e generoso. Tra le recenti abitudini, sono indegni del consorzio civile i finti strappi e le scoloriture meccaniche in zone non esposte a consumarsi naturalmente. L’emarginazione e la miseria si possono anche ignorare, giocarci è un po’ troppo.

da , sabato 3 ottobre 2020 alle ore 13:32:12
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Emanuel Rosso

Egregio Gran Maestro,

ho tardato una settimana a replicare al suo intervento, di certo non per volontà o mancanza di tempo ma perché la profondità, la ricchezza, la straordinarietà del suo meritava una ripetuta e attenta rilettura, nonché una sedimentazione personale. E così è stato. Mi perdonerà se, senza chiederle il permesso, ho rimpaginato il suo intervento per adattarlo ad una piccola stampa che ora sta nella mia libreria. E’ stato troppo importante e rilevante ciò che ha scritto ed era come se ne volessi una copia fisica. Infine la parola più semplice ma più che mai doverosa per chi ha condiviso un così profondo pozzo di sapienza : GRAZIE !

Non vorrei sembrare chi mangia a sbaffo avendo già ricevuto un pranzo regale ma tutto ciò ha alimentato in me alcune piccole precisazioni da domandarle. Mi perdono fin d’ora ma Lei sa tanto e troppo per non ingolosire. Mi chiedo quanti al mondo sanno di abbigliamento come Lei…

Ma eccole le domande da fame :

1) Quindi il jeans come lo conosciamo noi è nato negli States, con la forma a 5 tasche, prediligendo il tessuto raw denim. Corretto ?

2) C’è un motivo per avere inventato questa foggia a 5 tasche ? Perché non un classico “carrettiere” ?

3) Sono state le truppe americane a portarlo in Europa quindi ? Lo indossavano nel tempo libero ?

4) Acquistando (ovviamente si comparno solo quelli) jeans in raw denim che trattamento casalingo consiglia ? Alcuni appassionati non li lavano mai per diverso tempo, sterilizzandoli nel congelatore. Questo per non far scendere l’indaco subito. Cosa ne pensa ?

5) A proposito del colore…quello giusto è l’indigo blue. C’è da sapere qualcosa e perché questa tinta ?

6) Ma la serge de Nimes e la tela jean avevamo già questo colore ?

 

Mi permetto ora di plaudire a piene mani la condanna a morte dei jeans da stilista, una vera bestemmia per chi ama questo capo.

Cosa dire infine…beh, di certo un altro GRAZIE. Per le risposte che mi darà (spero) e per tutto quello già detto.

 

Cordiali saluti pregni di stime.

E.Rosso

da Milano, venerdì 9 ottobre 2020 alle ore 15:54:37
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Massimo Corini

Egregi, interessantissimo studio questo ! Grazie al Sig. Rosso che lo ha proposto e complimenti senza parole all'Avv. Maresca che ha fatto un pezzo dei suoi di antica scuola. 

Attendo le risposte alle domande. Veramente interessato.


Cordiali saluti.

Massimo Corini


9 ottobre 2020

da Firenze, venerdì 9 ottobre 2020 alle ore 16:36:30
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Paolo Ghillani

Interessantissimo forum sul jeans. Posseggo diversi selvedge raw denim jeans, conosco la materia, e devo dire che avete brillantemente sintetizzato la storia del jeans come in pochi altri articoli. 

Vi conosco come grandi cultori dell'eleganza quindi pochi meglio di voi sanno dare una risposta sullo stile nel vestire.

Personalmente trovo che il jeans, e parliamo ovviamente di quello vero, debba essere indossato con la con una cintura western, meglio se con fibbia a tre pezzi, e con stivali texani, magari molto sobri.

Lei Maestro del consesso lo ritiene giusto ?

Se vogliamo indossarlo con accessori più nostrani, che cintura e scarpe suggerisce ?


Mi accodo quindi nei ringraziamenti e nei complimenti.

Paolo Ghillani 

da Modena, martedì 13 ottobre 2020 alle ore 09:22:43
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Giancarlo Maresca

Egregio signor Rosso,

dopo i doverosi ringraziamenti per i suoi commenti, passo subito all'esame delle sue domande.

1) Quindi il jeans come lo conosciamo noi è nato negli States, con la forma a 5 tasche, prediligendo il tessuto raw denim. Corretto?


