Molti testi sulla materia concordano nel definire classico il cinema che va dagli anni ’30 ai ’60, anche se qualcuno parte dagli anni ’10. Questo lungo lasso di tempo è dominato dallo studio system della Warner Bros, della Metro Goldwin Meyer, eccetera. In seguito, sulla fine degli anni risponde più alle necessità degli spettatori, che chiedono cose diverse e soprattutto un linguaggio meno irreggimentato e paludato, come quello che si ascolta alla radio o si vede in TV. Ottengono così vastissima eco film come Easy Rider, che propagandano un’idea di libertà anarchica e ribelle. Guardando come appare oggi Dennis Hopper, allora rivoluzionario regista del film, non è facile trattenere un riso amaro. Per evitare coinvolgimenti, riconduciamo tutto all’aspetto meramente commerciale. Avendo raggiunto la saturazione con il cinema, abusato nella propaganda bellica e sfruttato in quella consumistica, il mercato USA cerca di acquisire nuovi consumatori. Radio e Tv riescono ad arrivare a milioni di persone, da convertire in ubbidienti ‘compratori’. Le grandi industrie di detersivi (soap opera) producono programmi che divertono, distraggono e fanno comperare. La situazione fino ad allora non poteva garantire questi introiti. Se le donne avessero continuato a fare le galline ed i ragazzi i pulcini, tutto sarebbe ancora così e l’unico pollo da spennare sarebbe rimasto il capofamiglia. Con la scoperta dell’adolescenza inquieta e delle donne emancipate, tutti vogliono, chiedono e possono comprarsi qualcosa che li distingua. Da questo momento, ogni singolo ha delle necessità da soddisfare e le soddisfa comprando qualcosa: un nuovo sapone, una macchina, una maglietta. Un marketing di successo crea una necessità laddove non c’è, meglio ancora se senza motivo. La funzione del consumo è sociale, non materiale. Quello che cambia nel cinema è la prospettiva. Se prima era lo Studio System a stabilire quale attore o regista garantissero maggiori incassi - paradigmatico il caso di Via col vento, di cui magari si parlerà in altro momento - ora sono le spinte dal basso, i gridolini del pubblico, a chiedere cambiamenti, a influenzare le decisioni. È così che in questo periodo nascono i registi che cambieranno il mondo del cinema e sono Scorsese, Coppola, Spielberg e Lucas. Questi raccolgono l’eredità di geni come Welles, Hitchcock e altri, che ad ogni film apportano cambiamenti al linguaggio filmico, dei neologismi che vengono da subito storicizzati. La forza del cinema, infatti, è l’estrema flessibilità espressiva, dell’autore e dello spettatore. Basta immettere un nuovo elemento, come lo zoom o il montaggio parallelo, e questo è già di dominio comune, compreso, accettato, digerito da tutti. La differenza tra questi registi e i maestri precursori è che godono di maggior peso rispetto a chi, comunque, doveva muoversi tra le rigidità di un sistema che sembra inamovibile. Dai primi, piccoli film, girati con attori sconosciuti, ai grandi blockbuster. Il Padrino è il primo film kolossal che segna il passaggio di questa nuova generazione di cineasti. Seguono, alla rinfusa, Lo Squalo, Taxi Driver, Guerre Stellari. Il potere passa dalle mani dei produttori a quelle dei registi/autori. Woody Allen è un caso a sé avendo perseguito una propria idea di cinema minore, nei costi e nelle storie, ma non meno ambizioso. Intanto, gli attori sconosciuti diventano grandi star. Gli esempi generazionali sono Pacino, De Niro, Hoffman, Nicholson. Il nuovo status quo rimane invariato sino agli anni ’80, in cui, tranne qualche eccezione, i registi succitati prosperano e sfornano film su film. Anche l’idea di cinema cambia. Il sistema dei generi si complica ed etichettare un film diventa più difficile, giacché le storie rappresentate si stratificano e acquisiscono più sfumature. Le caratteristiche formali del cinema classico, montaggio e musica, si evolvono, ma il coinvolgimento dello spettatore rimane identico, anzi maggiore. Paradigmatico il film La Rosa Purpurea del Cairo, di Allen, in cui i due