Ospedale

IL GENTILUOMO IN OCCASIONE DI SOGGIORNI
PRESSO OSPEDALI O CASE DI CURA

Questo capitolo prende spunto da una mia esperienza presso un ospedale ove sono stato ricoverato per una malattia assai rara e che si è da poco avviata verso un cammino in salita che verosimilmente sarà lento, ma progressivo. Le fortunate coincidenze che hanno accompagnato il sopravvenire di tale infermità mi hanno permesso di mantenere una discreta lucidità nel corso della stessa, cosa che mi ha consentito di riflettere su come un gentiluomo sia e debba rimaner tale anche lì dove è personalmente colpito da infortuni invalidanti.

In questo breve capitolo farò dei riferimenti ai miei accadimenti personali per motivare quali considerazioni mi portano a suggerire alcune scelte e non altre.

La malattia mi ha colpito improvvisamente, raggiungendo il suo picco di maggiore invasività nell’arco di poche ore. Essa ha comportato la paralisi degli arti inferiori e superiori in completa assenza di dolore, avendo danneggiato ed in alcuni casi distrutto le terminazioni nervose. Il cervello, pertanto, non annebbiato per il fastidio fisico, ha potuto elaborare e discernere, con relativa serenità, quelli che erano i comportamenti per me più consoni in tali situazioni.

Il riuscire a portare con sé le proprie abitudini, anche in un luogo particolare qual è un ospedale, può rivelarsi di infinito conforto per un ammalato. Infatti, anche se il proprio corpo è invalidato, lo spirito si mantiene saldo se gode di quelle piccole consuetudini che, in un simile contesto di dolore, sofferenza e, spesso, spiacevole a dirsi, di completo abbrutimento, si rivelano nella loro reale ampiezza e sostengono la voglia di riprendersi fisicamente. Innegabile che la presenza della mia compagna, che sin dall’attimo del ricovero mi stimolò affinché mai abiurassi a quelle, mi fu preziosa ed indispensabile.

Se l’internamento è improvviso, come accadde a me, si può posporre, grazie all’aiuto d’un parente o d’un amico, l’attendimento di quelle piccole necessità che, per come si vedrà, si riveleranno preziosissime nella loro reale grandezza. Se, viceversa, il gentiluomo potesse, per tempo, prevedere il proprio ricovero, non fosse solo per malattia, ma anche per semplici accertamenti di routine, potrà dedicarsi egli personalmente a ciò.

La maggior parte delle occorrenze, come già accennato, furono seguite per me dalla mia compagna; ma ne ho condiviso completamente le scelte tanto che le ripercorrerei integralmente, nella malaugurata ipotesi di una novella necessità ove, viceversa, avessi il tempo e la possibilità di occuparmene direttamente.

Un capiente borsone potrà essere utile a contenere il necessario per un primo approvvigionamento dell’armadietto ove vengono ricoverati gli effetti personali del degente; buste, sacchetti, zaini ed altri tipi di contenitori consimili non fanno parte degli usi d’un gentiluomo. Tal fatta di cose ne minano la dignità, il cui mantenimento ad ogni costo sarà, per come si vedrà appresso, di strenuo supporto nello sconfiggere l’infermità e di determinante aiuto nella convalescenza.

L’Ospedale, di per sé, per quanto possa avere i muri dipinti con tinte pastello e pavimenti chiari e lindi è, e sarà sempre, un luogo triste. Il colore del borsone, che servirà anche per il trasporto dei ricambi di biancheria, sarà sicuramente un primo passo verso la ricerca di quei conforti che contribuiranno a creare delle situazioni di benessere intellettuale. Quello che mi accompagnò era di pelle color panna ed aveva dei profili di cuoio chiaro che mitigavano l’incombenza a cui lo stesso era preposto: il trasporto dei ricambi d’un ammalato.