Non è tutto così lineare. La genesi dei jeans, certamente avvenuta negli Stati Uniti, è complessa da ricostruire perché oltre all’ovvia evoluzione della foggia vi si incontrano molti nomi e almeno due tessuti, il che confonde le idee. Nella prima metà del XIX secolo la tenuta da lavoro assume tendenzialmente la foggia a salopette detta bib overall, che protegge eventuali indumenti portati sotto e buona parte della persona. Il materiale era in genere jean, che come abbiamo visto è un tessuto a saia con trame e orditi nello stesso filato e colore. Il denim era più leggero, circa 9 once contro le 10 abbondanti del jean, e prodotto in quantità minori.



Il primo waist overall in denim della Levi's conosciuto.
Porta i bottoni da bretelle senza passanti da cintura.

Nel 1873 la Levi Strauss e Jacob Davis ottiene il brevetto per l’applicazione alle giunture dei rivetti già in uso per finimenti equestri, in particolare per collegare cinghie di cuoio alle coperte per i cavalli Da quel momento, e per qualche decennio, la storia dei jeans è praticamente quella della Levi’s. I waist overall esistevano già, ma furono questa rivettatura e qualche altro dettaglio estetico a dare loro qualcosa di nuovo, un carattere esuberante cui il solo ambito del lavoro andava stretto. Possiamo dire che mentre i tradizionali waist overall lavoravano in campi, miniere e officine, queste ultime finirono per lavorare per i blue jeans, costruendo loro intorno un’aura di vigorosa fierezza.


Vista posteriore del capo precedente.
Si notano il cinturino e l'etichetta in cuoio.


I primi waist overall in denim della Levi’s hanno il cinturino posteriore, il taschino da orologio e una sola tasca posteriore, quindi alla prima parte della sua domanda debbo rispondere che i blue jeans sono nati con quattro tasche. La quinta verrà aggiunta intorno al 1901. E’ invece presente fin dall’inizio la cucitura ad archi incrociati, che esordisce singola e diventerà doppia solo intorno al 1947.Intanto, nel 1890 la Levi’s ha varato il modello 501. Diventato subito il prodotto di punta della casa, conquista la leadership del mercato grazie a un’immagine di particolare solidità e praticità, riassunte nello slogan pubblicitario “i pantaloni dell’uomo che fatica”. Bisogna considerare che a quel tempo la biancheria maschile consisteva nei long john, i mutandoni in lana che fanno capolino in molti i film western. Spesso erano a tuta completa, probabilmente perché gli elastici non erano come quelli moderni e i soli pantaloni tendevano a cadere. Comunque per coprire le pudenda bastavano dei pantaloni in vita, mentre la salopette è vantaggiosa solo per alcuni lavori e scomoda in tante altre condizioni, nelle quali i tiranti posteriori possono pericolosamente impigliarsi. A quel punto meglio la tuta completa, che infatti alla lunga si è affermata e resta tuttora insostituibile  in molti contesti. In esterno per sentirsi a posto bastavano un paio di pantaloni, che lasciavano libere le spalle pur nascondendo i logori long john del padrone. I Levi’s verranno venduti come waist overall sino al nuovo secolo, nel quale cominceranno a essere chiamati solo overall.  Nel 1927 la Cone Mills diviene l’unico fornitore del tessuto destinato al 501, un denim da 10 once con cimosa che resta il punto di riferimento. Tenendo presente che il tessuto era alto 29 pollici, rapportandolo ai telai attuali stiamo parlando del ragguardevole peso di 570 gr/mt. La risposta alla seconda parte di questa prima domanda è dunque che i jeans nascono in jean. Il denim si afferma successivamente grazie alla preferenza accordatagli dalla Levi’s, un’altra delle sue scelte illuminate. Fin qui abbiamo parlato di bib overall, waist overall e poi overall, quindi la foggia di cui parliamo è esistita e si è evoluta a lungo sotto un nome diverso da quello attuale, che la gran parte della gente crede più antico di quanto non sia. Negli anni ’40 e ’50 il cinematografo aveva mostrato gli overall come espressione di un temperamento prima indipendente (cowboy) e poi dichiaratamente ribelle (bluson noir), spazzando via quelle grige immagini di necessità e indigenza cui erano rimasti ancorati dai tempi della grande depressione. In quel periodo i giovani, tra i quali il disagio generazionale cresceva in modo esponenziale, svilupparono con questi pantaloni un legame quasi morboso, tanto da sfidare severe punizioni pur di indossarli. E quando i giovani amano tanto una cosa, le danno un nome nuovo e tutto loro. Fu così che nacque la parola blue jeans, che attribuiva al capo il nome del suo tessuto più antico pur chiarendo che il colore indaco del denim ne era tratto costitutivo. Negli anni ’50 il termine blue jeans diviene così popolare da essere adottato anche commercialmente. La Levi’s li chiamerà definitivamente così a partire dal 1960.  

