Compendio



IL GENTILUOMO NELLA PROPRIA CASA



g) La carta da lettere e la carta da visita di un gentiluomo Abbiamo ormai assodato che un gentiluomo, come conseguenza o forse come presupposto di questa particolare condizione, trascorre in casa la parte qualitativamente più importante del proprio tempo.



L’uomo ha sempre avvertito una certa vicinanza coi propri simili, dovuta alla condivisione di sogni e bisogni, ispirazioni e aspirazioni, ma l’accesso alla rete, sempre più facile e veloce, ha introdotto una comunanza del tutto nuova. La possibilità offerta dal WEB di comunicare dati e messaggi in maniera immediata collega le persone sul piano pratico, ma anche su quello spirituale. Tutti, man mano che l’avventura digitale va avanti, vivono le stesse esperienze, condividono lo stesso linguaggio, incorrono negli stessi problemi. Le conseguenze antropologiche di questo fenomeno, che rientra nel grande ciclo della globalizzazione, sono ancora in massima parte ignote. L’informazione cresce, le differenze diminuiscono. I paesaggi umani, che furono così vari, nell’epoca dei jeans e sneaker per tutti si rassomigliano ovunque.





Non ci sono più le lavandaie che lavano i panni nel fiume







e molti, vedendo ad un "cofano" di terracotta per lavare la biancheria, lo prenderebbero per un vaso da giardino.



Non è più compito della donna alzarsi di buon mattino ed iniziare la cottura d’un sugo





che sarebbe terminata intorno al dodicesimo rintocco d’un orologio posto, usualmente, o sopra d’un camino o, nelle case più agiate, sopra le consolles in composizione, talvolta, con candelieri laterali. Oggidì si può programmare telefonicamente l’accensione computerizzata del forno che farà trovare ai padroni di casa, all’ora da essi voluta, indicata su d’un display dalla luce verde od azzurrina, i cibi preconfezionati ben scaldati pronti per essere consumati.





Chi è nato negli ultimi decenni potrebbe non conoscere il significato della parola "carburatorista". L’elettronica, oramai, e, per certi versi benevolmente, gestisce anche le nostre autovetture. Ugualmente la parola "carburatorista" diventa, pertanto, desueta e la corrispondente attività quasi del tutto inutile se non per alcune automobili quasi museali. Infiniti altri esempi potrebbero essere addotti per comprendere come l’utilizzo del termine iniziale "assorbente" riferito all’elettronica nel mondo presente non sia del tutto fuor di luogo. Chi ha avuto i primi telefoni fissi all’interno della propria autovettura ricorderà la cornetta simile al telefono di casa collegata con un cavetto a spirale e dei pulsanti che, pigiati, componevano un numero telefonico e mettevano in contatto il guidatore con utenze fisse od altre mobili;





sin dall’inizio si percepì la pericolosità alla guida dell’uso del telefono e, contestualmente ai primi telefoni per auto, comparvero i "viva voce". Breve fortuna ebbero i telefax per auto. Arrivarono, di lì a breve, nel settore della telefonia mobile, i cellulari che si potevano riporre nelle tasche o nelle borse e, con essi, gli "sms". Oggi, osservando i giovani, si nota come si stia sviluppando un’attitudine alla digitazione che rappresenta un fenomeno razziale e non solo culturale. Il lavoro, inteso come qualsiasi faccenda usuale che impegni in modo diretto, cambia l’uomo dentro e fuori. Poiché si assiste ad una diminuzione non solo delle attività di cui abbiamo parlato, ma di tutte quelle manuali impegnative, a cominciare dall’alzare una valigia, dobbiamo concludere che la delega delle nostre funzioni tradizionali a servitori elettronici ci stia cambiando psicologicamente e biologicamente. In un mondo che condivide i problemi elettronici e non le gioie quotidiane, la conoscenza di un programma televisivo e non della ricetta della pastiera, l’altro uomo sembra avvicinarsi ed in realtà è più lontano che mai.





