Cinema De-Genere





"Più avanza il progresso tecnico, più lo spirito creativo va in declino. E io temo che l’elettronica finirà per aiutare solo i film di terza scelta" (Orson Welles)

Ogniqualvolta sento associare aggettivi come rivoluzionario e innovativo ad un nuovo film mi adombro. Come si faccia a portare qualcosa di nuovo in un linguaggio oramai morto me lo devono ancora spiegare. È come se coniassi un neologismo in sanscrito e pretendessi di averne cambiato per sempre l’utilizzo corrente.

L’ignoranza può al contempo essere portatrice di sciagure, ma anche di grandi colpi di genio. Uno su un miliardo, certo. Orson Welles ammise di aver saputo innovare il linguaggio filmico del’epoca, e tutto il successivo, perché non sapeva nulla di cinema. Credeva che con la macchina da presa tutto si potesse fare. Quando sul set si è trovato di fronte alla necessità di rendere una determinata prospettiva ha dovuto lavorare d’ingegno, lui e suoi tecnici. Così, ad esempio, per riprendere dal basso un personaggio, facendogli toccare il soffitto grazie alla distorsione ottica, ha dovuto scavare un buco profondo qualche metro nel pavimento. L’incoscienza geniale che diventa capo-lavoro.

Questo accadeva in Quarto Potere, uno dei film più innovativi (stavolta sì) della storia del cinema. Da allora poco altro. Tutto quello che in questi giorni appare sullo schermo, da Avatar ai film d’animazione in 3 D poco hanno a che fare con il progresso del linguaggio (oramai il libro è chiuso) ma riguarda piuttosto la storia della tecnica. È quindi qualcosa di diverso dal cinema. È un parente. Ma sembra un estraneo. Quando poi si decide di candidare agli Oscar un lungometraggio animato in digitale (Up! Nel 2010) nella categoria Miglior film, allora comprendiamo come la deriva sia diventata normalità e tutto il resto ne risentirà per sempre. Non entro nel merito della valenza artistica dei film di animazione, che anzi sono dei prodotti godibilissimi e scritti con molta arguzia e conoscenza del mercato, tali da renderli al contempo fruibili da più target di pubblico contemporaneamente (hanno una lettura a più livelli). Ma quale mimesi potranno mai attivare con il pubblico? Da sempre gli spettatori sono coinvolti nel film che vedono. Quando si entra(va) in una sala, ci si siede al proprio posto e davanti a uno schermo bianco. A differenza della Tv, nella quale le immagini sembrano partorite dal di dentro e ti colpiscono in faccia come un diretto, con una semplice traiettoria dal punto a al punto b, nel cinema no, è più complesso.

Innanzitutto quello schermo viene riempito da due fonti: la prima da quel pertugio dal quale il proiezionista (almeno una volta) carica il rullo del film (o pizza) facendo iniziare il rumore metallico del proiettore. La seconda siamo noi stessi, con la nostra impazienza, le nostre aspettative e la nostra mente. Avvertiamo che il film ci sorprende arrivando dalle spalle per poi riverberarsi davanti a noi e colpirci ancora. Non c’è via di scampo.



In questo Fotogramma, il Don Chisciotte di Orson Welles va al cinema. Tra poco, giudicando reali le immagini sullo schermo, si avventerà su di esso fino a squarciare il telo.

Tantissimi studi hanno analizzato la trance che si impossessa dello spettatore di cinema, stato acuito oggi da una tempesta di suoni avvolgenti, di aria condizionata gelida come i venti islandesi, tutti dispositivi atti a stordire. Lo spettatore viene ridotto in uno stato ipnotico quello che del resto è venuto a cercare. Naturalmente, come per tutte le sostanze psicotropiche, il dosaggio deve aumentare ogni volta.

Ma torniamo ai generi. Dicevamo del film di animazione e di quelli in 3d, derive infantili per chi non ha più nulla da dire. All'inizio della sua storia il cinema era composto da pochissimi generi, forse solo quattro: avventura, dramma, commedia, sentimentale.

Lo studio più autorevole in materia è stato per molti anni quello di Stuart Kaminski del 1974 in cui, in soldoni, si dice come i generi altro non siano che la riproposizione di archetipi antichi, mitologici. Nel caso di generi autoctoni come il western, lo studioso rintracciava segni arcinoti, come la lotta tra il bene e il male, la legge e il crimine, in una nuova forma. D’altronde, allargando il discorso, tutto il cinema (sto parafrasando il regista russo Ejzenštejn) non sarebbe altro che una nuova veste per vecchi temi. Un’evoluzione linguistica che deriva direttamente dal grande romanzo russo e dalla tradizione teatrale europea.