2) C’è un motivo per avere inventato questa foggia a 5 tasche ? Perché non un classico “carrettiere”?

Quando si chiamavano waist overall, i jeans si accontentavano di tre tasche anteriori e una posteriore. La quinta venne aggiunta nel 1901, quando da waist overall diventarono solo overall. Rivettatura, tasche posteriori applicate, taschino ben visibile, Arcuate stitching, etichetta in cuoio, sono tutti dettagli in cui lo scopo decorativo è dominante, se non unico. Ciò ci fa concludere che sin dall’inizio il signor Levi intendesse conferire ai propri capi una certa visibilità, soddisfacendo esigenze estetiche di cui gli altri produttori di capi da lavoro non avevano nemmeno sospettato l’esistenza. Non dimentichiamo che il 501 esordisce proprio nel 1890, l’anno in cui siamo qui soliti collocare l’assunzione dello status di cultura dominante da parte del classico, sistema il cui dinamismo è animato da una potente spinta alla narrazione del sé attraverso l’abbigliamento. Le cinque tasche non sono dunque altro che uno dei segni tangibili di una vanità che reclamava libertà di espressione e cittadinanza universale, in tutti gli ambienti umani.

3) Sono state le truppe americane a portarlo in Europa quindi ? Lo indossavano nel tempo libero?

Non saprei dire se e quanto le truppe americane indossassero i jeans. Di certo li portarono con sé come merce di scambio e investimento, proprio come facevamo noi italiani quando andavamo in Unione Sovietica negli anni ’70.

4) Acquistando (ovviamente si comprano solo quelli) jeans in raw denim che trattamento casalingo consiglia? Alcuni appassionati non li lavano mai per diverso tempo, sterilizzandoli nel congelatore. Questo per non far scendere l’indaco subito. Cosa ne pensa?

L’unico paio di Levi’s che abbia posseduto era un 501 degli anni ’60 a cinque bottoni che un amico mi regalò nel 1972. Era nuovo, intonso, ancora con l’etichetta di cartone. Lo aveva portato un parente dagli Stati Uniti molti anni prima, quando lui era troppo piccolo. Raggiunta l’età per indossarlo, il capo, con vita alta e fondo stretto, era del tutto fuori moda. Tale considerazione non mi interessava affatto e così accolsi il regalo con entusiasmo. Ricordo ancora che al primo lavaggio si restrinse, assumendo la consistenza della cartapesta. Lo si poteva addirittura mettere in piedi, poggiandolo sulla vita. Lo indossai così per un giorno e poi lo lavai un altro paio di volte consecutivamente, per addomesticarlo quel tanto che bastava a portarlo senza sentirsi in un’armatura. I pantaloni durarono alcuni anni per poi stracciarsi in una caduta dalla moto, in cui svolsero un buon lavoro protettivo. In conclusione, sconsiglio interventi cerebrali come l’uso di strumenti e prodotti chimici. Il raw denim va trattato in modo brutale e semplice, facendolo semmai macerare in acqua molto a lungo per poi lavarlo vigorosamente.

5) A proposito del colore…quello giusto è l’indigo blue. C’è da sapere qualcosa e perché questa tinta?

La coltivazione dell’indigofera tinctoria venne introdotta in South Carolina intorno alla metà del XVIII secolo dalla latifondista Elisabeth Lucas Pinckney. La coltivazione diede risultati così buoni che presto l’indaco divenne così diffuso e importante da rappresentare da solo un terzo del valore esportato dalle colonie americane prima dell’indipendenza. Nei luoghi di produzione era assai economico, quindi ideale per la tintura di stoffe a basso costo come era il denim.

6) Ma la serge de Nimes e la tela jean avevamo già questo colore?

Non direi proprio. L’indigo blue è stato adottato su suolo americano, per i motivi appena esposti. Peraltro interessò il solo denim, mentre il jean manteneva colorazioni diverse.