Un conoscente, quasi dimenticato nelle memorie del tempo, si ricorda d’un altro e gl’invia tramite "sms" gli auguri di Natale. Non si può non rimanere colpiti dalla inusuale cortesia di questo signore che a distanza di tant’anni ha avuto il garbo di ricordarsi di quell’altro e con un pensiero anche abbastanza composito che esalta, usualmente, i sentimenti della ricorrenza per la quale tal messaggio è inviato. E’ un sms od una e-mail circolare! Trattasi di frasi fatte che vengono inviate a tutti i gruppi d’indirizzi che, indistintamente, si trovano su d’un supporto elettronico, sia esso un cellulare, un computer od altro; pertanto, anche persone di cui ci si è dimenticati, forse, le fattezze del volto o l’occasione in cui le si è conosciuto ricevono le nostre affettuosità votive. E’ solo il loro numero memorizzato su d’un cellulare chissà in qual frangente e chissà quanto tempo addietro, benevolo distributore di messaggi augurali assolutamente anonimi, asettici ed identici l’un l’altro. Trovandoci in una sede cavalleresca, possiamo apertamente dire che tutto ciò è troppo! Può essere sicuramente comprensibile che i tempi siano cambiati; può esser certamente evidente che le necessità di sopravvivenza abbiano ridotto gli spazi umani; può esser assolutamente chiaro, anche se questo forse un po’ meno, che un uomo abbia sufficiente tempo libero dal lavoro solo per la partita di tennis, di golf o di calcetto e non per inviare un biglietto d’auguri, ma un sms circolare non è tollerabile in ogni caso!



Cos’è alla fin fine un pensiero augurale, se non la trasmissione verbale d’una energia positiva che si desidererebbe raggiungesse una persona cara? L’energia trasportata da un sms, mancando la forza, il calore e l’impronta di una mano, è più bassa. Quella di e-mail circolare è nulla, se non negativa.



Senza negare o rinunciare ai vantaggi dell’elettronica, ciascuno può fare il suo per non essere succube di quelle sue applicazioni che comportano una perdita spirituale.





La necessità di scambiarsi informazioni a distanza è insita in tutta la natura, probabilmente anche in quella apparentemente inanimata. La stessa vita viene dalla riproduzione e la riproduzione da una ricerca che si conclude in uno scambio ravvicinato (anche se su quest’ultimo punto ci sono molte novità). Gli esseri umani si sono scambiate le informazioni in vario modo, anche mediante l’ausilio di strumenti che avevano il compito di permetterne la trasmissione in forma più o meno duratura, più o meno diffusa. L’arte e la scrittura hanno assolto, tra gli altri, questo compito di propagazione.















La scrittura consiste in segni, originariamente incisi su pietra e poi vergati su supporti sempre più versatili grazie a quanti hanno lavorato alla realizzazione di inchiostri e carte di ogni tipo, valore e funzione. Lo scriba, lo scrivano, l’amanuense, lo scrittore hanno tracciato per millenni questi segni, comuni nella loro struttura di massima e assolutamente individuali nella loro concreta esecuzione.





I grafologi possono descrivere con precisione la personalità di colui chi scrive. Non sempre, chi riceve una lettera scritta a mano, è un esperto grafologo e, se non riesce a descrivere, con appropriata terminologia tecnica e dettaglio di puntualizzazioni, la natura di chi scrisse. Non di meno non avvertirà, nel segno marcato o leggero dovuto alla pressione della penna, alcune peculiarità del suo mittente. Se ci rivolgiamo all’esperienza comune non potremo non notare come, sovente, non sia assolutamente difficile distinguere la scrittura d’un uomo da quella d’una donna. Sono solo esempi della trasmissione di significati meta testuali tipici della scrittura, e tanti altri, immediatamente riconoscibili da chi riceve una lettera, se ne potrebbero citare.





Non c’è limite a quello che si può dire tra le righe. Spesso non riusciamo a vederlo razionalmente, ma il nostro inconscio lo percepisce mettendoci in contatto con colui che ci ha scritto e permettendoci di percepire informazioni subliminali che si possono rintracciare solo nella grafia. Dunque, da una lettera scritta "a mano" abbiamo un duplice ordine d’informazioni: quelle che emergono dalla lettura delle frasi riportate e quelle che percepiamo dalla grafia. Si deve dunque oggettivamente riconoscere che una lettera vergata a mano è più ricca di una e-mail, specialmente di quelle inviate da palmari che non danno la possibilità di interventi estetici sul testo, standardizzando l’importantissimo e vastissimo repertorio espressivo estraneo al contenuto.







