Illustri Cavalieri,
Egregi Visitatori della Cittadella,
nel 1735 Alexander Gottlieb Baumgarten, di ventuno anni, si laureò con la tesi: Meditazioni filosofiche su argomenti concernenti la poesia. Fu la prima volta in cui venne usata la parola “estetica”, che appare molto più antica perché abilmente ricavata dal sostantivo greco aisthesis, ossia sensazione. Nel 1738 lo stesso autore sviluppò le sue teorie nella Metaphysica e nel 1950 le riassunse nella sua opera più importante, che scrisse in latino e intitolò Aesthetica. Baumgarten individuava una percezione dell’armonia universale che si può raggiungere solo attraverso la fede ed una conoscenza, limitata alla qualità o natura delle cose, che non ne aveva affatto bisogno. Questo secondo approccio avrebbe avuto a sua volta due modalità: da un lato la logica, che utilizza il puro intelletto, dall’altro l’estetica, che si basa sui sensi. Secondo il suo inventore l’estetica sarebbe quindi l’arte liberale che, occupandosi della bellezza, produce una conoscenza analogica, in quanto analoga alla ragione. Ciò che comunque ha reso immortale il filosofo tedesco non sono state le idee, quanto la geniale invenzione di un termine che l’umanità attendeva senza saperlo. Il motivo del suo successo è che fonde il bello prodotto dall’arte con quello naturale, cancellando con una sola parola un conflitto che non avrebbe potuto essere superato con un milione. Nel significato originario estetica è sensibilità al bello, attenzione che comporta una comprensione delle cose che può culminare nel pensare in modo bello, attitudine espressa dalle arti e in particolare dalla poesia. Tutti concetti scaduti come uno yoghurt di sei anni. Già da un secolo l’implacabile nichilismo delle avanguardie ha travolto i concetti di bellezza e di arte, dimostrando la morte della seconda con l’inutilità della prima. Se il violento slancio futurista, il corrosivo sarcasmo dadaista e la sofisticata coprofilia pop sono riuscite a generare quelle stesse “sensazioni conoscitive” che la filosofia in stile Baumgarten riservava all’arte come espressione della bellezza, può voler dire solo due cose: 1) L’arte è morta, o meglio è ben diversa da ciò che si riteneva. 2) La bellezza non è mai esistita, o meglio la sua concessione esclusiva in tema di visione dei significati ulteriori è temporaneamente, se non definitivamente sospesa. Qualsiasi spiegazione può essere presentata come verità. Basta demolire la tesi opposta, cosa sempre possibile perché il genere umano praticamente non parla d’altro che di problemi e nessun problema umano può presentare una soluzione che non ne generi altri equivalenti o peggiori. L’umanista è particolarmente agguerrito nel difendere le proprie teorie. Chiama la sua cocciutaggine coerenza, la recinta come un orto e per tutta la vita vi coltiva la stessa visione del mondo, dell’arte, di qualsiasi cosa e in sostanza di sé stesso. Pur sapendo che di orticelli come il suo ce ne sono tanti, è convinto della validità delle sue idee perché lo fanno stare bene. Ed eccoci al punto: sentirsi nel vero è l’unico modo per stare bene e credere è l’unico modo per possedere una verità. Lasciamo stare la fede religiosa, per carità, non vorrei attirare sulla Cittadella una fatwa da Kabul ed una scomunica da Roma. Mi riferisco a un modo laico di credere, un atteggiamento umanista in quanto accetta con convinzione la partecipazione alla natura umana. Ecco perché nel nido altissimo di quelle avanguardie relativiste, per definizione incapaci di credere in qualcosa che non fosse la negazione di qualcos’altro, si covava il male di vivere. Tutto venne fatto con sincerità e non senza qualche profitto per la vicenda umana, su questo non c’è dubbio. E’ bene però sapere prima possibile quanti e quali danni facciano un fertilizzante o carburante, di per sé utilissimi. L’uomo classico è sempre umanista, perché vede in ogni cosa un significato umano, un valore intorno al quale costruire o un disvalore cui resistere perché non distrugga cose, coscienze e i preziosi legami tra esse. Come tale non può accettare la sconfitta dell’arte e tanto meno della bellezza. Per chi delle superfici sa vedere le profondità, l’estetica non è una mera critica dell’aspetto. La sua essenza non è infatti nell’esteriorità, che tecnicamente è un doppio comparativo di fuori, cioè apparenza alla quarta potenza. La radice di estetica è in “aisthanomai”, che significa percepire coi sensi. Dunque il suo compito è comprendere come alcune realtà ci fanno sentire, non descrivere cosa sembrano. Noi uomini classici non accetteremo che la bellezza venga trascinata nel gorgo relativista, che ruggisce minaccioso il suo mantra “tanto è lo stesso”. Vediamo nella bellezza una forza educatrice dei singoli e delle civiltà; una via per cogliere, attraverso il piacere che l’annuncia, qualcosa dell’ineffabile armonia. Ehi, ma non c’è qualcosa del dimenticato Baumgarten? La differenza è che lui ascriveva l’estetica alla metafisica, comprensione avulsa dalla fede, mentre oggi l’estetica non può avere senso se non presupponendola. Dopo che ne è stata dichiarata la morte presunta, l’arte e la bellezza sono una concreta spinta verso l’alto solo per chi è convinto che vivranno in eterno. Gli altri, privi di bussola, non si accorgono che l’immagine che tanto coltivano li costringe a vagare in un labirinto di specchi che fa sembrare ogni direzione possibile, per poi ricondurre immancabilmente al punto di partenza.
Cavallereschi saluti
Giancarlo Maresca