meccanismi che si attivano di fronte alla visione di uno spettacolo cinematografico, mimesi e proiezione, sono portate all’estrema conseguenza con l’attore che ‘scavalla’ di campo e viene al di qua dello schermo. Lo spettatore va quindi al cinema per essere coinvolto in una storia, per immedesimarsi e/o rispecchiarsi. La fascinazione che questo medium esercita rimane immutato. Ma oggi si inserisce in una rete di mezzi di comunicazione che contribuiscono ad amplificare ogni singolo messaggio, rafforzandolo e rendendolo capillare. Naturalmente gli occhi di uno spettatore del 2000 non sono gli stessi di uno del 1940. C’è una tensione e anche una ignoranza diversa. Prima si sapeva troppo poco. Ora si sa così tanto che il cervello degli spettatori è come una tabula rasa. Troppe informazioni, infatti, producono, nella mente che non ha gli strumenti per codificarle, un corto circuito del tutto simile all’ignoranza. Per tale motivo i film campioni di incassi, in questi anni, sono di una pochezza impressionante. Ci sono moltissime analogie tra le due epoche. Per entrambe, lo spettatore va colpito, stordito, praticamente rimbambito: vista e udito devono essere costantemente bombardati di informazioni. Tutta la tecnologia disponibile non serve più a far sembrare reale ciò che passa sullo schermo, ma iper-reale. Musica altissima che proviene da ogni parte della sala, video in alta definizione, così alta da essere finta, aria condizionata freddissima. Tutto il corpo viene interessato dalla moderna esperienza cinematografica. Siamo in una fase di analfabetismo di ritorno. Siamo in una nuova alba. Così come i primi spettatori rimanevano scioccati dalle semplici immagini in movimento e dai progressi della tecnica (sonoro, cinemascope, effetti speciali), ora la computer graphic costituisce un surrogato della realtà, onnipresente, che deve far gridare dalla meraviglia. Se agli inizi il cinema era così imperfetto da essere un ‘al di qua del reale’, manifestando una incapacità tecnica nel riprodurre il reale; il cinema classico si sforza di essere un ‘hic et nunc’, una fotografia del vero; il cinema ‘iper-reale’, invece, è manifestamente finto, costruito, artificiale. Occorre quindi chiarire meglio quali sono le caratteristiche del cinema classico, e dove sono avvenuti i principali cambiamenti. Il cinema classico muta al variare di queste tre condizioni: 1- Linguaggio (aderenza ai generi oramai codificati) 2- Organizzazione produttiva e distributiva 3- Fruizione, modalità di consumo (convergenza media) Se il linguaggio è quello codificato già negli anni ‘30/’40, con uso del montaggio classico, atto alla comprensione di una trama, se l’organizzazione del sistema avviene dall’alto al basso, con le case di produzione a dettare le regole, e se il cinema è il luogo deputato al consumo di film allora stiamo parlando di cinema classico. Diversamente, se cambiano i segni filmici, con costante predominio della tecnologia, e la modalità di racconto, se con il digitale si salta la gerarchia produttrice e distributiva, e, soprattutto, se il prodotto viene consumato a casa o in spazi alternativi al cinema, allora stiamo parlando di cinema non classico. Il quale abbiamo definito ‘iper-reale’, o digitale. Come tutte le categorizzazioni e le teorie, più irremovibili sono i paletti di confine, maggiormente rigorosa è la distinzione tra i vari componenti, e tanto più fragile sarà il paradigma, ricco di eccezioni e di confutazioni. Perché su una materia ancora via, seppur morente, non si può dare per definitiva e chiusa alcuna teorizzazione, ci troviamo a dover lavorare in fieri. In Titanic (1997) la supremazia della tecnologia surclassa la tecnica. Nella scena in cui la nave si spezza in due e affonda. Questo ribaltamento della nave, che muore involuta su sé stessa, facendo precipitare i passeggeri dall’alto in basso schiantandosi sul mare, simbolizza la momentanea sconfitta del cinema delle idee ad opera di quello tecnologico, segnato dal progresso informatico. La nave spezzata