Illustri Cavalieri,
Egregi Visitatori della Cittadella
nel libro della Genesi: leggiamo: “E Dio disse: «Facciamo l'uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra». Dio creò l'uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. La si consideri parola di Dio o un capolavoro di letteratura fantasy, di certo la Bibbia è un’opera illuminante. Tanto per cominciare, già nella prima pagina ci mostra in piena azione il potere generativo delle parole, ripreso da Giovanni nell’inquietante versetto “In principio era il verbo, il verbo era presso Dio ed il verbo era Dio”. Se in tanti le hanno considerate il fattore determinante della creazione, non è tempo perso cercare di capirle un po’ di più.
La fisica dei quanti ci avvicina sempre più a concepire, per ora a livello di particelle subatomiche, un’equivalenza o almeno un’ambiguità tra onde e materia. Ebbene, la parola pronunciata è vibrazione e quella scritta sedimento. Conoscere gli archetipi che vi sono nascosti, il cui potere evocativo facilmente perfora le nostre sopravvalutate barriere razionali, significa usarle meglio e sapersene difendere, essendo ben noto che la penna uccide più della spada. La tradizione, pietra di cui è fatta questa Cittadella dei Cavalieri, vuole che l’uomo sia stato fatto in modo da somigliare a Dio. Possiamo anche pensare che sia stato l’uomo a creare un Dio simile a lui, o ancora che siano stati alcuni uomini, tra cui coloro che hanno redatto la Genesi, a volere che ci considerassimo immagine di Dio. Non cambia nulla, perché la vicenda ivi raccontata ha influenzato comunque e profondamente la nostra concezione del mondo.
Quel che vorrei rimarcare è che troviamo naturale che solo poco più avanti Lui non la prenda affatto bene quando Adamo ed Eva acquisirono parte delle sue prerogative cibandosi dall’albero della conoscenza del bene e del male. Con questo fu il primo a dire che essere uguali non significa essere pari, cosa che rimarrà sempre piuttosto difficile da digerire. Per evitare che i suoi intraprendenti pupilli diventassero anche immortali, blindò il secondo e ben più proibito albero della vita dietro le sue truppe speciali di cherubini e cacciò dall’Eden i nostri progenitori caricandoli con pesanti condanne. Ma se non siamo stati concepiti per sapere tutto, né per vivere per sempre, in cosa consiste quella somiglianza più volte sottolineata e così profondamente avvertita? Come del resto accade con Alice nel Paese delle meraviglie, o Il Signore degli anelli, il bello delle opere ad alto contenuto simbolico è cercare di decifrare il pensiero dell’autore, che in questo caso potrebbe esserlo sia del testo che di noi stessi.
Propongo di partire da un attributo di Dio così importante da diventare un secondo nome. Infatti lo riteniamo buono, giusto, misericordioso eccetera, ma per definirlo lo chiamiamo Creatore. L’apparente contraddittorietà nei comportamenti di Dio si dissolve ritenendo che si sia compiaciuto nel trasmetterci, o noi ci si sia voluto arrogare, proprio quel carattere a lui così peculiare. Il problema è che essendo uguali ma non pari siamo creativi ma non creatori, altrimenti potremmo fare due cose identiche anche nel più piccolo particolare. La creatività è così insita nella nostra natura che viene fuori anche quando non servirebbe. Lo notiamo quando vorremmo copiare qualcosa, da un abito ad una ricetta. Alla fine non ci riusciamo, perché ci risulta impossibile non aggiungere, togliere o sostituire qualche particolare. Volontariamente o meno che sia Ciò spiega anche l’altrimenti sibillino detto: “Il diavolo (cioè la tentazione e la caduta) è nel dettaglio”. Naturalmente non siamo tutti o in tutto così.
Esiste da sempre un atteggiamento dello spirito, che chiamiamo tradizione, che sottrae noi e le cose che amiamo a una mutazione determinata da una forza evolutiva senza controllo. Il cambiamento è la legge e la conservazione l’eccezione, non viceversa. Suona come il ribaltamento del senso comune, eppure le cose stanno così. Tradizione viene da tradere, ovvero trasmettere, un programma che ci fa capire due cose.
La prima è che il sapere tradizionale ci viene affidato da chi lo detiene e ci appartiene nella misura in cui a nostra volta lo consegniamo ad altri. Il suo valore è nel creare un legame tra coloro che lo condividono, vivi o morti che siano, cioè nel fare le cose in un certo modo, mentre se ci si limita ad apprenderlo rappresenta una nozione come le altre. La tradizione è il collante, il segno di riconoscimento di tutte le collettività durevoli, e in quanto tale il nucleo di ogni identità.
La seconda è il contenuto dinamico, che ci avverte che il vino della tradizione si conserva versandolo, non chiudendolo in cantina. Nel trasmetterlo, anche il modo di fare più antico subisce l’influenza delle progressive generazioni, ma la tradizione resta viva finché non ne viene intaccato lo spirito originario. Il suo esoscheletro di formule e gesti può infatti adeguarsi a nuove esigenze senza cambiare stile e scopo, come avviene al serpente che cambia pelle restando sempre lo stesso.
Grazie al suo senso del sacro, la tradizione costruisce spazi dove sentirsi sicuri innescando un andamento ciclico del tempo, in cui le emozioni tornano come avviene a Natale o alla vendemmia. Il rapporto con la tradizione è come quello con la natura. Vi siamo immersi dalla nascita eppure ci è consentito ignorarla, almeno sino a quando non ci viene a cercare. Le lingue, le religioni, la giustizia, tutti gli apparati che costituiscono la civiltà non sono che tradizioni. Quando peggiorano è perché la mancanza di una trasmissione e di una fede spontanea consentono che siano travisate da interessi o fanatismo. E’ solo allora che ci accorgiamo, come per la natura, che ogni loro problema è nostro.
Giancarlo Maresca