Un’altra scelta per me fondamentale fu l’aver rifiutato la sia pur garbata offerta d’uno spostamento, sin dalla prima notte, in una stanza singola. Scelsi di restare in quella in cui fui immediatamente collocato, ove v’era la vicinanza d’altre persone la cui umanità si dipanò pian piano, lasciando trasparire l’animo dei miei compagni di camerata. Ognuno col proprio vissuto, la cui scoperta riempì il mio spirito d’un calore che mi fu d’ulteriore aiuto nel trascorrere i tempi della degenza. Quanta tristezza, di contro, quando, recandomi nel bagno o facendo, sia pur brevi tragitti, nei corridoi, supportato nella deambulazione, vedevo, nelle uniche due stanze singole esistenti in quel reparto, i volti tristi ed immusoniti degli ammalati che le occupavano con gli occhi persi dietro programmi televisivi che ne annichilivano ulteriormente le già difficoltose condizioni. Com’ero più fortunato io, che trascorrevo il mio tempo, inframmezzando la lettura dei libri che m’accompagnarono in quei giorni, in brevi chiacchiere con i miei compagni di stanza, per poi bearmi, socchiudendo gli occhi, nel riflettere sulle loro personalità, con le loro manie, le loro stranezze e la loro grandezza. Talvolta, celata dalle non particolarmente eccelse condizioni economiche o culturali, ma non per questo meno preziosa.

Gli infermieri consigliavano agli ammalati d’indossare pigiami di maglina. La totalità di coloro che condividevano il nostro soggiorno in quel reparto vi s’uniformavano, preferendo, per tali capi le tonalità del blu scuro o le gamme di grigi con la parte superiore degli stessi a forma di maglia con colletto a due o tre bottoni, il cui massimo della ricercatezza era nei disegni a losanghe, tono su tono, della casacca. Non ho accettato quel suggerimento, anche perché avrei dovuto rinnovare il mio guardaroba di pigiami tagliati rigidamente a forma di giacca e pantaloni che mi venivano cambiati ogni giorno e che erano sempre perfettamente stirati.

Per i rari spostamenti, o quando ero seduto nella sedia a rotelle, utilizzavo delle pantofole in velluto nero sempre spazzolate. Ho notato che gli altri degenti preferivano ordinari sandali incrociati in pelle, sovente d’un color marrone piuttosto scialbo, o tutt’al più calzavano i tipici sandaloni ospedalieri nella versione alleggerita multicolore, che vediamo sulle nostre spiagge già da qualche anno ai piedi di persone che non emergono per eleganza.

La vestaglia sopra il pigiama contribuisce a rendere meno sciatta la propria immagine e, s’è di seta con disegni cachemire, ingentilisce ulteriormente. Per un ricovero invernale o durante i climi meno temperati rispetto a quelli estivi una vestaglia di medio peso in velluto di lana liscio e stampato potrebbe essere di sicuro conforto per l’animo del gentiluomo già sottoposto a dura prova per la propria infermità. Anche questo modo di vestire mi ha consentito di mantenere sempre viva la mia dignità, che ha fatto da ulteriore puntello al mio spirito ed alla mia volontà di superare gli impedimenti.

Un altro oggetto che conteneva il mio borsone era una capiente confezione di acqua di colonia d’una fragranza classica e piacevole, con cui la mia compagna imbeveva dei bianchissimi fazzoletti di batista e mi frizionava tutto il corpo almeno due volte al giorno. Era anch’esso un piccolo lusso, sicuramente non costoso, ma che faceva assolutamente bene al mio spirito. Il ricordo del benessere che ne traevo rimarrà, persistente, nella mia memoria.

