Oggetto: Civiltà e progresso

Giancarlo Maresca

da , sabato 10 settembre 2016 alle ore 10:40:37

Illustri Cavalieri,
Egregi Visitatori della Cittadella,

chiamiamo classica per eccellenza l’arte greca e latina per la naturalezza con cui coglie la parte eterna dell’uomo. Il mito, strumento onirico di una potente introspezione psicologica, consente all’artefice di far sentire tutti partecipi di una ricchezza che ci rende immortali in quanto immutabile: i sentimenti. Scultura e architettura si sono interessate delle pulsioni più nobili, la tragedia di quelle oscure e la poesia di entrambe.Poiché le forze ancestrali che si agitano nel nostro cuore non sono cambiate, non possiamo che ammirare coloro che erano riusciti a cogliere tutti i punti essenziali di ciò che siamo, come se ne avessero una mappa andata perduta. Il dio, il condottiero, l’atleta, presentati come archetipi appaiono manifestazioni universali di fronte alle quali non ci sentiamo più foglie nel vento del destino, bensì montagne in un paesaggio.

Quel che vorrei mettere in luce è la centralità della conoscenza di quel complesso scenario. La nostra vita, ma direi l’intera storia, è fatta di desideri, tra i quali i sentimenti sono di gran lunga i più forti. Di qui l’importanza di un’educazione sentimentale, che a livello elementare vuol dire individuarne la natura e dar loro un nome. Non è scontato come sembra. Quanti giovani, quanti adulti, saprebbero o avrebbero il coraggio di scomporre e qualificare l’inclinazione negativa che provano per una persona nelle componenti a densità crescente di antipatia, disistima, diffidenza, irritazione, ostilità, avversione, risentimento, inimicizia, sdegno, disprezzo, rancore, invidia, gelosia e via così fino all’odio? Tutti sono concordi nell’affermare che conoscersi, che in fin dei conti non significa altro che questo, sia la cosa più difficile ed utile di tutte. Un vocabolario delle emozioni non esiste, perché sono più numerose delle parole e così, prima e più che ai nomi, siamo abituati a collegarle a una storia, a dar loro un volto. La nostra educazione sentimentale passa quindi dalla letteratura e dal cinema, che ne hanno raccolto un campionario ricco di sfumature. La vendetta, il sentimento narrativamente più coinvolgente, è celebrata da capolavori come l’Odissea, il Conte di Montecristo e Kill Bill. L’amore, il più prolifico, va da Saffo a Catullo, dai Promessi Sposi al Dottor Živago.

Per dare un nome alle cose che si hanno dentro, la prima cosa da fare è togliere loro la maschera. Anche le nazioni dovrebbero tener presente la composizione dell’animo umano, se avessero a cuore la sua felicità, ma a questo livello occorre una visione più ampia, una saggezza che tenga conto che la natura dell’uomo è la contraddizione e quella della società la conflittualità. Per favorire o vietare, promuovere o dissuadere, premiare e punire, prima degli aspetti utilitaristici il legislatore deve tener presenti i sentimenti in gioco non solo nella loro identità, ma anche per la reciproca interazione e la ricaduta sulla comunità. La soluzione equilibrata di queste equazioni a infinite incognite è ciò che chiamiamo giustizia e buon governo, che a sua volta sono il fondamento della civiltà. Avviene spesso che chi disponga del potere d’indirizzare un Paese ritenga che un certo lotto di desideri, che come abbiamo visto sono l’altra faccia dei sentimenti, abbia solo aspetti positivi in quanto riconosciuto a larga maggioranza. In questa pratica meccanica della democrazia, dove delle idee si contano i sostenitori e non si pesano le argomentazioni, divieti e obblighi sono diventati il principale strumento d’intervento della politica. I cittadini li percepiscono come un segnale di autorevolezza, addirittura vi trovano conforto vedendovi la ramanzina o lo schiaffo con cui il buon padre sanziona il figlio.

Così, giorno per giorno, tra un nuovo modo di schedarci ed un altro per limitarci, il ricco capitale di libertà accumulato dalla Rivoluzione francese sino alla lotta generazionale degli anni ’60 si sta disperdendo non nell’indifferenza, ma addirittura nell’entusiasmo generale. Tutto appare lecito, anzi auspicabile, in nome dei totem onnipotenti della sicurezza, della salute e recentemente di un’equità fiscale ancora più odiosa dell’evasione. Il tagliasigari non puoi imbarcarlo, domenica non si circola per abbattere le polveri sottili, i contanti sono vietati. Tra leggi e tasse, paure e lamenti, i locali chiudono sempre più tardi eppure la gente torna a casa sempre meno contenta. Il divieto di fumo ha cancellato gli american bar, umiliato le case da gioco, non erano anch’essi patrimonio dell’umanità? La lotta al terrorismo sdogana provvedimenti e dispositivi di controllo sempre più capillari, arrivando a proporre di legittimare l’intrusione nei computer personali.

Il mondo si fa piccolo e piatto, prono di fronte al mito di una vita facile e sicura perché tanto c’è chi decide tutto e lo fa per il nostro bene. Dimentica che già Adamo ed Eva avevano trovato questa stessa formula insopportabile, come quei doni di nozze che tengono conto dei gusti di chi li fa e non di chi li riceve. Credo proprio che la sobrietà obbligatoria del politically correct ci stia dando alla testa, facendoci dimenticare di che pasta siamo fatti.

Uno dei congressi di filosofia del gusto organizzati dal Cavalleresco ordine si intitolava Progresso e Civiltà. Le conclusioni raggiunte dai relatori furono che il progresso è crescita nel riconoscimento del valore della vita, ma il Cavaliere lo subordina alla civiltà, che della vita cura e protegge la qualità.

Cavallerescamente
Giancarlo Maresca

 

 

 

 

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