Oggetto: Piccolo Dizionario Cavalleresco: La tradizione

Giancarlo Maresca

da Napoli, martedì 3 gennaio 2017 alle ore 03:59:07

Illustri Cavalieri,
Egregi Visitatori della Cittadella

nel libro della Genesi: leggiamo: “E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. La si consideri parola di Dio o un capolavoro di letteratura fantasy, di certo la Bibbia è un’opera illuminante. Tanto per cominciare, già nella prima pagina ci mostra in piena azione il potere generativo delle parole, ripreso da Giovanni nell’inquietante versetto “In principio era il verbo, il verbo era presso Dio ed il verbo era Dio”. Se in tanti le hanno considerate il fattore determinante della creazione, non è tempo perso cercare di capirle un po’ di più.

La fisica dei quanti ci avvicina sempre più a concepire, per ora a livello di particelle subatomiche, un’equivalenza o almeno un’ambiguità tra onde e materia. Ebbene, la parola pronunciata è vibrazione e quella scritta sedimento. Conoscere gli archetipi che vi sono nascosti, il cui potere evocativo facilmente perfora le nostre sopravvalutate barriere razionali, significa usarle meglio e sapersene difendere, essendo ben noto che la penna uccide più della spada. La tradizione, pietra di cui è fatta questa Cittadella dei Cavalieri, vuole che l’uomo sia stato fatto in modo da somigliare a Dio. Possiamo anche pensare che sia stato l’uomo a creare un Dio simile a lui, o ancora che siano stati alcuni uomini, tra cui coloro che hanno redatto la Genesi, a volere che ci considerassimo immagine di Dio. Non cambia nulla, perché la vicenda ivi raccontata ha influenzato comunque e profondamente la nostra concezione del mondo.

Quel che vorrei rimarcare è che troviamo naturale che solo poco più avanti Lui non la prenda affatto bene quando Adamo ed Eva acquisirono parte delle sue prerogative cibandosi dall’albero della conoscenza del bene e del male. Con questo fu il primo a dire che essere uguali non significa essere pari, cosa che rimarrà sempre piuttosto difficile da digerire. Per evitare che i suoi intraprendenti pupilli diventassero anche immortali, blindò il secondo e ben più proibito albero della vita dietro le sue truppe speciali di cherubini e cacciò dall’Eden i nostri progenitori caricandoli con pesanti condanne. Ma se non siamo stati concepiti per sapere tutto, né per vivere per sempre, in cosa consiste quella somiglianza più volte sottolineata e così profondamente avvertita? Come del resto accade con Alice nel Paese delle meraviglie, o Il Signore degli anelli, il bello delle opere ad alto contenuto simbolico è cercare di decifrare il pensiero dell’autore, che in questo caso potrebbe esserlo sia del testo che di noi stessi.

Propongo di partire da un attributo di Dio così importante da diventare un secondo nome. Infatti lo riteniamo buono, giusto, misericordioso eccetera, ma per definirlo lo chiamiamo Creatore. L’apparente contraddittorietà nei comportamenti di Dio si dissolve ritenendo che si sia compiaciuto nel trasmetterci, o noi ci si sia voluto arrogare, proprio quel carattere a lui così peculiare. Il problema è che essendo uguali ma non pari siamo creativi ma non creatori, altrimenti potremmo fare due cose identiche anche nel più piccolo particolare. La creatività è così insita nella nostra natura che viene fuori anche quando non servirebbe. Lo notiamo quando vorremmo copiare qualcosa, da un abito ad una ricetta. Alla fine non ci riusciamo, perché ci risulta impossibile non aggiungere, togliere o sostituire qualche particolare. Volontariamente o meno che sia Ciò spiega anche l’altrimenti sibillino detto: “Il diavolo (cioè la tentazione e la caduta) è nel dettaglio”. Naturalmente non siamo tutti o in tutto così.

Esiste da sempre un atteggiamento dello spirito, che chiamiamo tradizione, che sottrae noi e le cose che amiamo a una mutazione determinata da una forza evolutiva senza controllo. Il cambiamento è la legge e la conservazione l’eccezione, non viceversa. Suona come il ribaltamento del senso comune, eppure le cose stanno così. Tradizione viene da tradere, ovvero trasmettere, un programma che ci fa capire due cose.

La prima è che il sapere tradizionale ci viene affidato da chi lo detiene e ci appartiene nella misura in cui a nostra volta lo consegniamo ad altri. Il suo valore è nel creare un legame tra coloro che lo condividono, vivi o morti che siano, cioè nel fare le cose in un certo modo, mentre se ci si limita ad apprenderlo rappresenta una nozione come le altre. La tradizione è il collante, il segno di riconoscimento di tutte le collettività durevoli, e in quanto tale il nucleo di ogni identità.