Gli usi di mondo hanno voluto, da quando sono state inventate le macchine da scrivere, che la corrispondenza commerciale fosse a queste affidata e quella personale continuasse a viaggiare su fogli vergati a mano. Un motivo ci sarà pur stato ed è facilmente rintracciabile nel fatto che il messaggio delle comunicazioni commerciali non è, e non può essere, che quello che emerge dalle espressioni scritte e null’altro. Viceversa, quello della corrispondenza personale viaggia su altri livelli che vanno oltre il significato delle parole e possono essere percepiti solo, o almeno molto meglio, grazie dalla grafia di chi ci scrive.





Ahimè, e con buona pace degli amanti delle e-mail e degli sms, in quest’alba del terzo millennio dominata dall’elettronica, la corrispondenza vergata a mano continua ad avere una propria significatività, un proprio spazio ed una propria importanza finché l’uomo vorrà essere fatto di corpo, anima e spirito. Quando vorrà iniziare ad abiurare alla sua componente non corporea egli potrà farlo: l’uomo, difatti, non è condannato a restare com’è ed è libero di scegliere. Quando lo spirito dovesse apparire una complicazione inutile, la semplificazione coinvolge anche la cancellazione della scrittura a mano.





Per chi ama le cose complesse e diverse, può sembrare una scelta impossibile, ma a renderla plausibile basta pensare che, quando s’iniziano a togliere alcuni mattoni, si compromette la stabilità dell’edificio in un modo molto meno calcolabile di quando lo si costruisce. Ebbene, la scrittura è uno di quei mattoni.



Or dunque, compito del gentiluomo, dell’uomo dotato di buona educazione, nel significato che s’è dato all’inizio della presente opera, è il preservare anche questo costume: lo scrivere a mano nella propria corrispondenza personale.



Iniziamo ad occuparci, a questo punto, di quali siano gli strumenti più opportuni che debbano corredare l’occorrente del gentiluomo per scrivere o quali siano quegli altri supporti cartacei di cui egli si debba servire in altre occasioni d’uso di mondo.









Avendo già scritto di ciò in passato in altre occasioni, in alcuni brani del presente capitolo verranno riproposte, ovviamente, le medesime considerazioni. La buona educazione non può cambiare. Essa fa parte della legge d’Armonia che permea l’intiero universo. Si può aggiungere qualcosa poiché il cosmo è in continuo divenire ma il nocciolo rimane immutabile.



Principiamo, quindi, ora, a discorrere della carta da lettere. Come sempre, nel trattare un argomento è importante porre, primieramente, l’accento sull’uso a cui è destinato ciò di cui si parla; nel caso della carta da lettere essa è lo strumento con cui si comunica ad un’altra persona qualcosa di sé, il racconto d’un fatto e le proprie impressioni, il proprio pensiero benaugurante per qualche ricorrenza, i ringraziamenti per un’ospitalità per l’ospitalità ricevuta o per un dono. Il primo approccio che il destinatario ha con il contenuto d’una lettera è il contenitore sul quale essa viene vergata: la carta.



Essa trasmetterà, per prima, qualcosa del mittente. Ovviamente si può scrivere su qualsiasi carta, anche su quella d’imballo; il far ciò, però, ha lo stesso significato del presentarsi ad un invito a cena in maglione: unicamente malgarbo nei confronti degli ospiti. Noi non vorremo esser scortesi nei confronti dei nostri destinatari né vorremo ridurre il nostro animo a quello di color che ci han servito pertanto si cercherà di utilizzare un supporto che sia decoroso, elegante ed atto all’uopo, cioè a far risaltare la grafia. Vi è un’infinità di qualità di carta per scrivere; credo qui ci si possa soffermare ad esaminarne solo un paio quali le più adatte ad un gentiluomo, senza peraltro voler far pubblicità ovvia: quella delle cartiere Amatruda, essendo, se non erro, oramai terminata quella della cartiera Milano.