 

Cavallerescamente
Giancarlo Maresca

da , venerdì 16 ottobre 2020 alle ore 13:53:21
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Giancarlo Maresca

Egregio signor Ghillani,
a quanto pare lei è un conoscitore in età da indossare i jeans con frequenza, e in materia ne saprà ben più di me. La invito quindi a completare, commentare o migliorare quanto ho esposto, nell'interesse superiore della ricerca. Quanto ai pareri che mi chiede, direi che nel vecchio continente l'uso di stivali texani e cinture borchiate comporta un ingiustificato sacrificio di identità, a meno di avere un rapporto col west. Nella nostra cultura i jeans rappresentano un ponte verso un  progetto di vita alternativo diverso da quello del cow boy, insomma più vicino a Marlon Brando che a John Waine. Dando per scontato che nessuna calzatura da barca o comunque marinaresca si addice loro, direi che la loro scarpa ideale è la desert boot, nello stile degli anni '70 che tanto hanno contribuito alla storia del capo. Cintura alta almeno quattro centimetri con fibbia ad ardiglione, o in tessile stile esecito con fibbia a clip. Mai una giacca, a meno che non sia di papà o comunque non riveli alcuna tentazione di rendere l'insieme conforme al gusto cittadino. I jeans respirano un'aria libera da ogni convenzione o non respirano affatto.

Cavallerescamente
Giancarlo Maresca

da Napoli, sabato 17 ottobre 2020 alle ore 03:47:52
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INVIO

Paolo Ghillani

Egregio Gran Maestro,

c'è poco da aggiungere ad un resoconto così dettagliato e profondo. Complimenti davvero ma visto l'eccellenza che sempre ho trovato in questi spazi, non me ne stupisco più di tanto. 

L'età da jeans...perché ce n'è una ? Ecco, su questo vorrei sentire il suo parere e cosa intende. 

In verità non li indosso molto spesso, anzi poco poco. Ma è un capo che mi ha sempre incuriosito e con la complicità del web ho cominciato ad esplorare storia e marchi coerenti. Purtroppo non c'è un capo di abbigliamento più inflazionato e assassinato, occorre scegliere il giusto e conoscere il vero. 

Sconsiglio vivamente ogni jeans di produzione italiana, noi da sempre troppo attenti (ed è giusto) al bello, al lussuoso, al prezioso. Due strade : USA o Giappone. Qualcosa in Inghilterra. 

Parlando del tessuto, c'è la notizia brutta di mesi fa dello stop alla produzione della mitica Cone Denim, già di proprietà della Levi's. Alcuni marchi americani giusti si sono dirottati in Giappone. A che mi è dato sapere in questo momento, in territorio americano, non viene più prodotto selvedge raw denim. Cosa che avviene con forza, passione e cimento in Giappone e qualcosina, di impatto più ammiccante, in Italia. 

In nessun modo comprate il lavato. Certo, aiuta la portabilità iniziale e accorcia la tempra del denim ma credetimi, è sempre fatto con denim di qualità più bassa o seconde scelte. 


Vi lascio con una foto che parla del significato JEANS. 



da Modena, mercoledì 21 ottobre 2020 alle ore 14:41:22
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Emanuel Rosso

Esimio Gran Maestro del cavalleresco ordine,


accipicchia mi ha fatto aumentare il fascicolo in libreria ! Scherzi a parte, come non rimanere affascinati e basiti dalla sua conoscenza. Non c'è veramente isola del mare che non conosce.


Sono curioso anch'io di avere un commento sulle Sue parole inerenti l'età da jeans. Ieri sera ho trovato una foto mirabolante in jeans di Clint Eastwood ultra ottantenne, e accidenti che potenza ! 

Non vedo un'età legata al jeans. Forse una personalità ?

Questione interessante.


Con stima perentoria

Emanuel Rosso

da Milano, giovedì 22 ottobre 2020 alle ore 09:25:29
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Giancarlo Maresca