La seconda è il contenuto dinamico, che ci avverte che il vino della tradizione si conserva versandolo, non chiudendolo in cantina. Nel trasmetterlo, anche il modo di fare più antico subisce l’influenza delle progressive generazioni, ma la tradizione resta viva finché non ne viene intaccato lo spirito originario. Il suo esoscheletro di formule e gesti può infatti adeguarsi a nuove esigenze senza cambiare stile e scopo, come avviene al serpente che cambia pelle restando sempre lo stesso.

Grazie al suo senso del sacro, la tradizione costruisce spazi dove sentirsi sicuri innescando un andamento ciclico del tempo, in cui le emozioni tornano come avviene a Natale o alla vendemmia. Il rapporto con la tradizione è come quello con la  natura. Vi siamo immersi dalla nascita eppure ci è consentito ignorarla, almeno sino a quando non ci viene a cercare. Le lingue, le religioni, la giustizia, tutti gli apparati che costituiscono la civiltà non sono che tradizioni. Quando peggiorano è perché la mancanza di una trasmissione e di una fede spontanea consentono che siano travisate da interessi o fanatismo. E’ solo allora che ci accorgiamo, come per la natura, che ogni loro problema è nostro.

Giancarlo Maresca

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Ivan Dughera

Illustre ed inarrivabile Gran Maestro, accetti questa glossa al Suo richiamo alla tradizione, destinata per prima cosa a me stesso, una riflessione ad alta voce che desidero condividere.


Si venera a Rodi, San Fanurio, un santo insolito che fa ritrovare  ciò che è andato smarrito. Il Cristianesimo ortodosso è più pneumatico di quello cattolico,   distratto dall’assolutismo del sociale. Per questo è famigliare a chi cerca la tradizione. Benché non accolto nell’agiografia cattolica, San Fanurio, è stato di certo caro a Dio ed ora dà forma nelle  chiese e nelle icone bizantine,  forse  a quel sentimento dominante che lo ha reso gradito al Creatore: la speranza incrollabile di ritrovare tutto ciò che è stato perduto. Compreso il senso delle cose, anche lontano, alla fine dei tempi.

Scavava la civiltà oscurata del commento, l’arte paziente di accumulare, strato dopo strato, i significati profondi dei testi sacri e poetici e portava a compimento la tradizione, come ci insegnano i maestri ebrei, rabbini o scrittori, filosofi e artisti, diventando essa stessa parte della rivelazione o mattone della realtà. La riflessione del Gran Maestro richiama al centro  un concetto, ostracizzato dalla repubblica delle idee perché indispensabile, come l’autorrità, precipitosamente da  contestazioni miopi. Ma la sua essenza è difficile da definire sopratutto per chi la voglia veramente comprendere. E’ bene sottolineare l’impostura del politicamente corretto, il balbettare dei pensieri debilitati, è giusto mettere tra parentesi le decostruzioni e le demitizzazioni. La tradizione è il loro contrario, postula l’esistenza di una verità immemoriale, trasmessa attraverso le generazioni. Forse va ricercata ovunque si crede nella possibilità di trovare oltre le  forme ciclicamente mutevoli , la sostanza immutabile dell’idea, intuita  o se preferiamo  rivelata nel passato e trasmessa. E’ sinonimo di sapienza e messaggera delle virtù. Forse la tradizione è ineffabile, come la ratio della bellezza, perché rivela tutto ciò che conosciamo ignorandolo (Elemìre Zolla), come il nome segreto delle cose. Se vogliamo coglierla possiamo procedere à rebours dalla periferia del Creato dove le leggi non scritte si mostrano meno nascoste; nelle cose, comuni si coglie il destino dell’ordine, verso cui tutto rimanda, nell’armonia musicale che molta parte della tradizione vela.

Se vogliamo, possiamo intendere per tradizione l’essenza di un modello che  determina nella storia un’identità, che muta senza rinunciare a ciò che è essenziale. Ma forse potrà giovare a chi cerca il bene e il bello immaginare che essa si palesa per non essere veduta e richiede la certa speranza nel senso nascosto delle cose, per essere ritrovata. Con l’aiuto di san Fanurio.


Conoscere la musica altro non é se non comprendere l'ordine di tutte le cose che costituiscono l'universo e il piano divino secondo il quale sono state ripartite: infatti l'ordine delle singole cose, tutte portate in un'unità secondo un disegno artistico, produrrà attraverso una musica divina una sorta di concerto dolcissimo e ricolmo di verità (Asclepius, 13).


Bolzano, 5 luglio 2018.                                                        Ivan Dughera

da Bolzano, giovedì 5 luglio 2018 alle ore 16:17:52
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