In alternativa si potrà optare per la normale carta bianca liscia d’una buona marca cartiera: al riguardo ve ne sono varie sul mercato; sarebbe, quindi, superfluo citarle. La prima non è di facilissima reperibilità; ha il pregio d’esser fatta come si faceva una volta, quando iniziò a sostituire la pergamena, all’inizio del XII secolo, con buona pace di Federico II che aveva la convinzione, verosimilmente non esatta, che lo scritto sulla carta sbiadisse con il passar del tempo; talché ne proibì l’uso nei documenti ufficiali. Normalmente la carta Amatruda non è bianchissima, ha un tenue color seppia che presenta il sia pur modesto svantaggio, rispetto a quella bianca, di far risaltare meno lo scritto. Ovviamente si deve rifuggire da qualsiasi carta sfrangiata a stampo ad imitazione di quelle di Amatruda; si nota assolutamente la falsità, e, in tal caso, sarebbe preferibile, per assurdo, scrivere su d’una carta da imballo.





Il secondo tipo di carta, quello bianco, viceversa, è di facilissimo reperimento. In questo caso, se non ci sono motivi di peso per usare la famosa "posta aerea", sarebbe preferibile optare per dei fogli non troppo sottili, tipo le veline vergate. Vanno evitate, ovviamente, quelle che esibiscono in filigrana il logo della cartiera. Un tempo le cartiere Amatruda consentivano l’immissione in filigrana, nella carta che realizzavano, dell’inserimento di uno scudo araldico e taluni se la facevano così produrre. Credo si possa convenire che sia questo l’unico caso in cui sia ammissibile una qualche impressione in filigrana, ma non so se il procedimento sia ancora realizzabile. Quanto all’uso, da parte d’un gentiluomo, d’uno scudo araldico, ove non ne avesse uno di famiglia, ho già scritto al riguardo ed a ciò rimando i cortesi lettori del presente lavoro senza tediarli con argomentazioni che andrebbero fuori del tema di questo capitolo. Un gentiluomo esecra sempre tutto ciò che vorrebbe essere e non è. Un semplice ed elegante foglio bianco è rivelatore di gusto e come tale un’ottima opzione per la propria carta da lettera. Alcuni propendono per non fare intestare assolutamente la carta da lettera su cui scrivono. Se manca anche un’intestazione della busta,questo comportamento costringe ad andare subito alla fine del foglio, per verificare la firma apposta dopo l’usuale frase di commiato e, s’essa è leggibile, individuare, al fine, s’è riuscito a decifrare la sottoscrizione, la persona da cui si riceve la corrispondenza. Personalmente lo trovo un inutile atteggiamento di presunzione e propenderei per offrire al destinatario, appena apre la lettera la possibilità di identificare immediatamente il mittente con l’apposizione a stampo od a secco d’un qualcosa che lo possa identificare. Anche nel caso in cui la busta sia intestata, infatti, restano i posteri. Se la lettera viene conservata senza busta, e non reca intestazione, l’identità e quindi la memoria del mittente si perderanno e con essa uno degli scopi dello scrivere sin da quando lo si faceva su pietra: lasciare un segno quanto più possibile eterno. Nei fogli per corrispondenza personale, tutto quel che si può richiedere al tipografo è l’indicazione del proprio nome e cognome in alto a sinistra, sormontato da una coroncina di grado per chi l’avesse, null’altro.