Ma il genere ha un’altra utilità più commerciale: permette di etichettare un film aiutando i due soggetti in campo, produttori e spettatori, a vendere e a vedere i film, ad orientarsi nel grande supermarket dell'audiovisivo di massa. Si tratta di una sorta di ritualità, di un patto tra film e spettatore, punto di incontro in cui l’industria filmica prospera. Hollywood ha così il modo di offrire una serie di prodotti che rispondono alle esigenze di un pubblico sempre più curioso e bisognoso di risposte. Risposte economiche, perché, è bene ricordarlo, quello che muove la logica produttiva degli Studios è il guadagno. E non si vendono biglietti se non si hanno generi consolidati e remunerativi, ognuno con le proprie star. Lo Studio System è però pronto a tenere in considerazione nuove istanze che muovono dal basso per aggiustare il tiro.

La rivoluzione più cruciale che riguarda il cinema tutto e anche il genere avvenne negli anni ’50. La Nouvelle Vague era un movimento di critici, autodefinitisi ‘giovani turchi’ per la veemenza con cui criticava il ‘cinema di papà’, il cinema francese di allora che veicolava, secondo loro, una vetusta idea di società e di principi. Caposaldo di questi critici era l’esaltazione del film di genere e con esso l’evidenziazione della figura del regista (politica degli autori) che passa così da metteur en scene anonimo e al servizio delle star a vero protagonista dell’industria cinematografica. Più un regista era di genere e maggiormente dimostrava il suo talento. Più si muoveva tra paletti espressivi rigidi e maggiormente aveva la possibilità di mostrare il proprio talento. Hitchcock era uno di questi.



Truffaut è forse il più noto ma anche il meno integralista tra i 'giovani turchi' francesi. Il suo cinema molto sentimentale, nell'accezione più vasta e positiva, lo ha reso amato dai cinefili di tutto il mondo.

Così, per la prima volta in oltre 50 anni il regista viene messo sull’altare ed esaltato, perché in grado di dare un’impronta personale nel periodo in cui il cinema deve incassare diminuzione del numero degli spettatori, concorrenza della tv e di altre distrazioni come il rock e la musica leggera. Ora non è più l’unico creatore di cultura di massa. Per non soccombere si stratifica, si fa più complesso, intercettando domande di un pubblico che si affaccia per la prima volta alla cassa come giovani e donne. Quindi, complice la crisi dello Star System, apre la porta al cinema alternativo (undergroud, giovanilistico, di serie b...) che si era andato formando nel corso degli anni. Ne prende le caratteristiche più evidenti e le fa proprie.

Così i generi si arricchiscono (o si snaturano) con le sfumature: il dramma diventa esistenziale, il western psicologico, il noir edificante, si creano gli anti-eroi, l'apologia del perdente e del ribelle. Inoltre, per la prima volta nella storia la dicitura "film di" precede l'esposizione al pubblico. I registi diventano protagonisti: abbiamo un film di Hitchcock, di Houston, di Welles, di Bergman, che sovrastano il timbro drammaturgico del film.

Venuto meno lo star system e cercando nuove modalità espressive, ci si affida così al regista per dare un taglio nuovo e personale ai film in questione. In pratica, quello che fu rimproverato a Welles (un'eccessiva personalizzazione) viene ora adottata come condotta. Nascono così i nuovi registi che creeranno da qui a poco un nuovo status quo: Scorsese, Spielberg, Lucas, De Palma etc. Sino ai giorni nostri, quando ‘un film di’ non lo si nega veramente a nessuno.

Altri due elementi che concorrono nella variazione del genere come nota di riferimento nell'etichetta di un film sono fortemente intrecciate tra di loro: le cinematografie nazionali e la condizione sociale.

In Italia abbiamo avuto le commedie all'italiana e quelle sexy, i polizieschi, tutti prodotti degli anni '70, forse l'unico periodo in un cui il cinema medio era organizzato come una vera struttura organizzativa ed era riconducibile ad alcuni stilemi certi (seppur di dubbio gusto) e di impronta industriale.

In Francia il più noto è senz’altro il polar, poliziesco dalle tinte cupe ed esistenzialiste. In Germania le grandi storie di interni, familiari, ad esempio quella di Heimat. In Medio Oriente spopola il wuxiapian, l'equivalente del nostro 'cappa e spada'.

Negli anni '70, dopo il nefasto '68, prolifera il genere catastrofico: aerei che precipitano, vulcani che eruttano, mari che travolgono...



Come se non fosse bastato Airport '70, ecco un uno dei tanti sequel a cui la cinematografia hollywoodiana e non solo ci ha abituati. Trovata la formula di successo, la si replica con piccole variazioni , fermandosi solo quando si siano stufati anche gli spettatori più catatonici.

Similitudini niente male per una crisi valoriale che ancora ci tormenta. Oggi invece abbiamo il 3d e i multisala, i film di Moccia e ‘Scusa se ti chiamo per nome’, gli horror dove si vede tutto e non si ha paura di niente, i sequel e i prequel, la rivalutazione critica del cinema porno tedesco della seconda metà degli anni ’70, il rifacimento e, leccornia sopraffina, le frasi descrittive tipo: ‘dal produttore del film del fratello dell’aiuto regista della seconda unità di Quentin Tarantino’…

Archibald Alexander Leach



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