Chi mi conosce sa che ho la barba fluente ed i baffi all’insù a cui mi son sempre dedicato personalmente e, pertanto, non amo che alcuno, pur esperto, vi si occupi. A chi, viceversa, non avesse la barba, od, avendola, accetti che altri v’attenda, suggerisco di concedersi alle cure dei barbieri ambulanti che ogni giorno passano nei reparti per prestare i loro servizi. Nel nostro corridoio ne passavano due: uno, più giovane, che usava una crema da barba spray unitamente ai tradizionali rasoi plurilama, completando il proprio lavoro col cospargere la parte rasata con un balsamo idratante a pomata, ed un altro, decisamente più anziano, che usava il rasoio tradizionale sia pur con le lame di ricambio, il pennello per il sapone ed il dopobarba classico nonché il pennellino da barbiere per eliminare eventuali peli caduti sul collo. La barba di quest’ultimo costava due euro in più, ma in un ospedale certe attenzioni, per un uomo, possono essere assolutamente significative e certe abitudini, cui non si fa caso nella normalità quotidiana, diventano essenziali in luoghi come gli ospedali.

La mia malattia m’impediva molti movimenti, tra cui l’estensione delle braccia, cosicché per raggiungere l’interruttore della luce o per spostare piccoli oggetti mi ero fatto portare una cannetta da passeggio con cui accendevo e spegnevo la luce ed avvicinavo od allontanavo ciò di cui avevo necessità e che diversamente mai avrei raggiunto. Avrei potuto chiamare in continuo l’infermiera per tutto ciò; ma non avendo molto da fare era assolutamente più divertente armeggiare con la mia cannetta da passeggio.

Un’altra piccola consuetudine alla quale m’aveva abituato la mia compagna era il portarmi ogni giorno un piccolo rametto di gelsomino, che staccava da quello antico che ricopre uno dei muri di recinzione del parco di casa, con due o tre fiori. Lo riponeva in un bicchiere sul comodino a fianco del mio letto. Una cosa modesta, infinitamente grande. Due o tre fiori non più, si badi bene; meglio ancora se d’un vecchio rampicante. Le corbeilles di fiori è opportuno che continuino a far bella mostra di sé nei negozi dei fioristi e non vicino ai letti d’ospedale, ove rimangono giusto il tempo che si trattiene accanto a noi chi ce li omaggia, per poi essere spostati ai piedi delle immancabili statue di Madonnine e padre Pio presenti nei corridoi.