Chi avesse un doppio nome dovrà indicarli entrambi per esteso senza lettere appuntate od abbreviazioni per uno degli stessi. Il carattere che io preferisco è il corsivo inglese con le iniziali del nome e del cognome in maiuscolo; altri caratteri possono essere usati, sempre che abbiano le caratteristiche dell’eleganza e semplicità. Chi volesse far stampare il proprio scudo araldico lo può fare inserendolo al posto della corona di grado anche se nella corrispondenza personale mi sembrerebbe lievemente abbondante e, francamente, eccessivo. Ho visto della carta da lettere personale che riportava unicamente lo stemma impresso a secco in alto a sinistra e null’altro, solo la firma leggibile dello scrivente al termine del testo della lettera: non posso negare che il tutto mi parve d’un eleganza assoluta. In questo caso l’individuazione del mittente era assolta dallo scudo del casato. Un gentiluomo dovrebbe conoscere gli scudi delle persone con cui è in corrispondenza. D’altronde gli amanti del vivere gentile non possono non avere qualche nozione d’araldica. Il nome ed il cognome non devono essere preceduti dall’indicazione di alcun titolo né professionale, né nobiliare. La carta da lettere personale si usa per amici e conoscenti che ben conoscono i nostri recapiti; pertanto non v’è assolutamente bisogno di farli stampare né sotto il nome e cognome, né in basso al centro, né in altro posto del foglio. L’indicarlo potrebbe avere, ulteriormente, il senso d’un invito a rispondere, cosa ch’è, e non può che essere, differentemente, riservato solo alla sensibilità del destinatario. Ove si dovesse reputare assolutamente necessario l’indicazione dell’indirizzo lo si farà vergandolo a penna sotto il nome ed il cognome. L’indicazione del numero di telefono è riservato ai biglietti da visita. Le dimensioni della carta da lettere dovrebbero essere tali da poterla ripiegare in due nella busta assolutamente non in tre, cosa riservata alla corrispondenza commerciale.



Quanto alla busta taluni propendono per l’abolire l’uso della velina all’interno, personalmente, viceversa, trovo che conferisca un ulteriore diaframma visivo tra la lettera e chi maneggia la busta per le incombenze della consegna; ove si dovesse decidere per sceglierla tale velina dovrà essere d’un bianco leggermente più scuro del foglio o d’un grigio chiarissimo. Oggidì è invalso l’uso della busta rettangolare volgarmente denominata "americana" con lembo di chiusura posteriore orizzontale.



La busta del gentiluomo è ben altra. E’ quasi quadrata, con chiusura triangolare. Sul fronte della busta, nella corrispondenza personale, dovrà esservi unicamente l’indicazione del destinatario, anch’essa vergata a mano. Sul retro può essere ammesso, sul triangolo richiudibile in basso ed al centro dell’angolo, il proprio monogramma. Null’altro.





Si possono evitare altre personalizzazioni propendendo per il sigillo. Si fa colare qualche goccia di ceralacca sull’angolo di chiusura e si suggella il tutto imprimendovi i propri simboli con un attrezzo metallico inciso al negativo.





Per far ciò si può a utilizzare il proprio anello, se ha l’incisione in negativo, o un punzone sul quale possono essere incisi uno scudo araldico, un monogramma,o le proprie iniziali od un segno che, comunque, identifichi in modo certo il mittente della corrispondenza Quanto alla forma della lettera, non è dettata da particolari regole se non quella d’usare una grafia leggibile, il non lasciare rientranze bianche quando si va a capo, e lasciare degli spazi bianchi sui lati che facilitino la lettura. Unica raccomandazione è, ove lo si reputi opportuno, nella frase di commiato, non limitarsi ad un banale "saluti" o "ciao" ma usare qualche espressione più gentile riportata da una frase compiuta senza abbreviazioni del tipo "de.mo tuo …" aff.mo tuo …". Le abbreviazioni, a mio avviso, sono da aborrire sempre e fin anche nella corrispondenza commerciale. Cicerone chiudeva la sua corrispondenza scrivendo "cura ut valeas"; pertanto frasi del genere "abbi i miei saluti ed il segno della mia amicizia" ed altre consimili sono più gentili e più consone agli usi di mondo del gentiluomo. Sulla busta si scrive il nome ed il cognome del destinatario, evitando gli "illustrissimo", "chiarissimo" "gentilissimo" o le orride abbreviazioni "n.h" o "n.d.", e l’indirizzo, possibilmente in modo chiaro e leggibile, null’altro. Quel che è scritto sulla busta serve solo al postino per la consegna;pertanto è sufficiente scrivere "è per l’egregio signore Tizio" oppure "è per la gentile signora Mevia". Se fosse corrispondenza professione si può scrivere, in vece dell’ "egregio signore" o "gentile signora", il titolo professionale posseduto dal destinatario e sempre per esteso e mai abbreviato. L’attribuzione di appellativi, sovente inutili od ipocritamente elogiativi, servono solo per fini adulativi che offendono od al massimo fanno sorridere il gentiluomo che riceve tale corrispondenza a lui così pomposamente indirizzata.