non può più ricomporsi. Il cinema rotto non può più ripararsi. La nave ha un solo destino, quello di scomparire tra le onde. Il cinema la segue. La nave è il simbolo più efficace e catastrofico e tragico della morte del corpo-cinema. Dal 1997, anno di Titanic, abbiamo alcuni film seminali che sottolineano questa mutazione-morte epocale: Tetsuo (1998), film giapponese che s-ragiona sulla concezione di corpo-macchina; Eyes Wide Shut (1999), dominio dello stile onirico proprio del cinema classico, che offre una dimensione altra e magica in cui rifugiarsi, DOMINIO DELLO STILE, dimensione tecnica. Matrix (1999), la dimensione tecnologica vince sullo stile classico. Il computer sulla pellicola. Dal 1997 in poi è avvenuto il cambio di paradigma: quello classico ha lasciato il posto a quello post-moderno, poi iper-moderno, etc. Naturalmente in tutti i tipi di cinema che vengono prodotti attualmente c’è sempre qualche traccia di classico, sicché solo conoscendo il cinema classico è possibile l’interpretazione di tutta la produzione odierna. Se il panorama è profondamente cambiato, dunque, c’è sempre qualche elemento che si ispira, citandolo e trasformandolo, al cinema classico. C’è però un dato di fatto: questo cinema non è più cinema, parafrasando Magritte. "Il cinema è un prodotto del ‘900 come la fabbrica e il calcio, tutti nati dalla società industriale. Caduta quella, non c’è più il sistema cinema nel quale siamo cresciuti" affermava Goffredo Fofi. Il medesimo concetto lo esprimeva Carmelo Bene, che il cinema lo ha materialmente distrutto, spezzato, frantumato: "Il cinema è come l’Ellade. È durato a malapena un centinaio di anni". Adesso che abbiamo definito il cinema classico, si pone i il problema di come catalogare le varietà estetiche e stilistiche presenti al suo interno. Abbiamo identificato 4 diverse tipologie di cinema, 4 macro-generi. All’interno di ognuno ci sono germi classici, piccole spie che ci riconducono laddove il linguaggio filmico ha iniziato ad articolarsi: A - Cinema di scrittura (narrativo) 1) - Autoriale (Allen, Scorsese) 2) - Industriale (commedie sentimentali) B - Cinema di immagine (anti-narrativo) 3) - Autoriale (Lynch, Kar Wai, Bene, Kubrick) 4) - Industriale (Speed Racer, Pixar) È all’interno di queste che specie dobbiamo compiere il nostro lavoro di analisi, riconoscendo la classicità ove essa si annidi e disconoscendo la cialtroneria degli analfabeti. Postilla 1 - Se nel 1997 è avvenuto il passaggio definitivo tra i due generi di cinema, classico e iper-moderno, è nel 1990 che i prodromi si erano fatti già sentire. A questo anno, infatti, risalgono gli ultimi due classici mainstream: Ghost e Pretty Woman, film femminili per definizione, che però esercitano tutt’oggi lo stesso fascino di film più datati. Postilla 2 - Si è registrato ultimamente un ritorno al passato per quanto riguarda l’organizzazione e la divisione del capitale economico. In questo frullato di simulacri, derivati della mediocrità, ancora una volta il cinema ha cambiato sé stesso. Nonostante gli strumenti si siano fatti più leggeri e avanzati, si è ricreata la vecchia oligarchia produttrice/distributrice. Paradigmatica la parabola della Miramax, piccola casa di produzione indipendente di enorme successo fagocitata dalla Disney fino a scomparire. Si tenta di restaurare almeno uno degli elementi propri del classicismo, che ha fatto dell’industria cinematografica la più grande macchina culturale del ‘900. Tutti gli accessi alla produzione e alla veicolazione del prodotto filmico sono custoditi da poche mani che selezionano progetti ed elargiscono denari. Di contro ad una pur viva voglia di sperimentazione e libertà, si è irrigidito l’accesso alle fonti. Da questa situazione di criticità, forse, rinascerà qualcosa di stabile che sarà il cinema del futuro, che recupererà quanto di buono fatto e sedimentato nella coscienza e nell’immaginario di tutti noi e sostituirà l’insieme carente ed incoerente di segni che è un film di oggi. Archibald Alexander Leach