Egregio signor Rosso,
Egregio signor Ghillani,
un legame tra jeans ed età può essere negato senza tema di smentita finché si resta alla superficie delle cose, ma se non ci limitiamo alla loro interazione diretta e visibile e includiamo le influenze indirette e invisibili, lo scenario che ci si presenta è molto diverso. Innanzitutto preciso che l'analisi che condurrò è limitata all'immaginario maschile, perché nel regno femminile i jeans non sono altro che un'opportunità di lifting non chirurgico a glutei e cosce. Per noi possono invece essere un portale quantico che ci mette in comunicazione con altri luoghi e altri tempi. Del serbatoio simbolico dei jeans e del modo in cui si è andato costituendo ho già detto parecchio, riassumenro possiamo dire che esistono due archetipi: uno immerso nella natura, che cavalca nei tramonti infuocati dell'Arizona, e uno urbano per cui il cavallo ha due ruote e un motore scorbutico. Le due facce sono collegate da un orgoglioso rifiuto dell'integrazione che conduce a scelte non convenzionali lungo strade solitarie. Tale posizione di autonomia ribelle e schiva mal si concilia con la fase di maturità della gran parte di noi, che a un certo punto mettiamo su famiglia e così sviluppiamo un senso di responsabilità per la famiglia che ci tiene nei campi arati. Si aggiunga il fatto che la gran parte dei maschi in piena età di lavoro vivono un'ansia di carriera e affermazione che li spinge a cercare consenso, prezioso metallo che nelle sterminate pianure del conformismo  si trova molto più facilmente che nelle anguste valli dell'individualismo. Ecco dunque che ci si rivela quella relazione indiretta cui facevo cenno: il jeans rappresenta l'indipendenza, ma un uomo in età di carriera e coi figli ancora a carico non se la può permettere. Almeno non tutto il giorno, non tutti i giorni, ecco perché nel contributo del 17/10/20 mi rivolgevo al signor Ghillani come persona "in età da indossare i jeans con frequenza". Per un lungo periodo, infatti, la gran parte degli uomini è impegnato su piani collettivi nei quali i jeans sono stonati. I campanacci delle mucche danno una musica piacevole se proviene dalle valli alpine, non dal golfo mistico del San Carlo. Nell'età pienamente produttiva l'uomo può ricavarsi dei momenti privati in cui inforcare la moto con bandana e bluson noir. In quel luogo fantastico i jeans stanno benissimo,  ma il tutto è chiaramente un'evasione, un gioco di ruolo. Naturalmente ci sono delle eccezioni, come ci sono anziani che vivono la vecchiaia come stagione di totale liberazione dal giudizio altrui in cui i jeans sono a loro agio. Ciò che in iultima istanza voglio dire è che l'abbigliamento classico è narrazione, ambiente dove sono consentite la fantasia, l'esagerazione, la partigianeria, non la bugia. Mettere i jeans per dichiararsi giovani e liberi quando non si è né l'uno né l'altro da luogo a spettacoli tristi, la cui moltiplicazione alla lunga ha eroso buona parte della gloria secolare di questo monumento.

Cavallereschi saluti
Giancarlo Maresca
da Napoli, domenica 25 ottobre 2020 alle ore 13:52:45
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Lorenzo Villa

Esimio Gran Maestro,


una domanda di carattere tecnico-estetico. Ovviamente parliamo di selvedge raw denim jeans, i soli che un gentiluomo considera come tali.

Ebbene, quando vi è da accorciare l'orlo inferiore, Lei cosa consiglia ? Suggerisce di risvoltare il fondo mantenendo l'orlo originale oppure di eseguire la cucitura nascosta a filo che mantiene l'orlo originale, ma, diciamolo, interviene sulla fattura del capo, con risultati sul denim più pesante un po' dubbi ? Addirittura rifare ex-novo l'orlo ?


Cavallerescamente 

Lorenzo Villa  

da Parma, giovedì 12 novembre 2020 alle ore 11:16:14
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Giancarlo Maresca

Illustre Cavaliere Villa,

credo che sia il filone western che quello del bluson noir abbiano presentato i loro personaggi migliori con i jeans risvoltati a mano. Non manca alla scelta un significato profondo, che attiene alla natura indipendente dei personaggi. Un solitario cowboy e un selvaggio urbano non hanno una mogliettina o una mammina che cucia loro la piega, devono e vogliono contare sulle proprie risorse, senza dipendere dagli affetti.

Cavallerescamente
Giancarlo Maresca

da Napoli, giovedì 12 novembre 2020 alle ore 18:56:05

Lorenzo Villa

Egregio ed Insuperabile Gran Maestro,


la sua risposta mi piace perché non solo indica la strada corretta ma perché ne lascia intravedere tutto il fascino, tutte le sensazioni ad essa collegate.

Insomma, ci si sente proprio trasportati nel profondo Texas o in sella ad una possente motocicletta. Ha risposto facendomi vivere ogni spirito che la storia ha voluto inserire in quel capo "di confine" quale è il jeans.

Che risvolto sia.


Ad Maiora G.M.


Cavallerescamente

Lorenzo Villa

da Parma, venerdì 13 novembre 2020 alle ore 15:06:54
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