Addentriamoci ora ad esaminare un altro degli strumenti del corredo cartaceo d’un gentiluomo: i biglietti di visita. Il loro nome nasconde lo scopo per cui essi nacquero: erano dei piccoli foglietti di carta leggermente spessa sul quale era scritto il nome e cognome del proprietario e venivano porti al valletto che apriva la porta quando ci si recava, per l’appunto, "in visita". Erano d’una dimensione tale da poter esser riposti dal gentiluomo nel taschino del panciotto.





L’uso di inserirli in appositi contenitori era riservato alle Dame, le quali ne avevano di dimensioni leggermente più grandi rispetto agli uomini. Questi contenitori raggiunsero, in taluni casi, elevati livelli di preziosità, per materiali (tartaruga, argento, oro, smalti) e per raffinatezza di esecuzione; a volte erano istoriati con miniature raffiguranti paesaggi o riportavano incise o applicate le armi della famiglia di appartenenza.





Quest’uso di riporre i biglietti in contenitori nasce squisitamente quale consuetudine femminile, anche se tutt’oggi si vedono uomini che ne hanno di similari anche se più piccoli per dimensione.
Ovviamente non potremo non porci il quesito su quale sia il posto in cui il gentiluomo ripone questi contenitori, sia pur preziosi, non usando, a differenza delle Dame, la borsetta. Sicuramente esso è un oggetto ingombrante che mal figura nelle tasche della giacca, dei pantaloni e men che meno, per ovvietà di dimensione, nel portafogli. Verosimilmente l’antica abitudine di riporli nel taschino del panciotto è il luogo più idoneo per un gentiluomo. L’uso del biglietto di visita non era però riservato alle sole visite; esso veniva usato per porgere gli auguri, per presentare le condoglianze, per accompagnare un fascio di fiori o, quando si partiva per una vacanza o ci si allontanava, comunque, dalle propria dimora, per un lungo tempo, per accomiatarsi dalle proprie conoscenze usando la formula "pour prendre congé"; senza l’uso di abbreviazioni del tipo "p.p.c.". Il biglietto di visita è opportuno sia bianco, di cartoncino; il color panna è accettabile, altri colori sono sconsigliati per un gentiluomo. I caratteri possono essere neri o blu scuro per i biglietti bianchi, marrone scuri o neri per quelli panna. Nell’uso odierno il biglietto di visita ha conservato i suoi originari utilizzi su cui ci siamo intrattenuti prima e ne ha aggiunto altri derivanti dal mutar dei tempi. Un gentiluomo non è oggidì solo un aristocratico agricoltore che trascorre la propria vita tra visite e balli; pur non disdegnando ciò, egli svolge professioni intellettuali, s’interessa di imprese, di commerci e quant’altro. I suoi rapporti, le sue frequentazioni non sono, quindi, solo personali, ma sono anche inerenti la propria attività lavorativa. Tutto ciò ha comportato, perciò, un’evoluzione del primiero utilizzo. Credo si possa, quindi, individuare un triplice uso di questi biglietti: quello personale, quello professionale e quello relativo alle piccole comunicazioni. Quelli per uso personale o professionale dovrebbero sempre avere le dimensioni per poter stare nel taschino del panciotto, quelli per le piccole comunicazioni sono leggermente più grandi, solitamente 12 o 13 centimetri di lunghezza e 8 o 9 centimetri di larghezza e sono sempre corredati di busta.









Quanto al contenuto, su quelli personali, dato l’impiego al quale sono destinati, che continua ad essere quello antico, credo che si possa propendere per farvi stampare, preferibilmente in corsivo inglese, al centro, solo il nome ed il cognome senza alcun titolo né accademico né nobiliare, solo la coroncina di grado sopra il nome e cognome, e, ove del caso, seguiti da un predicato. Unica difformità che potrà essere solo tollerata, è l’indicazione in basso dell’indirizzo.