Per mia esplicita scelta avevo pregato la mia compagna di non dare diffusione del mio fortunoso accadimento e di vietare le visite a chi, comunque, ne avesse avuto notizia. Non amo gli assembramenti intorno ai capezzali degli ammalati, trovando che gli stessi possano avere senso solo nel momento supremo del distacco dello spirito dal corpo. Ed anche in tali momenti, unicamente quelli formati dai parenti più stretti e dagli amici più cari, evitando affini, cognati, cognate e quant’altro. Meglio la vicinanza, in quei casi, d’un famiglio affezionato che di un lontano parente. Gli assembramenti di parentame, colleghi e quant’altro, con il loro vociare e chiocciare, se non dà noia all’ammalato potrebbe darlaa al vicino che soffre o vorrebbe semplicemente trovare nel riposo un attimo di sollievo. Tutto ciò in alcuni casi si trasforma in un offerta di doni, dai dolciumi alle piantine fiorite ai peluches e consimili che obbliga i presenti al capezzale a commenti smielati sulla bellezza dell’uno e dell’altro, nonché a profusioni di ringraziamenti da parte dell’ammalato e dei suoi più prossimi per i gentili e "graditi" pensieri. Tali comitive, usualmente, si frammentano in gruppetti di due o tre persone che iniziano a conversare tra di loro: gli argomenti sono i più vari; si parla dei risultati delle partite di calcio, così come s’intessono dotte dissertazioni farcite di paragoni con altri conoscenti che hanno già avuto in precedenza la medesima malattia, ulteriormente condite da riflessioni scandalizzate sull’ignoranza dei medici e sulle incapacità e trascuratezze del personale infermieristico della specifica struttura sanitaria a differenza di altre ubicate in località normalmente assolutamente distanti dalla residenza del povero degente in cui si dice siano avvenuti veri e propri miracoli. In tema di visite ai malati non posso tacere un accadimento, per la pregnanza del sentimento che divenne quasi palpabile in tale circostanza. Alle mie richieste di evitare le visite, qualche defezione vi fu, tra cui quella che avrei meno desiderato. Da appena due mesi era scomparso il mio miglior Amico dopo una brevissima e fulminante malattia. Pertanto desideravo che il fratello più piccolo, che unitamente a me gli era stato vicino sino alla fine, non mi venisse a trovare per non rinnovare la tragedia vedendo anche me in simili condizioni. Seppi poi che egli, non avendo mie notizie, mi aveva cercato ovunque, compresi i luoghi inusuali quali ospedali e case di cura, sinché s’affacciò un giorno alla porta della mia stanza. Io ero assopito per i postumi della puntura lombare e la mia compagna non fece in tempo ad annunciarlo che si precipitò accanto al mio letto. Lo invitai a sedere senza riuscire a vederlo distintamente più di tanto, gli dissi il motivo per il quale men che meno avrei voluto che lui fosse lì in tal momento. Mi prese la mano e lo sentii piangere. Se l’affetto avesse potuto avere corporeità, ebbene quello fu un momento in cui esso poté essere colto oltre che dallo spirito anche dai sensi corporali. Non avendo forza né nelle braccia né nelle mani, avevo pregato la mia compagna di lasciarmi sempre aperto il cassetto del mio comodino nel quale avevo, in uno scomparto, un pettine con il quale ravviavo spesse volte, sia pur con grande sforzo ed in modo verosimilmente impacciato, i capelli e la barba, desiderando che il mio aspetto fosse, sempre, quanto più in ordine possibile. Sarebbe stato auspicabile, ovviamente, fare ciò in bagno davanti allo specchio; ma gli arti inferiori si rifiutavano di accompagnarmi colà ogni qual volta ne sentissi la necessità e, pertanto, non avendo mai avuto soverchi problemi di perdita di capelli nel pettinarmi attendevo a questa necessità di decoro steso nel mio letto. Gli antichi samurai prima d’ogni battaglia si truccavano in modo assolutamente raffinato e, fors’anche, ridondante, dedicando a tale incombenza molto tempo, affinché né la morte avesse la possibilità di sbeffeggiarli per la loro trascuratezza, né il nemico trafiggitore di sprezzarli. La dignità d’un gentiluomo dev’essere conservata ad ogni costo, in ogni luogo e situazione, anche lì dove ci si trovi in posti in cui la sofferenza e, talvolta, la morte, vorrebbero spadroneggiare facendo scempio, oltre che dei corpi, anche dello spirito. Questo però ha sempre modo di trionfare, dimostrando così alla nera signora ch’è lei, poiché muore ogni qual volta uccide, ad appartenere ad un mondo caduco; divenendo viceversa l’animo, oramai incorporeo, immortale. Le Walkirie accompagnano lo spirito degli eroi nel Walhalla, in Asgard, dove essi si cibano del verro che rinasce di continuo e bevono idromele in attesa del combattimento finale che permetterà ai meritevoli l’accesso a Gimle, destinazione finale del loro spirito. Questo deve sempre tener presente il gentiluomo. Questo è il suo destino: se vivrà con la dignità degli eroi a cui il fato riserva una miglior sorte, anche rispetto agli Asi, agli dei, che sono comunque destinati a morire, il suo animo sarà immortale. E’ la dignità che fa d’un uomo un eroe, non il semplice fatto di cadere in battaglia, ché, purtroppo, nell’agone, muoiono sia i volontari, sia i proscritti: sia chi si trova involontariamente in combattimento, sia chi ne fa propria la causa. Solo questi ultimi però sono gli eroi, solo questi sono i gentiluomini il cui spirito vivrà in eterno anche nell’alternanza degli universi.
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