Se dovessimo, comunque, reputare opportuno, non ostante quanto detto prima, far conoscere il nostro domicilio od i nostri recapiti telefonici o e-mail, sicuramente è preferibile provvedere noi stessi nel consegnarli al nostro destinatario annotandoli a penna su tali biglietti. Altrimenti le nostre povere penne che fine faranno? Saranno destinate all’ingiusto oblio? E chi parlerà di noi, forse dei caratteri uguali per tutti? Naturalmente sono domande retoriche, in quanto un gentiluomo darà sempre posto alla sua grafia, sviluppandone le sfumature grazie alla penna stilografica. Ci auguriamo che il barone Marcel Bich ed il signor Laszlo Birò, i cui cognomi la dicono lunga sull’importanza del ruolo ch’essi ebbero nell’evoluzione della penna, dal Valhalla, ove entrambi dimorano, non ce ne vogliano. Facciamo un’ultima considerazione sui biglietti da visita personali, l’uso dello stemma, sia esso nobiliare o meno. Tali stemmi dovrebbero essere posti in alto a sinistra, possibilmente a secco e, comunque, mai colorati. Credo che, però, si possa convenire che la propria arme sia meglio collocata sul portone della propria dimora od affrescata sul soffitto della sala d’ingresso (mai incorniciata in un quadretto) che su d’un biglietto di visita; ma v’è chi non riesce a rinunciare dal portarsela appresso a tutti i costi. Al riguardo, ma anche in altre occasioni della vita di mondo, non ci si deve dimenticare di quella regola dell’araldica: "chi più ha, meno ha" e farne tesoro. Per quelli professionali il contenuto è assolutamente diverso. In essi devono comparire, al centro, il titolo accademico e solo quello, assolutamente non abbreviato, che precede il nome e cognome senza predicato ed in basso la nostra professione o la nostra attività lavorativa.





Sicuramente le mie successive ulteriori parole sono talmente ovvie che potrà sembrar fuor di luogo che io ne parli; consentitemi, però, di farlo ugualmente poiché se ne vedono di "tutti i colori": sui biglietti da visita professionali non devono essere assolutamente riportati riferimenti ad appartenenza a qualsiasi tipo di Ordine, cavalleresco o meno. Tutto ciò per due motivi: il primo è che a nessuno che venga in contatto con qualcuno per motivi di lavoro interessa sapere se si sia Cavalieri di Malta, Guardiani della Nove Porte, cavalieri dei Santi Maurizio e Lazzaro o altro; il secondo è che l’appartenenza ad un Ordine riveste, assolutamente, la sfera privata e la coscienza d’uomo, pertanto, giammai, se ne farà cenno sui biglietti di visita. Gli Ordini Cavallereschi hanno i propri supporti cartacei e chi spende il nome dell’Ordine di appartenenza in funzione del proprio ruolo all’interno di questo lo fa utilizzando gli stessi.









Ovviamente, su quelli professionali, stemmi e corone sono fuor di luogo e denotano, ove li si usi, affermiamolo pure volgarità ed indegnità a possedere quel che si ostenta con ciò. Naturalmente sui biglietti professionali in basso vi saranno l’indirizzo della sede di lavoro e tutti i recapiti: telefoni, cellulari, e-mail e quant’altro.



Anche per questo tipo di biglietti credo che la scelta d’un cartoncino bianco con una stampa blu scuro o nero sia l’ideale; quanto al carattere si può propendere per lo stampatello. Andiamo, ora ad esaminare i biglietti per la piccola corrispondenza. Essi sono, ovviamente, per uso strettamente personale e, pertanto, varranno le stesse regole di quelli personali da taschino, sia per la carta, sia per il carattere da usarsi per la stampa, che per il colore. Su questi biglietti si scrive qualche riga. Solo che per questi è consentito, per aver un po’ più di spazio per lo scritto, che il nome ed il cognome, ove del caso corona di grado e predicato, possano essere collocati, invece che al centro, in alto a sinistra o vi si faccia imprimere a secco al loro posto il proprio scudo, nobiliare o non nobiliare, possibilmente mai entrambi.









Io preferisco quelli tradizionali con il nome al centro; normalmente, infatti, su questi biglietti si scrivono pochissime parole di rito per la circostanza per cui sono inviati e, quindi, non vi dovrebbe essere bisogno di gran spazio per ciò. Diversamente, se si deve scrivere di più, si invia una lettera.

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